Viticoltori di Greve in Chianti: vecchie annate, nuovi modi per raccontare il Chianti Classico

I Viticoltori di Greve in Chianti si ritrovano nuovamente e stavolta propongono alla stampa una delle rare occasioni per parlare di vino in modo insolito. Sembra strano, ma quando si parla di degustazione vecchie annate alcuni storcono il naso, pensando a qualcosa che abbia a che fare col mondo dei trapassati.

Vini ossidati, mal conservati o, perché no, persino difettati, che celano le mancanze di un territorio dietro al concetto abusato di “emozione”. Altri invece, bramano dal desiderio di capirci qualcosa, parlando bene di crisantemi e ricordi plumbei e male di catrame e suoi derivati. O viceversa.

Esiste poi un luogo in Toscana, tra Firenze e Siena, dove tali dubbi si annullano. Dove piuttosto che narrare di annate si preferisce ripercorrere le tappe degli stili e dell’evoluzioni tecniche e commerciali, partendo dall’assunto che a far male un Chianti Classico ce ne vuole…

Il comune di Greve solo relativamente di recente, nel 1977, è entrato a far parte di diritto dell’areale denominato Classico e delimitato in maniera quasi immutata già dai tempi del Bando Granducale del 1716, potendo aggiungere al suo toponimo cittadino la dicitura “in Chianti”. Ed in quelle generazioni, parliamo degli anni ’70 e ’80, l’arte di essere viticoltore si contornava di tecniche empiriche nate sul campo, come la vigna tipica alla toscana mista da varietà foriere di uve bianche e rosse, raccolte insieme durante la vendemmia.

La regola del Barone Ricasoli esisteva da un secolo e consigliava, per dare serbevolezza ed eleganza ai vini eccelsi, di utilizzare solo Sangiovese, Canaiolo, Colorino e autoctoni tipici per l’epoca. Le uve bianche, però, hanno saputo in tanti casi preservare nel tempo quelle freschezze da sbuffi d’arancia sanguinella, impronte indelebili della tipologia.

In un pazzesco Chianti Classico Riserva 1979 Castello di Verrazzano, al di là di un colore ormai mattonato, resta un anelito sanguigno e speziato dal tannino quasi palpabile, che spinge l’assaggiatore a chiudere gli occhi sospirando di goduria. La zona di Montefioralle, con le sue vette, ha certamente contribuito a dare vigore, ma alcune cose non si possono comunque spiegare: vanno accettate e basta.

Così il Chianti Classico Riserva 1988 “Il Picchio” Castello di Querceto, bucolico, subliminale, puro sussurro d’arancia rossa e china Martini dal finale sapido e ferruginoso. O il Chianti Classico Riserva 1993 “La Prima” Castello di Vicchiomaggio, quando John Matta lo vinificava utilizzando solo acciaio, evitando sovrastrutture in tempi dove le maturazioni complete spesso latitavano. Un piccolo saldo di Canaiolo e Colorino e l’assaggio risulta ancora materico dopo tre decadi, ricco d’amarene gelatinose e liquirizia.

Da qui, da gente che ha dovuto superare la crisi gravissima del comparto culminata con quella del dramma del metanolo, si è passati alla seconda fase produttiva con l’arrivo di tecnologie ed enologi di fama consolidata. Arrivano i legni piccoli, le estrazioni, i cambi agronomici. Persino coloro che utilizzavano vecchi fusti grandi ne vengono, in qualche maniera, influenzati dal nuovo corso.

Chianti Classico 1994 Querciabella vede la presenza degli internazionali Cabernet e Merlot; la “new wave” prende piede in fretta, garantendo maggior prontezza di beva e tannini mansueti. Da allora e fino ai primi anni 2000, il trend ha visto un po’ ovunque prodotti dalla linea panciuta, apprezzatissimi a quei tempi, meno adesso. La qualità media si è però elevata salendo di gradino in gradino fino ai vini d’oggi, espressioni eleganti delle varie zone vocate.

Che sia il succo piacevole di Panzano, il tannino fitto della Destragreve, le potenze di Greti e Chiocchio e le acidità vibranti di Montefioralle unite ai tratti ancora verdi di Dudda e Lucolena (avvantiaggiati nel futuro dai cambiamenti climatici in atto), il vero fil rouge è l’assoluta aderenza al territorio. Meno schiettezza, ma tanta sostanza, come nel Chianti Classico 2022 di Viticcio o nel Chianti Classico 2021 di Terreno, reputati i migliori tra gli assaggi dei “giovani” scelti per la Masterclass condotta da Cristina Mercuri, candidata Master of Wine, in una rovente Sala Consiliare del municipio di Greve in Chianti.

Da sinistra Cristina Mercuri Wine Educator, Victoria Matta presidente Viticoltori di Greve in Chianti e Paolo Sottani sindaco di Greve in Chianti

Il Presidente dei Viticoltori di Greve in Chianti, Victoria Matta, non può che rallegrarsi dei risultati raggiunti nel calice, pur consapevole che il percorso è ancora in salita e nuovi ostacoli dovranno essere superati.

L’evento è terminato con le proposte gastronomiche degli chef Ariel Hagen del ristorante una stella Michelin “Saporium” di Simone Geri del “Ventuno Bistrot”, di Simone Caponnetto del “Locale” tutti di Firenze e poi di Giulia Talanti del “Dek” di Prato e Mattia Parlanti di “Palazzo Tiglio” a Bucine (AR).

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Luca Matarazzo

Giornalista, appassionato di cibo e vino fin dalla culla. Una carriera da degustatore e relatore A.I.S. che ha inizio nel lontano 2012 e prosegue oggi dall’altra parte della barricata, sui banchi di assaggio, in qualità di esperto del settore. Giudice in numerosi concorsi enologici italiani ed esteri, provo amore puro verso le produzioni di nicchia e lo stile italiano imitato in tutto il mondo. Ambasciatore del Sagrantino di Montefalco per il 2021 e dell’Albana di Romagna per il 2022, nonché secondo al Master sul Vermentino, inseguo da sempre l’idea vincente di chi sa osare con un prodotto inatteso che spiazzi il palato.

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