Ortona (CH): Convegno “Vino e Salute” a cura dell’Associazione Italiana Sommelier Abruzzo

di Luca Matarazzo

Esistono temi scottanti di grande attualità anche nel mondo del vino. Ad Ortona, il 19 marzo scorso, si è cercato di affrontare per gradi la materia dei recenti dibattiti in tema “Vino e Salute”.

Un convegno curato dall’Associazione Italiana Sommelier Abruzzo guidata dal Presidente Angela Di Lello nel territorio della Delegazione di Chieti – Delegato Adriana Terreri – ed alla presenza delle autorità associative regionali.

Ha collaborato alla riuscita dell’evento, con grande affluenza di pubblico, l’Enoteca Regionale d’Abruzzo, parte attiva dell’intero movimento enologico locale.

Gli interventi sono stati realizzati dal dottor Lorenzo Russo, da Angelo Radica Presidente Nazionale Città del Vino, oltreché dalla presidente Di Lello e da Manuela Cornelii referente A.I.S. per la didattica.

Ovviamente come 20Italie non vogliamo e non possiamo prendere posizioni da osservatori, seppur privilegiati, di ciò che accade ad un settore che macina fatturati in crescita.

E proprio dai numeri dobbiamo iniziare con un bilancio nazionale più che positivo dato dalle vendite di vino, raggiunta ormai la cifra record di quasi 15 miliardi di euro annui. Un italiano su due dichiara di consumare vino, con leggera prevalenza degli uomini rispetto alle donne, ma con una diminuzione complessiva del consumo abituale.

Il nodo della questione riguarda la recente richiesta (giugno 2022) in sede europea di apporre un’indicazione sulle etichette di pericolo per la salute dovuto ai consumi di alcool. Quanto conta la dose giornaliera ed esiste una quantità massima sotto la quale si possono evitare gravi complicazioni al proprio stato fisico?

Fonti dell’Istituto Nazionale Tumori rassicurano circa le dosi da rispettare per evitare di incorrere, ad esempio, in danni seri al fegato ed all’apparato gastroesofageo. Una o massimo due porzioni di vino al giorno (una singola porzione è pari a circa 125 ml per il vino – 330 ml per una birra – 40 ml per un distillato) sembrerebbero non aumentare il rischio di tumori a bocca, laringe, faringe ed esofago.

Un litro di vino invece, assunto con frequenze ripetute, esporrebbe il consumatore ad un rischio pari al 300% di danno tissutale al cavo orale e del 50% per il fegato.

Lievi benefici li si possono ottenere dall’interferenza positiva dell’acido folico presente nei legumi e nelle verdure a foglia larga. Inoltre il vino è da considerarsi comunque proporzionalmente meno dannoso di altri fattori come inquinamento, fumo di sigaretta ed uso di pesticidi.

Bisogna però porre la massima attenzione, ed è lo scopo principale delle Associazioni di categoria come la stessa Associazione Italiana Sommelier, sul fatto che l’alcool crea assuefazione e dipendenza. Non è importante il semplice concetto di “bere”, quanto piuttosto quello di “degustare” senza mai eccedere.

Un ruolo che necessita la divulgazione di un corretto stile di vita già nel percorso di apprendimento scolastico obbligatorio. I giovani d’oggi saranno i coscienti consumatori di domani; ognuno (stampa inclusa) deve fare la sua parte.

Ben vengano, dunque, iniziative di sensibilizzazione come questa: ricordiamoci che l’alcool non è un alimento e non dovrebbe essere assunto a stomaco digiuno.

Bollini no… ma tanta consapevolezza!

Puglia: Andria – Castel del Monte – “QOCO Un filo d’Olio nel piatto”

Comunicato Stampa

Provate a immaginare QOCO Un filo d’Olio nel piatto in uno dei luoghi prediletti dall’imperatore Federico II di Svevia, Castel del Monte!

La vasta e geniale apertura sull’universo che contraddistinse quel genio assoluto, autore perfino di un trattato gastronomico con ricette dal mondo, passava infatti anche proprio da una cucina fatta di sovrapposizioni di culture, influssi, e suggestioni le più diverse.

Non poteva allora che tenersi in questa terra, raccolta intorno a Castel del Monte, QOCO, il Concorso Internazionale per Giovani Cuochi del Euromediterraneo, nato nel 1999 e che dopo 10 anni di stop rinasce quest’anno per  forte volontà del Comune di Andria, l’organizzazione dell’Associazione Nazionale Città dell’Olio e la collaborazione di Slow Food Puglia e Strada dell’Olio di Castel del Monte.

Dieci gli chef in concorso, per gran parte “Generazione Y”: quasi tutti al di sotto dei 30 anni! Paesi di provenienza: Belgio, Francia, Germania, Italia (Paese con 2 chef in concorso), Paesi Bassi, Slovenia (Paese con 2 chef in concorso), Spagna, Turchia. Tutti i cuochi, selezionati da JRE- Jeunes Restaurateurs d’Europe, saranno affiancati da cuochi tutor del territorio con i quali lavoreranno insieme così da rendere ancora più stretti i legami e lo scambio. Andria si pone così come snodo e crocevia di culture gastronomiche tra Castel del Monte e il mare.

Già nella giornata di venerdì 24 marzo, tutti i concorrenti, terminato il breafing mattutino con il presidente di giuriaAlfonso Jaccarino, si distribuiranno in dieci ristoranti del territorio della provincia di Andria/Barletta/Trani dove in serata contribuiranno ad un menù a quattro mani, frutto di confronto e di suggestive contaminazioni gastronomiche forti di una visione contemporanea, e nel segno dell’olio extravergine pugliese, testimone di una mediterraneità profonda. Sorta di “gemellaggi” gastronomici che prendono il nome di “QOCO Fusion”.

Quartier generale e palcoscenico principale dell’evento sarà Villa Carafa, un’antica masseria rivisitata nel segno dell’ospitalità, nel cuore della Murgia andriese a pochi chilometri proprio da Castel del Monte.

Per tre giorni Villa Carafa diventerà una vera e propria “food court” dove gli chef la mattina del sabato si cimenteranno ai fornelli e presenteranno i piatti alla Giuria presieduta da Alfonso e Ernesto Iaccarino Chef e grandi padroni di casa del tristellato Don Alfonso 1890di Sant’Agata sui Due Golfie nella quale tra gli altri siederà anche Nino Di Costanzo, Chef Patron bistellato di Danì Maison di Ischia,Giuseppe Iannotti, Chef Patron bistellato del ristorante Krèsios di Telese e Felice Sgarra Chef Patron stellato di Casa Sgarra di Trani.

La giuria, “eptastellata”,sarà chiamata a valutare i piatti in base ai seguenti parametrigusto, originalità, presentazione, equilibrio generale. Dirimente sarà la valorizzazione ed esaltazione dell’Olio Evo.

La triade dei primi 3 classificati sarà rivelata nella serata di sabato 25 marzo al termine di una CENA DI GOLA aperta al pubblico, presso la stessa Villa Carafa. Nel corso dell’evento tutti gli chef in gara si presenteranno al pubblico raccontando il loro piatto in un appassionante percorso da nord a sud del Mediterraneo e viceversa.

QOCO per i viaggiatori colti e curiosi sarà una meraviglia insolita che vedrà la Puglia dialogare a tavola con Paesi diversi e culture gastronomiche profondamente distinte.

L’atmosfera si rivelerà contemporanea, giovane, frizzante, il mood cosmopolita.

Analogo a quella che si respirava alla corte dello Stupor Mundi, l’imperatore gourmet che era anche un “salutista”  assai attento alla cucina, come dimostrano i suoi due celebri ricettari. In definitiva un felice connubio tra territorio e apertura al mondo, sempre seguendo il filo conduttore di “… un filo d’Olio nel piatto”!

Ai dieci giovani chef in concorso, dunque, il compito di provare a riscrivere una narrazione gastronomica moderna di un luogo, la Murgia, in cui l’olivo ha una presenza monumentale e fa del paesaggio rurale un’autentica opera d’arte. Con l’olio extravergine a rappresentare il DNA  di quella cucina.

QOCO a sua volta farà di Andria, e di quelle terre foodie, un laboratorio del gusto, un anello di congiunzione tra passato e futuro attraverso una nuova visione.

Piatti e ricette in cui si parte dalla memoria che diviene germe creativo e fermento. Poi però libero spazio all’esplorazione e alla creatività individuale con le storie e gli stili che s’incrociano. Per guardare avanti al futuro.

Il FUORI QOCO

Iniziative organizzate in collaborazione con Strada dell’Olio Castel del Monte

QOCO DI STELLE

giovedì 23 marzo

PRIMA DELLA PRIMA Donato De Leonardis, Chef del Don Alfonso 1890 al San Barbato Resort di Lavello (PZ) è ospite di Felice Sgarra, Chef di Casa Sgarra di Trani, entrambi stellati, per una serata d’apertura nel segno di una mediterraneità profonda, in terre “dove all’ulivo si abbraccia la vite”.

venerdì 24 marzo

Lancio di tre nuovi piatti inerenti QOCO che rimarranno in menu fino al 1 maggio:

QOCOINHOUSE – Pane e Oliopresso il ristorante Casa Sgarra, Trani

QOCOESSENZA – Spaghettone, pane, olio evo, aglio, peperoncino, seppia alla bracepresso il ristorante Quintessenza, Trani.

QOCOBEACH – Ostrica, favetta e sivoni presso il ristorante Canneto Beach2, Margherita di Savoia.

venerdì 24 marzo

QOCO FUSION Cene a 4 mani in 10 ristoranti ad Andria, Barletta, Bisceglie, Margherita di Savoia e Trani. Dieci cene aperte al pubblico con menu realizzati dagli chef locali insieme ai 10 chef ospiti (1 per ogni locale) dando vita ad una vera e propria girandola di stili e sapori mediterranei. Il piatto presentato in ogni ristorante rimarrà in carta fino al 1 maggio.

Qoco Fusion Award: gli ospiti a cena voteranno i piatti presentati con assegnazione del Premio consumatori al primo classificato. Sorteggio di coupon omaggio per cene e olio Evo.

sabato 25 marzo

VERDE SPONTANEO Tour sulla Murgia alla scoperta di erbe spontanee e della flora arborea accompagnati da una guida ambientaleSosta a Castel del Monte.

SPIRITI e SOSPIRI Tradizione e spiritualità si fondono al Museo Diocesano in una degustazione che unisce in abbinamento i dolci tipici delle monache, preparati secondo antiche ricette nei conventi del territorio, a vini da dessert, tra cui in particolare il Moscato di Trani.

sabato 25 marzo e domenica 26

MERCATO DELLA TERRA E DEI PRESÌDI DEL GUSTO, Andria, Chiostro di San Francesco a cura di Slow Food Puglia.

TUTTE LE INIZIATIVE DI QOCO e FUORI di QOCO sono APERTE AL PUBBLICO

www.qoco.info

L’abbinamento vino cioccolato è possibile? Ne parliamo con Giovanni Battista Mantelli di Venchi 1878

di Serena Leo

Il pairing tra vino e cioccolato esiste ed è unconventional. A dirlo su 20Italie è Giovanni Battista Mantelli di Venchi artisti del cioccolato dal 1878.

L’Italia del buon vivere ha sempre il suo fascino e, così come il vino, anche il cioccolato sa farsi notare. Nei corsi di perfezionamento per operatori del settore e sulle nostre tavole, però, ci siamo sempre chiesti se vino e cioccolato possano essere compagni di merende.

Per rispondere a questo e molti altri interrogativi, abbiamo chiesto a “quelli bravi” di guidarci. Con Giovanni Battista (per tutti “GB”) Mantelli, mente creativa della storica azienda piemontese Venchi, esploreremo i meandri dell’abbinamento non convenzionale, fuori dagli schemi, scoprendo le potenzialità del cioccolatino del futuro. Sarà davvero perfetto con un calice di vino?

Giovanni Battista Mantelli

Via i pregiudizi anzitutto!

Per analizzare uno spaccato della realtà enogastronomica italiana come quella del cioccolato è necessario sapersi scrollare di dosso ogni pregiudizio, dotandosi di flessibilità, attenzione al gusto quasi maniacale, senza tradire il piacere personale. Insomma, il cioccolato deve farci stare bene proprio come il vino. E per chi è un wine addicted ad ogni costo, dall’antipasto fino al dolce, che si fa? Ci risponde chi sta dalla parte del cioccolato, GB Mantelli.

Prima di tutto occhio alla tecnica: il cioccolato è un alimento ricco di tannini quasi quanto il vino, quindi su questa base si costruisce un incontro di sapori che genera l’abbinamento perfetto. Partendo dal presupposto che l’amante del vino è una mente in purezza è bene munirsi, prima di iniziare, di una grande apertura mentale rivolta alla sperimentazione. La mia tecnica personale sposa sempre la prudenza nell’assaggio, quindi inizio col vino analizzandone il profilo aromatico, successivamente il gusto e poi ci aggiungo il cioccolato, compiendo le stesse operazioni. Il risultato è un bivio che va giudicato solo in base al nostro gusto. Se le sensazioni positive coincidono berrò altro vino e mangerò cioccolato, in cerca della soddisfazione completa in fatto di abbinamento. Non voglio banalizzare il tutto, ma con questa procedura si mette chiunque nelle condizioni di appassionarsi alla degustazione vino e cioccolato”.

Possiamo divertirci aldilà della “tradizione”?

Il cioccolato nel corso del tempo è diventato sempre più pop, versatile, adatto ad appassionare anche le menti meno avvezze al cambiamento. Per chi intende il pairing canonico come intoccabile e quasi estremo – cioccolato con vino rosso – è il momento di aprirsi a nuove prospettive. Combinazioni ancora più fantasiose, che possono riscrivere il concetto di abbinamento, esistono e sono solo da mordere. A questo punto abbiamo chiesto a Mantelli se il cioccolato, nello specifico il cioccolato del futuro firmato Venchi, possa accompagnare un vino bianco o rosati dalle note fruttate più intense come quelle della frutta di bosco? Si può arrivare ad osare così tanto?

La parte più eccitante è proprio questa, scoprire nuove frontiere e toccare universi inesplorati anche con il cioccolato. Con gli abbinamenti per concordanza e contrasto, ormai si può fare di tutto. Ad esempio una ricetta con un profilo aromatico che esalti l’intensità di frutti rossi o di bosco, stimola i nervi del piacere. La combinazione cioccolato bianco salato con semi di cacao tostato, che include patata viola e lamponi croccanti azotati, è perfetta con un vino rosato, specialmente se si parla dei rosati di Puglia”.

E con un vino bianco dalla spiccata acidità e mineralità?

Qui cercherò la dolcezza e sapidità del cioccolato bianco salato, caratteristiche minerali per un effetto quasi da umami. Il cioccolato bianco di questa caratura, ad esempio può reggere anche un formaggio a pasta molle, di conseguenza anche un vino bianco”.

Un ricordo va anche alla sua terra di origine ed al Barolo che si sposa perfettamente con il cioccolato gianduia.

Ad esempio il Barolo, vino difficilmente abbinabile per eccellenza, con un cioccolatino Gianduia ci sta perché rispetta la tradizione, il territorio e quindi piace. Se poi si vuole stravolgere tutto va bene anche azzerare le lunghe distanze, puntando sulla nocciola delle Langhe e i passiti di Puglia”.

L’identikit del cioccolatino del futuro

Viene da pensare che Venchi stia lavorando a un concetto di cioccolato che possa smarcarsi dai canoni della tradizione, combinando fave di cacao provenienti da zone vocate con ingredienti di “casa nostra”. Il risultato è un prodotto in grado di integrare culture e territorio. Allora, GB Mantelli, è proprio questo il futuro che ci aspetta?

Il cioccolato del futuro è intelligente e ci renderà intelligenti, perché sa stimolare tutti i sensi, esaltare l’esperienza gustativa in ogni minima particella. Per mutuare un termine giapponese l’effetto deve essere quello del kokumi, cioè conferire agli alimenti maggiore gradevolezza al palato con elementi mirati e ben studiati. L’obiettivo è aumentare il gusto percepito, pienezza e complessità del sapore. Il cioccolato del futuro sarà così, cercherà di equiparare l’effetto di addentare un piatto unico con diversi gradi di intensità strutturale, ovviamente su tutti non può mancare la croccantezza. Con il brand esaltiamo ricette che esaltano le sensazioni vegetali, proprio come la selezione di nibs che ricorda quasi l’oliva nera, ottima sapidità e l’abbraccio del cacao”.

Insomma, tutti elementi che un calice di vino proprio non sembrano escluderlo. Ma nella nuova collezione primavera-estate c’è un cioccolatino già pronto per accostarsi, in maniera vincente, al vino italiano?

Si, abbiamo l’evoluzione dei nostri best-seller e nuove creazioni, tutto ciò che si può adattare perfettamente anche al vino italiano, se vogliamo”.

Sulla presenza del vino nel cioccolatino che verrà non abbiamo ancora una prova certa; possiamo dire che non esistono confini fino a quando si continuerà a fare ricerca, che sarà da aiuto per esplorare nuovi universi gustativi. E allora perché non pensare a una pralina con un vino sulla scia dei già esistenti cioccolatini liquorosi?

Il vino è talmente ricco d’acqua che non è facile trovare una concentrazione di sapori da intrappolare all’interno di un cioccolatino fondente senza un adeguato supporto. Lascia un’apertura verso scenari ancora inesplorati. Ad ogni modo è possibile sorprendersi sempre se con la materia prima si ragiona solo in termini di alta qualità”.

“Alle radici del Barolo” nel cuore di Taurasi

di Luca Matarazzo

Barolo e Taurasi: semplice ossimoro o simboli di lontane appartenenze?

A presentare il nuovo libro edito da Slow Food, scritto da Armando Castagno con introduzione storica di Lorenzo Tablino e fotografie di Clay Mclachlan, è stato l’autore stesso accompagnato da una straordinaria degustazione di 6 campioni di Barolo.

Parlarne proprio a Taurasi, nel cuore dell’Irpinia, ha una valenza doppia. Prima di tutto per l’importante affluenza di professionisti del settore, stampa e semplici appassionati che ha reso l’atmosfera carica di emozioni quasi sacrali. Secondariamente, e cosa non di meno conto per il sottoscritto, per lo strano parallelismo che ha sempre legato due areali profondamente diversi.

Eppure, a rileggerne i tratti salienti della storia, qualche legame sottile ed elastico resta presente, ben al di là della (discutibile) citazione da vox populi “Il Taurasi è il Barolo del Sud”!

Superando le ovvietà, bisogna riconoscere ai produttori delle Langhe la capacità di scommettere sulla rinascita di un intero movimento. Lo hanno saputo fare, come sempre accade nel gioco tra le parti, conservando storicità e tradizione, ma non tralasciando le spinte delle giovani leve verso tecnologia e ricerca di qualità. La vigna da sola, pur straordinariamente bella e produttiva, non può bastare. A buon intenditor…

Nelle splendide sale del Castello Marchionale, alla presenza di Alessandro Barletta fiduciario della condotta Slow Food Colline dell’Ufita e Taurasi, di Alessandro Marra ed Adele Granieri coordinatori, tra le molteplici attività, della sede di Napoli di Banca del Vino e del consigliere del Comune di Taurasi Pierluigi D’Ambrosio, ha preso forma l’incontro tra il nobile Nebbiolo, con le sue nuance delicate, proseguito a cena in un clima di amicizia con alcune espressioni sublimi del forzuto Taurasi.

Del secondo spazio ne parleremo in altra occasione; oggi la scena e le parole vanno tutte ad Armando Castagno, penna conosciuta in ambito nazionale ed internazionale, grazie all’amore per la Francia e per molti territori del vino italiano.

Armando Castagno

“Armando, il rapporto Barolo – Italia sta diventando un affaire solo per pochi e per le esportazioni, o ci sono speranze di comprare a buon mercato anche per i clienti del nostro Paese?”

Risposta: “La speranza esiste, a patto di cercare oltre il banale, oltre lo scontato. I Barolo che hanno visto aumentare il valore sul mercato è frutto a volte di speculazioni del mercato stesso e non della volontà del singolo produttore. Molti giovani si affacciano alle luci della ribalta con piccoli appezzamenti, magari conseguiti con debiti personali e abbiamo ancora tante cose da scoprire. I giovani vanno investiti di tale responsabilità, con mentalità aperta da parte nostra e vini che abbiano un prezzo sensato”.

La seconda domanda non poteva prescindere, invece, il confronto con le storicità di altre Nazioni: “In una scala da uno a dieci come vedi il vino italiano a confronto di altre nazioni come la Francia?

Risponde Armando in maniera netta: “per me i produttori non hanno nazionalità, sono tutti conterranei. Tralasciamo le questioni geopolitiche, credimi i nostri vini non hanno nulla da temere paragonati ad altri”.

Comincia così la dimostrazione sul campo di quanto affermato, con la proposta di sei eccellenze scelte direttamente dal caveau della sede di Banca del Vino a Pollenzo. Un progetto di Slow Food che mira ad accrescere la cultura su territori lontani, mescolando nord e sud in una sorta di unità enologica scevra da campanilismi e preconcetti.

I produttori che aderiscono tesserandosi possono poi rivendere le proprie etichette alla Banca stessa, che le conserva in cantina in attesa di incontri divulgativi come questa occasione. Useremo la scala a punteggio, indicando per onestà non una vera graduatoria (non necessaria al racconto), ma solo con il fine di agevolare il lettore.

Campione n.1: Barolo 2016 “proprietà in Fontanafredda” – Fontanafredda – un frutto possente, forse a tratti eccessivamente nervoso. Nota speziata elegante sulla parte finale, resta ancora contratto per esuberanza giovanile. 89/100

Campione n.2: Barolo 2015 Monvigliero – Fratelli Alessandria grande succo, essenze floreali tipiche, dimostra buona evoluzione e termina su mineralità stuzzicante. 92/100


Campione n.3: Barolo Riserva 2013 Bussia “Vigna Mondoca” – Oddero la perfezione non esiste, neppure per il Barolo. Non al meglio della forma, uno di quei casi (pochi per fortuna) che bisogna saper accettare. Al netto delle note secche ed asciuganti, resta comunque l’integrità di piccoli frutti di bosco che merita giusta attenzione. Ci asteniamo dal punteggio, sperando di riassaggiarlo in futuro.

Campione n.4: Barolo Brunate 2008 – Poderi Marcarini – straordinario. La fase boisée è attenta e curata. Ottimo succo con riverbero di agrume e iodio. 94/100


Campione n.5: Barolo Riserva 2005 – Casa E. Mirafiore – note di salsa di pomodoro, fungo e sottobosco. Fase ferruginosa davvero intrigante, peccato per una puntina calorica sul finale. 91/100


Campione n.6: Barolo “Liste” 1996 – Borgogno – ormai pressoché introvabile. Rivela ancora acidità elevatissime da arancia sanguinella fusa al salmastro. Appaga dall’inizio alla fine, pur nella sua severa asuterità. 96/100

L’Etna raccontato da Salvo Foti – I Vigneri

di Titti Casiello

Non può mai essere casuale un incontro con Salvo Foti – I Vigneri

Attraverso le sue parole, riservate, pacate e con l’attenzione di chi tiene molto a qualcosa, prende forma il linguaggio di un vino dell’Etna.

“Tengo molto alla mia terra, ma parto dalla possibilità, da quello che vorrei da lei. Poi da quello che intuisco che la natura può darmi. E infine da quello che posso ottenere. Non c’è un’idea precisa, la concretizzo solo quando vivo questi elementi”.

Salvo è uno che nella vita si è fatto un sacco di domande. Uno che più che dare soluzioni, ha creato degli interrogativi “perché non è facile fare un vino di territorio, ancor di più se sei sull’Etna”.

Non basta una facile propaganda in vista di un’elezione politica, ma ci vogliono azioni concrete, cultura  e dedizione e qui, a Milo – nel versante est etneo – le parole concretizzano il loro reale senso enciclopedico nelle scelte fatte da Salvo e dai suoi figli Simone e Andrea.

“Quinconce”, ad esempio, è la concretizzazione di quello che potremo chiamare “vino del territorio”. Non è solo una parola bella, semanticamente parlando, ma anche utile. Il quiquonce è un gioco di squadra, un dado fermo al numero 5, un sistema di allevamento dove le piante sono disposte a intervalli regolari secondo un reticolo a maglie triangolari. E tutto ciò permette alla vite di ben svilupparsi radicalmente e soprattutto ad una maggiore profondità.

Una faticaccia immane la sua gestione, che esclude del tutto la meccanizzazione consentita ad esempio dal guyot (i cui filari iniziano a moltiplicarsi sull’Etna). “In questo modo il vigneto si autoregola come un organismo. Un sistema di coltivazione finalizzato alla meccanizzazione, invece, non può tenere conto di questa biodiversità”.

Salvo è cresciuto in tale biodiversità, prima come figlio di contadini e poi durante i suoi studi di enologia a Catania. E l’ha portata in giro con sé, con le prime consulenze dal Cavalier Benanti agli inizi degli anni 90, e quindi in un susseguirsi di esperienze tra diverse aziende etnee e siciliane. Per arrivare a decidere, nel 2001, di dar vita al proprio personale credo enoico con la sua azienda I Vigneri.

“Perché la vite, per quanto addomesticata, rimane sempre una pianta selvatica, come l’uomo. E se la cultura dell’uomo non è innata, al pari la vite per crescere ha bisogno della mano e della mente umana. Il problema,  però, è che se l’uomo si accanisce, la vite si incattivisce e perde la sua personalità. A quel punto  il vitigno non sa più esprimersi e non riuscirà a farlo neppure il territorio in cui è coltivato”.

Salvo Foti – I Vigneri

Parole, queste, che mi spingono a dire che è di luogo che si dovrebbe discutere, piuttosto che soffermarci sulle varietà coltivate. Il luogo, secondo Foti, diviene interprete di un vitigno. Ci vorrebbe una grande coscienza sociale che vada al di là delle larghe maglie concesse dai disciplinari, e sarebbe opportuno ascoltare ciò che un luogo ha effettivamente da raccontare e conseguentemente da offrire.

Luogo, termine sacro. Non è un caso il nome scelto per la sua azienda. Così facendo rivive, nei suoi vini e nella memoria collettiva, quell’antica maestranza catanese che nel 1435 creò le basi per una professionalità vitivinicola in Sicilia e che oggi si ritrova in una comunanza di idee tra alcuni produttori: i Vigneri, I Custodi delle Vigne dell’Etna, Federico Graziani, il californiano Rhys, Gulfi a Chiaramonte Gulfi, Guglielmo Manenti nel Vittoriese e Daino a Caltagirone.

Costoro sono ormai “in armonia con se stessi e quindi con tutto quello che ci circonda: ambiente, natura, il vulcano Etna, di cui si è parte, e non al di sopra” . Tutti riuniti in onore di un unico credo.

Le viti de I Vigneri sono dislocate su 5 ettari in tre diverse aree della cosiddetta Muntagna, epiteto affettuoso per indicare l’Etna: a Milo, a Castiglione di Sicilia ed a Bronte. Tante viti ultracentenarie, di cui molte a piede franco, con una densità per ettaro da far sembrare i filari un’unica grande linea intervallata da pali di castagno e da muretti a secco, splendide cornici dell’umano lavoro. 

A Milo, ad 800 metri di altitudine nella parte est di Idda, giace il Carricante  dei vini “Aurora”, “Vigna di Milo” e “Palmento Caselle”. A Castiglione di Sicilia, in Contrada Porcaria, troviamo il Nerello (Mascalese e Cappuccio) che canta da soprano con “Vinupetra”;  mentre nel comune di Bronte, nel vigneto più alto dell’Etna, a  1.200 metri di altitudine, nasce un rosato da vigna “Vinudilice” mescolanza di uve bianche e rosse raccolte e vinificate tutte insieme.

Il territorio è impervio, dalle condizioni estreme, tanto che nelle annate più difficili se il vino non raggiunge, in modo naturale un grado alcolico dell’11%, è prodotto in versione spumante con il Metodo Classico “Vinudilice Brut Rosè”.

Ma di tutte le referenze c’è poi quella che esprime a pieno titolo l’idea concreta di un luogo: ed è l’Etna Rosso “I Vigneri”. Ogni bottiglia prodotta porta con se il compito di non far cadere, nell’oblio della memoria, l’antica civiltà vitivinicola etnea e la sua tradizionale vinificazione in Palmento. E che Salvo Foti, fa rivivere con questa etichetta.  

Si segue un indice morale anche nella cantina della famiglia Foti. Non ci sono tecnicismi occulti, o racconti per iperboli. Qui le cose sono rese edibili non appena si varca l’entrata. Anche perché è tutto lineare tra fermentazioni spontanee, travasi che seguono le fasi lunari e affinamenti in contenitori diversi: acciaio, legno e anfora, a secondo della referenza.

Se così è la vigna così è la cantina, una prosecuzione, quanto mai connaturata della filosofia di Salvo e dei figli Simone e Andrea.

Tra i molteplici descrittori che si potrebbero utilizzare per i loro vini, forse quello più rispondente è l’estrema sensibilità umana. Nei calici par quasi sentire la piovosità di Milo, l’irrequietezza del Carricante o la solarità del Mascalese, probabilmente perché i pensieri dei Foti per una sana vitivinicoltura bussano direttamente ai cancelli d’ingresso.

VINUPETRA 2020, ad esempio, è da bere d’un fiato, non da assaggiare. Il vino stesso lo richiede. C’è sangue e umore in esso. Sembra quasi pungente, lasciando una lunga traccia vivida e sottile al palato, in un giocofòrza tra acidità, tannino e sapidità. Qui non si parla di muscolarità, men che meno aria di dolcezze in confettura. C’è ginepro, timo ed il bosco che rumoreggia. Caldo e pulsante come il cuore di ogni essere vivente.

“Storie di vite – Alla scoperta del vino tra itinerari e racconti”

di Titti Casiello

“Un altro libro sul vino, potrebbe pensare qualcuno”. Così si autodenuncia, nella sua introduzione a Storie di vite – Alla scoperta del vino tra itinerari e racconti, il wine-teller e scrittore Salvo Ognibene, aiutato nella stesura dell’opera dal prezioso contributo di Gherardo Fabretti, Filippo Moschitta e Antonello De Oto.

Un libro diverso sul tema potrebbe, invece, pensare un pubblico attento al termine della sua lettura. Si pone a metà strada tra un saggio ed un racconto, intrecciando la storia del vino con quella dei vignaioli e ricordando testualmente dai suoi estratti come terreno, vitigno e condizioni atmosferiche necessitano sempre della mano sapiente dell’uomo, senza la quale nulla sarebbe comunque possibile.

Perché sono loro, i “Maestri di vino” così definiti da Fabretti, gli ambasciatori della Terra che hanno creato le condizioni affinché il loro vino riflettesse, e amplificasse, il prestigio di un intero territorio e con esso, dunque, anche di una comunità. Nello scorrere dei paragrafi, suddivisi in quattro capitoli ognuno a firma di un singolo autore,  si osserva una costante pressoché univoca, che mira a sollecitare il lettore verso un’immagine del vino non come un prodotto a se stante, ma come un bene che ha accompagnato lo sviluppo umano e territoriale diventando esso stesso, dunque, un prodotto della cultura e della storia.

Salvo Ognibene

Una storia, però, che non sempre è andata di pari passo con quella delle sue norme. Nulla di così tanto diverso di quanto non avvenga in ogni Stato politico che si rispetti, anche per ben altre e diverse questioni, tra chi gioca di coalizioni e chi di opposizioni pur di far valere le proprie scelte individuali. Parimenti è stato (e sarà) con i Legislatori del vino, dove in un avvincente resoconto storico, emerge un quadro dei grandi successi vinicoli italiani tra chi è riuscito a parlare di territorio in un raggio d’azione delimitato da una Denominazione, e chi, invece, ha dovuto faticare (i resilienti o facinorosi che dir si voglia) per crearsi uno spazio pur di interpretarlo secondo il proprio credo.

C’è chi “è stato capace [..] di promuovere un territorio [..] con a monte le geniali intuizioni di Giulio Ferrari  e che oggi compone la squadra del Trento DOC” e chi, invece, si muoveva “con fastidio tra  le regole di un Disciplinare” come Marco De Bartoli che ha dovuto scardinare uno dei più intricati regolamenti di Italia, quello della Doc Marsala, dimostrando, con ostinato rifiuto il non cedere di un solo millimetro dinanzi alle avversità: una storia di rinascita grazie al Vecchio Samperi e che, oggi, custodisce amorevolmente l’antica tradizione siciliana del perpetuo. Ma “Storie di vite” è ricco anche di nozioni che vanno oltre le informazioni più attuali, “Oggi lo Stato con più consumo pro capite è Città del Vaticano con circa 60 litri a persona all’anno”, o le domande ormai di tendenza ad esempio per definire ad libitum i vini biologici e biodinamici e si sovrappongono parti storiche, dalla religione, alla letteratura e alla prosa che ci ricordano da dove veniamo e dove stiamo andando.

Informazioni che se aprono nuovamente la mente al lettore: il vino visto come strumento di riscatto sociale. Ciò è accaduto alle porte di Napoli, in una città assediata all’epoca dal “malaffare”.  Chiaiano sembrava destinato ad una triste sorte, ma il sentire profondo di una comunità che voleva risorgere ad ogni costo, risiederà per sempre nei due ettari di vigneto di Falanghina gestiti dalla Cooperativa (R)esistenza. Un bene agricolo confiscato alla camorra e dedicato alla memoria di un purista della legalità come era Amato Lamberti. Tanta la paura alla prima vendemmia, “poi però incontrammo Gerardo Vernazzaro di Cantine Astroni [..] che sposò il progetto”.   Il libro continua così, tra commossi ricordi e realtà, centodieci pagine che si fanno leggere piacevolmente, pensando che di vino c’è sempre qualcosa di bello da scrivere.

“Storie di vite. Alla scoperta del vino tra itinerari e racconti”

Dario Flaccovio Editore

Prezzo di vendita proposto: 11 euro

Team Costa del Cilento: appuntamento con lo chef Paolo Barrale di Aria Restaurant

Ricordo bene i sapori proposti da Paolo Barrale, attuale chef di Aria Restaurant a Napoli, una Stella Michelin. Ho avuto la fortuna di poterlo osservare in diverse occasioni quando è stato per lungo tempo a Sorbo Serpico tra le cucine dei Feudi di San Gregorio, dopo le esperienze a La Pergola sotto la guida di Heinz Beck. Di lui ho sempre apprezzato la chiarezza espositiva delle pietanze, fatta di grande sostanza e della giusta apparenza come richiesto dai canoni moderni di giudizio. Un lavoro certosino, scevro da particolari stravolgimenti delle materie prime, che punta dritto al cuore della pratica gastronomica: l’identità organolettica.

Nulla si crea, tutto si trasforma ed in questo bisogna ammettere che l’ostentazione forzata di tecniche e di voli pindarici a volte sfugge di mano alle regole principali di un buon piatto, valutato in primis dagli occhi, ma senza dimenticare il gusto fattore preponderante e vettore di catalogazione nella memoria a lungo termine. Matteo Sangiovanni, presidente dell’associazione Team Costa del Cilento ha voluto proprio chef Barrale ad istruire i corsisti presenti con ricette equilibrate tra tradizione e innovazione. Raccontiamo il percorso di giornata direttamente dalle parole emozionanti di quest’ultimo, siciliano di origine e già perfettamente adattato (ed adottato) dalla Campania.

Il vino tra business, comunicazione e storytelling.  Chiara Giorleo

Abbiamo raggiunto Chiara Giorleo, dopo l’intervista rilasciata al blog di Hubitat, per raccogliere in video la sua testimonianza. Esperta e giornalista enogastronomica freelance, con diverse incarichi internazionali di primissimo piano, tra i quali segnaliamo l’attuale posizione di referente per l’Italia nel concorso sull’enoturismo World’s Best Vineyards (WBV) e co-curatrice della guida ai 50 Top Rosé italiani, nonché Giudice nel concorso internazionale dell’International Wine Challenge di Londra (IWC). 

Tra le firme prestigiose della nostra testata 20 Italie, Chiara Giorleo è in grado di offrire sia uno sguardo panoramico sul settore, sia di offrire approfondimenti verticali su singole realtà ed eccellenze territoriali, tracciano trend molto interessanti. Abbiamo chiesto a Chiara di raccontarci come è arrivata a svolgere la sua professione attuale, per poi addentrarci con lei nel concetto di brand, applicato al mondo del vino. Nel suo discorso, il concetto di brand aderisce perfettamente sia addosso a singole etiche, sia a livello di territori regionali, riuscendo a conquistare un popolarità su scala internazionale. Questo circolo virtuoso che dalla notorietà della singola cantine, si estende a interi territori riesce, in talune eccellenze, a generare un turismo del vino, che per taluni brand territoriali ha raggiunto una popolarità decisamente vincente.

Tra i consigli che Chiara Giorleo darebbe oggi ai social media manager, impegnati a comunicare le cantine, sente di raccomandare la massima attenzione. Ci tiene a sottolineare quanto il vino sia un campo minato, ricco di trappole. La vicinanza con il settore food la porta a fare dei parallelismi e a tracciare differenze sostanziali. A differenza del food, il visual del vino, infatti, è molto più complicato: foto che ritraggono il vino in calice, lontano da occhi tecnici, rischiano di assomigliarsi e di certo, non hanno la stessa potenza evocativa che potrebbe avere una pietanza appena pronta e ben impiattata. Il packaging, nella visione della Giorleo, può svolgere una funzione rilevantissima nella cattura dell’attenzione, specie dei bevitori poco esperti. In questo modo, si potrebbero avvicinare nuove schiere di consumatori, che oggi restano invece lontani, a causa di un’attenzione all’estetica delle etichette ancora troppo amatoriale. Su neuromarketing del vino, ci sarebbe da fare tantissimo proprio per correggere distorsioni cognitive che si creano ricorrendo a colori inappropriati, ad esempio.

Chiara raccoglie il nostro stimolo ad indicarci percorsi validi di aggiornamento delle competenze degli esperti di vino. In primo luogo, si sofferma sulla ripresa dei numerosi eventi ed appuntamenti di degustazione guidate, sia in presenza sia a distanza. Ci sono per gli esperti degustazioni tecniche come le verticali, quindi stesso vino ma annate diverse, che sembrerebbero sfumature ma non per un palato esperto. Ad ogni modo, un’altra direttrice che può accomunare sia le ricerche online dei tecnici sia quelli di chi aspira a diventarlo, riguarda la ricerca degli opinion leader che a livello territoriale sono possono rappresentare le tipicità dell’area geografica di pertinenza. E stando in Campania non può che citare il blog di Luciano Pignataro.  
Ci sono infine due approcci diversi nella ricerca delle fonti online, vale a dire quelle quantitative, più attente ai numeri, in grado di rappresentare le condizioni materiali del mercato e quelle qualitative orientate alla narrazione del vino. Chiara ci confida che sul versante quantitativo, una delle sue fonti preferite è The drink business, che le offre una panoramica sui vari mercati, tra cui anche il vino. Poi ci sono le ricerche più focalizzate sullo storytelling del produttore, perché i numeri riescono a svelare solo una minima parte di questo mondo. L’annata da sola potrebbe raccontarci tantissimo sul territorio e sul suo mondo agricolo di riferimento. E come non considerare la storia imprenditoriale familiare, le sperimentazioni, i successi e i vari tentativi realizzati prima di affermare un’etichetta. E qui l’aggiornamento avviene sui siti delle aziende che si sanno raccontare online, caso per caso.    

Veritas, palato indipendente per spiriti liberi.

Il Veritas è la finestra su Napoli che il patron Stefano Giancotti ha deciso di aprire anni fa, per lanciare la sua sfida sulla cucina, sul buon vino e sulla convivialità.

Indipendenza, autenticità, libertà. Ed il lusso di essere ‘piccoli’, perché solo in un piccolo ristorante si possono curare maniacalmente i dettagli.
Ma è un lusso in blue jeans, informale e accogliente.
Tutto questo è il Veritas, un nome latino che racconta bene non solo il territorio, Napoli, ma anche lo stile che caratterizza il ristorante.
Il Veritas trova oggi la sua sponda naturale in Carlo Spina, lo chef di Soccavo che viene da un’esperienza ricca, fatta di una gavetta intensa e rigorosa nella disciplina, ma anche di tanta contaminazione.
Carlo Spina incontra con naturalezza la filosofia identitaria e libertaria del Veritas.La ricerca della qualità non è mai limitata al piccolo territorio, la sperimentazione – e la sfida – è fare della cucina una sintesi di culture, con una tecnica che mette insieme tante esperienze per restituirne una: l’esperienza “Veritas”, riconoscibile ed autentica.

Il gusto e il sapore sono al centro della cucina di Carlo Spina che può essere definita voluttuosa, intensa, seducente.
Dopo un recente restyling dei locali, oggi il Veritas si presenta con un ambiente accogliente e allo stesso tempo sofisticato, dal design deciso. 
Ai piatti di Carlo Spina si affianca la cantina di Alfredo Raucci, sommelier dall’approccio passionale e concreto. Al Veritas non solo è possibile consumare al calice l’intera offerta della cantina, ma si può godere della consulenza di Alfredo, che spazia sapientemente tra piccoli produttori, vignaron, artigiani e artisti del vino.
Un ‘identità libera da pregiudizi, questo è ciò che il Veritas ricerca attraverso la sua “finestra”. Per scoprirne di più, ecco l’intervista completa di Francesco Costantino:

osteria arbustico

Dai monti al mare: un viaggio andata e ritorno

Nascita e formazione in altitudine, da Valva a Roccaraso. Una bella e lunga esperienza con Niko Romito, quando Reale era a Rivisondoli, poi un lungo giro in cui incontra Nino Di Costanzo, Valeria Piccini e Gennaro Esposito, prima del ritorno a Valva, dove nel 2011, insieme a suo fratello Tomas, nasce osteria Arbustico, proprio nella casa di famiglia.
Pochi anni e arriva l’ambito riconoscimento della Stella Michelin, che fa di questo piccolo borgo di montagna una meta di gourmet e appassionati, anche se il viaggio per raggiungerla, non è dei più comodi. Questo, oltre alla dimensione rurale iniziano a stare stretti, il desiderio di potersi aprire a un pubblico più ampio ha la meglio sulle ragioni del cuore.
Il nuovo corso di Osteria Arbustico parte dal mare, dalle porte del Cilento, dove la storia ha lasciato le tracce più vive della Magna Grecia, dove la storia moderna la stanno scrivendo proprio le stelle, quelle della ristorazione.
La cucina di Cristian è riconoscibile, essenziale, diretta. L’abitudine alla stagionalità è congenita. Terra e Mare in egual misura, senza mai eccedere nell’articolazione di un piatto, pochi elementi, ma sempre di “sostanza”: il perfetto riflesso del carattere dello chef.
Il rispetto delle persone, della loro attenzione e del tempo che dedicano alla sua cucina, deve essere ripagata con un’emozione che lasci un segno, nulla di banale, niente di convenzionale.
Oggi Arbustico ha una location d’eccezione, una sala importante, una cantina strutturata ma soprattutto una grande cucina, sia nelle dimensioni che nella tecnica. Il resto lo lasciamo alla chiacchierata che piacevolmente ci siamo fatti qualche giorno fa a Paestum. Se volete conoscerlo meglio, basta guardarla.