Romagna: Coriano Wine Festival 2023, “il grande Sangiovese Romagnolo al centro del villaggio”

“Romagna e Sangiovese, sei sempre nel mio cuore”

Così recita il famoso brano di Raoul Casadei, a suggellare l’eterno binomio fra un territorio e un vino. Anzi, fra un popolo e un vino.

I romagnoli: quella gente che nemmeno le alluvioni può scalfire, quelle persone contraddistinte da estrema generosità e genuinità. Li puoi riconoscere nitidamente alle sagre di paese, con gli stand gastronomici dove il profumo di piadina e salsiccia si percepisce da chilometri e il valzer ti trasmette allegria anche se hai appena litigato con la morosa (termine dialettale per fidanzata).

Proprio come la 55ª edizione de La fiera del Sangiovese, svoltasi a Coriano (RN) il 19 e 20 agosto 2023. Da quest’anno diventa anche Coriano Wine Festival, una “mostra mercato” del Sangiovese con i migliori produttori provenienti dalle 16 sottozone ufficialmente riconosciute dal disciplinare del Romagna DOC Sangiovese.

Gli ingredienti sono quelli giusti: 33 produttori, coinvolti nei banchi d’assaggio con le anteprime dei loro Sangiovese, 5 guru del vino a livello nazionale (Maurizio Alongi, Paolo Babini, Enrico Bevitori, Marco Casadei e Marino Colleoni), impegnati in un convegno dal titolo “Sangiovese, indagine su un vitigno al di sopra di ogni sospetto” e infine 4 laboratori di degustazione.

La ricetta è ideata dalle meningi di uno chef per eccellenza, uno che la materia prima la sa trattare sapientemente: Francesco Falcone.

La location? Il pittoresco parterre del Teatro Corte Coriano.

Francesco Falcone

20Italie era presente ed ha selezionato, fra le numerose proposte, 6 anteprime di Sangiovese degne di interesse.

Menta e Rosmarino – Area 66 | 2021 – sottozona Modigliana

Visto il caldo di questi giorni, perché non partire dal territorio più in quota come Modigliana? Area 66 è uno dei Sangiovese in purezza prodotti da Francesco e Luciano, nell’annata 2021 si presenta al calice in un rosso che definirei invitante per la sua capacità di riflettere la luce. Naso che ti porta nel territorio: menta piperita, aghi di pino, piccoli frutti neri e tanta mineralità. In bocca è agilissimo, verticale grazie alle freschezze ma equilibrato grazie al docile tannino. Non si perde facilmente ed è piacevole come un succo di frutta.

Vigne dei Boschi – Poggio Tura | 2019 – sottozona Brisighella

Il “frescolino climatico” ci piace: non scendiamo di quota, ci spostiamo di qualche chilometro ed entriamo a casa di Paolo Babini. Il suo Poggio Tura 2019 è talmente in anteprima che l’annata è scritta a penna su un’etichetta precedente. Veste il calice di un rosso accecante come un’opale di fuoco. Olfattivamente ci regala sentori di piccoli frutti rossi aciduli, vegetazione di bosco e note leggermente terrose. In bocca è esplosivo: l’acidità è spiccata e al tempo stesso piacevole, tannino vispo. Al termine del sorso chiama un altro assaggio, senza stancare. Un vero e proprio Masterpiece di Babini che racchiude un mosto fiore sgrondato e non pressato e 2 anni di riposo in botte grande, usata magistralmente.

Ancarani – Biagio Antico | 2021 – sottozona Oriolo dei Fichi

Restiamo nell’entroterra Ravennate, ma cambiamo completamente terreni, passando dalle marne Brisighellesi alle sabbie gialle di Oriolo dei Fichi. Questo terreno è il responsabile dell’estrema definizione degli aromi che troviamo nel Biagio Antico. L’aspetto del vino è seducente, proprio come una rubellite. Il frutto che si avverte è polposo, di quelli che cogli dall’albero e addenti stando lontano dal corpo per non sporcarti col succo che gronda. La menta piperita e lo zenzero completano il boost di un naso “fresco”. All’assaggio è teso, croccante, con un tannino spigoloso ma piacevole proprio per questo motivo. Il cemento ha riequilibrato il tutto. Servito leggermente sotto temperatura si fa voler molto bene, estivo.

Marta Valpiani – Fiore dei Calanchi | 2021 – sottozona Castrocaro

Mentre continuiamo la traversata perché non fermarsi alle Terme di Castrocaro? Con le sue acque salsobromoiodiche che fanno bene alla salute… e anche al vino, donando incredibile sapidità. Ma Elisa Mazzavillani, che il territorio lo conosce bene, non finisce mai di stupirci. Da un piccolo vigneto nasce il suo nuovissimo Fiore dei Calanchi, un single vineyard – single tonneau, ricavato appunto da un unico cru e lasciato riposare per un anno in un unico tonneau, (a doghe larghe, originariamente pensato per un bianco) per dar vita a 666 bottiglie uniche nel loro genere. Portare il calice davanti agli occhi è come un incontro con una donna elegante e suadente: la sua trasparenza provocante, mai volgare, riflessi splendenti come pietre preziose. Naso che denota un profilo aromatico ricco, di grande profondità. Immediatezza delle note fruttate, sfumature leggermente polverose e note iodate. In bocca si conferma la grande eleganza che trovavamo nei precedenti passaggi, ci pervade il palato. Il tannino è delicato, setoso ma presente. Teso, ma non affatto esile. Superlativo.

Giovanna Madonia – Fermavento | 2021 – sottozona Bertinoro

È arrivato il momento di spostarci nel ventre della collina romagnola, laddove il vino è così radicato nella cultura degli abitanti che viene chiamato “e ”, ovvero “il bere”. Sulla parte più alta del colle di Montemaggio troviamo Giovanna Madonia, già da diversi anni affiancata dalla figlia Miranda e da Gennaro. È il 26º anno del Fermavento, Sangiovese da vigne allevate ad alberello che non finisce mai di stupire. Più di ogni altro è un fedele lettore dell’annata, del terroir e della mano del produttore. E così anche in questa versione, in bottiglia nemmeno da 2 mesi, si conferma sempre lui, il Sangiovese che mette d’accordo tutti. Si veste in un rosso rodolite veramente intenso, e nella sua austerità regala aromi di frutta matura, sottobosco e spezie. In bocca il tannino è superbo, probabilmente merito di quel terzo di uve che non vengono diraspate portando così quella parte di legno maturo, un po’ come si fa in Borgogna. Profondo. Ma diamogli qualche altro mese.

Chiara Condello – Predappio | 2021 – sottozona Predappio

Forse la zona più rinomata a livello regionale (e non solo) per il Sangiovese, capace di sfornare vini dalla grande espressività grazie ai suoli principalmente argillosi. Noi non saliremo fino in alto, ci fermeremo a Fiumana, da Chiara Condello. Macerazione a chicco intero, sgranellato, ma non pressato, per estrarre una massa color rubino Tanzania intenso dai riflessi scuri. Eh sì, siamo un po’ frivoli anche nei descrittori per una volta! Un anno di botte grande e i 4 mesi di cemento regalano grande profondità al naso. Nonostante la giovane età, l’argilla e l’affinamento lo rendono già abbastanza rotondo e compatto. Muscoloso.

Format centrato, ricchezza di contenuti, il calore dei romagnoli e la poliedricità di un vitigno: sono queste le chiavi di lettura di un evento, che seppur alla sua genesi, ha saputo raggiungere il suo obiettivo. Valorizzazione di un vitigno attraverso un territorio.

Fast forward alla prossima edizione, prevista per il 17 e 18 agosto 2024.

Campania: Cantine Tempere il pregio dell’essere unici

Unicità, un termine usato spesso a sproposito per esprimere un concetto positivo di elemento distintivo nell’arco di un gruppo o di un territorio. Nel mentre tutto sembra essere diventata l’eccezione, con la famiglia Pica titolari delle Cantine Tempere possiamo avere la famosa “conferma della regola”.

Essere unici si esprime nel fatto che in queste zone fare vino non è semplice. Precisiamo: fare vino di qualità e non quantità, come invece richiedevano le usanze dei tempi passati, quando la bevanda idroalcolica fungeva da alimento piuttosto che da salotto, tavolo gourmet od enoteca di livello. Siamo diventati un popolo di sofisticati degustatori, pronti a vivere nuove esperienze sensoriali a qualsiasi prezzo, basta vantarsene con amici e parenti ignari delle sgrammaticature che inevitabilmente seguono in tali dibattiti.

Raccontare un terroir è già elemento dirimente tra le semplici, banali considerazioni e l’affrontare un tema fondamentale nell’analisi giornalistica. Non tutto si può coltivare ovunque: alcune varietà d’uva autoctone si esaltano a dovere meglio di altre, tracciando la strada sicura da seguire anche per il viticoltore profano.

I fratelli Arsenio e Giuseppe Pica sono partiti dal punto zero, pur con antiche reminiscenze apprese dai genitori che producevano e commerciavano uve e vino in Località Tempe a San Pietro al Tanagro (SA), nel bel mezzo dei declivi vicini a Sant’Arsenio nel Vallo di Diano. Riportare in vita le antiche tradizioni è stato il loro scopo aiutati, nei primi passi enologici, dall’enologo Carmine Valentino, pietra miliare dell’eccellenza campana.

Una storia d’amore che si rispetti non poteva dimenticare il successivo ingresso in azienda di Filippo, figlio di Giuseppe, che da avviato imprenditore a Roma coltiva la stessa passione dei germani nel proseguire (ed ampliare) le attività, inclusa la gestione di 5 punti vendita nella Capitale. Dall’Aglianico marchio identitario dei rossi che contano, la sperimentazione è passata nelle mani dell’attuale consulente enologo Alessandro Leoni, che ha puntato sulla vena bianchista dell’immancabile Fiano (dalle alture di Bellosguardo) e sulle bollicine Metodo Classico dal profilo aromatico “internazionale”.

Già 5 gli ettari vitati; si lavora solo ciò che si ricava dalla terra, senza acquistare nulla altrove, per un totale annuo di circa 18000 bottiglie.

Filippo Pica

La degustazione

Brut Rosè Millesimo 2019: progetto iniziato con la vendemmia dell’anno precedente. Sosta sui lieviti 24 mesi, sboccatura gennaio 2023, utilizzando vin de reserve nel dosaggio finale. Cremosità intrigante del perlage e bocca avvolgente tra piccoli frutti rossi e petali di rosa macerati, con crosta di pane in chiusura. Gastronomico.

Fiano Monteroro 2022: prima annata nel 2020, complice l’epoca difficile della Pandemia. Come sempre, e come altri areali in cui attecchisce, il Fiano necessita di tempo in bottiglia per essere giudicato al meglio. Per il momento si chiude a riccio su note fermentative e di fiori bianchi, dimostrando comunque ottima polpa.

Tempere Rosso Aglianico 2018: il puro piacere di bere. Fenomenale nella maturità, gustoso e miscellaneo tra mirtilli scuri, pepe in polvere e china. Tannino croccante e speziato. Inaspettato e vibrante.

Tempere “Primo” Aglianico 2017: i vini di Tempere rispecchiano l’annata, senza omologazione di sorta. La 2017 si esprime nel suo calore complessivo, inclusa una trama tannica impegnativa ancora su toni scalpitanti. Eppure, come per altri casi visti in giro per l’Italia, il gusto resta pulito, certamente potente, ma ricco di sapore e di sfumature da macchia mediterranea.

L’assaggio di una vecchia vintage – la Selezione Aglianico 2011 – fa capire il potenziale d’invecchiamento dell’Aglianico, con puro succo di mora selvatica e liquirizia di eleganza disarmante.

Fino a fine settembre le iniziative di Cantine Tempere prevedono l’aperitivo tra le vigne storiche di famiglia, con degustazioni a tema ed assaggi dei prodotti tipici locali.

Un modo ulteriore per avvicinarsi al concetto di “unicità”.

A che punto siamo con il Fiano di Avellino Docg?

Lapio (AV), 4 agosto 2023Il “Tasting Impossible: la mia prima volta”

Lo scopo dell’evento è stato la degustazione delle prime annate disponibili di Fiano di Avellino Docg dei produttori di Lapio. Le testimonianze dirette dei vitivinicoltori presenti, dai tempi iniziali dell’incredulità circa il potenziale d’invecchiamento, fino alle moderne tecniche di vinificazione per riuscire ad interpretare al meglio questo vitigno, sono stati i momenti più salienti della serata.

Il Fiano di Avellino infatti, con lo specifico areale di Lapio e delle sue contrade, è uno dei vini che meglio si adatta al concetto di zonazione e di territorio. Non vogliamo perdere tempo in chiacchiere sulle eterne (ahinoi) diatribe sul perché tale riconoscimento internazionale tardi ancora ad arrivare. Una vivace polemica tutta interna, che preferiamo non evidenziare per non contribuire a creare pessimismo.

Restiamo, invece, volutamente ottimisti e raccontiamo, in ordine discendente dalla più recente alla più datata, le etichette degustate direttamente dalla narrazione dei produttori.

Laura De Vito presenta Elle Fiano di Avellino DOCG 2018, la prima annata vinificata a venticinque anni dall’impianto delle vigne. Una cantina di recente fondazione che pone il territorio al centro del proprio progetto produttivo. Dichiara la De Vito: “la vinificazione è basata sul principio di zonazione, con tre etichette su quattro che portano il nome delle contrade di provenienza delle uve, oltre una quarta che raccoglie le varie parcelle vinificate in unico blend variabile di anno per percentuali ogni anno. La fermentazione avviene esclusivamente in acciaio, con permanenza di nove mesi sulle fecce fini, affinamento in bottiglia ed uscita in commercio non prima di 24 mesi dalla vendemmia”.

Angelo Silano presenta la sua Vigna Arianiello Fiano di Avellino DOCG 2016.

Angelo racconta che la sua “prima volta” per questa etichetta è stata l’annata 2013. Dato l’intento di voler esaltare al massimo le caratteristiche del territorio, anche Angelo ha lavorato sul concetto di zonazione specificando che “rispetto ad altri vigneti, in quello di Arianiello c’è tanta materia vulcanica.”

La 2014 e la 2015 non sono state prodotte perché le annate eccessivamente calde avrebbero inficiato proprio questa caratteristica. “La 2016 invece, figlia di una stagione equilibrata, ha permesso di mettere in risalto le caratteristiche sia del vitigno che della zona.”

Il campione successivo in degustazione è il Vino della Stella Fiano di Avellino DOCG 2012. A raccontare il progetto enologico è Raffaele Pagano, patron dell’azienda Joaquin, da sempre presente a Lapio e impegnata in progetti di micro-zonazione: “la 2012 non è la prima volta” di questa etichetta, preceduta da una 2009, mentre la 2010 e la 2011 non sono state prodotte”. La 2012 è stata una vendemmia atipica, particolarmente calda, che si è ripresa sul finale permettendo di spingere la raccolta a metà ottobre. Siamo puristi, non usiamo molta tecnologia, non facciamo controllo delle temperature, ci piace lavorare col batonage spinto. In questo caso, inoltre, il vino non fa legno”.

Adolfo Scuotto di Tenuta Scuotto ci ha parlato del Fiano di Avellino 2011, non la prima annata dell’etichetta, che ha un precedente già nel 2010.

“La 2011 è stata un’annata di difficile interpretazione, inizialmente fresca, seguita da un periodo caldo con escursioni termiche importanti, che hanno sviluppato un corredo aromatico molto interessante. La maturazione lenta, la fase vegetativa prolungata e la raccolta delle uve a partire dalla seconda/terza decade di ottobre, hanno fatto il resto nella definizione di questa annata. Il vino fermenta in acciaio ed affina esclusivamente in acciaio e bottiglia”.

Ercole Zarrella imbottiglia per la prima volta la sua personale etichetta di Fiano di Avellino nel lontano 2004. La cantina è Rocca del Principe e l’etichetta degustata è Fiano di Avellino 2010.

“Non ci sono bottiglie precedenti conservate perché non si pensava che il Fiano avesse questa longevità!” La novità dell’annata 2010 sta proprio nel fatto che ne è stata ritardata l’uscita in commercio di circa sei mesi per permettere un miglior affinamento del vino. Un sacrificio non indifferente dato che Ercole, nel perseguimento di un progetto che permettesse la massima espressione del vitigno, ha rimandato di diversi mesi la vendita delle bottiglie, rimanendo di fatto “senza vino”. Anche nel caso di Rocca del Principe è ben chiaro il principio di zonazione e mentre il Fiano degustato è un blend (70% Vigna Tognano 30% Vigna Arianiello), etichette specifiche sono invece dedicate ai cru Tognano e Neviere di Sopra.

Quando arriviamo alla cantina Colli di Lapio, entriamo a pieno titolo nella storia del Fiano a Lapio, contrada Arianiello. Carmela Romano, figlia di Clelia, la Signora del Fiano, ci racconta ancora una volta la storia di un vino, imbottigliato per la prima volta nel 1994,  di cui non si immaginavano i potenziali d’invecchiamento. Per questo motivo non esistono bottiglie che vadano così indietro nel tempo e dunque degustiamo il Fiano di Avellino 2007. Carmela ha scelto questa annata perché è stata una delle più calde e siccitose, più regolare nelle precipitazioni rispetto alla 2003, con ottime escursioni termiche e una vendemmia anticipata ai primi di settembre. Fermentazione in acciaio, affinamenti successivi in acciaio e bottiglia.

Se Colli di Lapio è la storia del Fiano a Lapio, Romano Nicola ne è probabilmente la legenda. Azienda presente sul territorio dal 1988, fortuitamente ritrova alcune bottiglie dell’annata 1989, la prima imbottigliata a Lapio, precedenti dunque all’istituzione della DOCG. Amerino Romano confessa di affrontare il tasting senza garanzie, vista l’età avanzata del vino, ma con grande spirito didattico e di studio condivide con l’intera platea una vera e propria emozione.

Infine Daniela Mastroberardino, Presidente nazionale dell’Associazione Donne del Vino, rappresenta la cantina Terredora situata a Montefusco, ma che a Lapio detiene la vigna dedicata al Fiano di Avellino Riserva Campore, assaggiato nell’annata 2008.

La prima annata di questo vino risale invece al 1998.

“In un momento in cui si lavorava prevalentemente con i vini d’annata, nasce Campore con una diversa impostazione. Dal 1998 e fino al 2002 Campore fermentava per il  50% in acciaio e per il 50% in barrique. A partire dall’annata 2003 la fermentazione avviene esclusivamente in barrique, con una sosta sulle fecce fini di sei mesi. Esce a cinque anni dalla vendemmia”.

Daniela si sofferma a lungo sulle virtù di un vitigno autoctono, il fiano, coltivato in molte parti del mondo ma che trova il suo clima d’elezione ideale nella fredda Irpinia, “isola del Nord appuntata al centro del Sud Italia”. Commoventi, infine, le parole dedicate al fratello Lucio, enologo di grande talento, prematuramente mancato nel 2013.

Ferragosto: festeggiamolo con il Valdobbiadene Prosecco Superiore dell’azienda Merotto

Le dolci colline tra Conegliano e Valdobbiadene, avvolte da una luce dorata, sono un incanto per gli occhi e per l’anima. Con l’orizzonte punteggiato dalle vette innevate delle Dolomiti Bellunesi, l’atmosfera è intrisa di un’armonia naturale che avvolge ogni angolo di questa terra.

È qui che nascono le radici enologiche di Graziano Merotto – Azienda Agricola Merotto, protagonista silenzioso ma deciso nella scena del Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG.

L’esperienza inizia con un’accoglienza calorosa da parte della responsabile vendite Sonya Zanolla. Ci addentriamo in un viaggio nella Denominazione tra i comuni di Conegliano e Valdobbiadene, una terra selezionata dall’Unesco per la sua bellezza naturalistica. Questi terreni, composti da marne e conglomerati, sono il cuore dell’areale.

Il Prosecco, nome che evoca convivialità e leggerezza, è il protagonista del racconto: in un mondo in cui la velocità sembra regnare sovrana, il Prosecco si presenta come un sorso di autenticità e tradizione. Sebbene sia spesso paragonato alle bollicine francesi per numero di bottiglie, rappresenta un tesoro italiano apprezzato per la facilità di beva e la versatilità.

Un compagno ideale per le serate con gli amici, che nasconde anche un’anima ricca di sfumature, un’essenza che Graziano ha saputo catturare e interpretare con eleganza. Ringrazio Silvia Baratta, dell’Agenzia Gheusis Srl, per aver organizzato la visita in cantina. Incontri destinati a cambiare le sorti di una vita spesso accadono per caso, e così è stato per Graziano Merotto. Da giovane ragazzo inserito in una famiglia di agricoltori, ha sfidato le convenzioni e creduto nel successo di ciò che allora sembrava audace: produrre uno spumante Metodo Classico in terra di Valdobbiadene.

La cantina è un’affascinante casa storica che si erge con maestosità a mo’ di santuario di tradizione e innovazione. Graziano ha tracciato un sentiero illuminato dalla passione e dalla dedizione, determinato a rendere ogni sorso di Prosecco una sinfonia di gusto unica, con uno sguardo che attraversa i vigneti e si posa sulla cappella dedicata a San Martino.

La degustazione diventa un viaggio attraverso le varie sfumature del Prosecco. La Cuvée del Fondatore, omaggio al cinquantesimo della cantina, è una celebrazione di eleganza e maestria. Un Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG Brut Millesimato 2020 frutto della selezione dei grappoli migliori, un’espressione del territorio che Merotto custodisce gelosamente.

La storia non si ferma qui. L’Integral Brut Millesimo 2022 e il Bareta Brut sono testimonianze della dedizione di Graziano Merotto. Ogni sorso svela un’armonia tra l’uva Glera e la terra, una danza di bollicine che esalta il palato.

E ancora vini sempre più interessanti come Casté, un Crù Extra Dry Millesimato 2022 ottenuto da un piccolo vigneto in cima alla collina dove un tempo sorgeva un Castello. La bottiglia trasparente con la confezione arancione è stata  sostituita da una nuova bottiglia più scura. Poi La Primavera di Barbara, dedicato alla figlia di Graziano e Colbelo Extra Dry. E poi ancora Grani di Nero Rosé Brut vinificato da Pinot Nero.

Il Prosecco ed in articolare quello proveniente da Valdobbiadene, è la quintessenza di un territorio, un’introduzione a una cultura, una poesia scritta con uve. Tuttavia, questa poesia è a rischio di banalizzazione, minacciata da prezzi troppo bassi e standard di qualità calanti. Graziano Merotto ha saputo resistire a questa tendenza, mantenendo saldo l’impegno verso la qualità. Tralasciando la facile corsa al profitto, ha scelto un cammino meno battuto, optando per una produzione di minor quantità ma di qualità superiore. I

Il Prosecco è una melodia che unisce o divide, ma indubbiamente è un simbolo dell’Italia nel mondo. Dai suoi vitigni coltivati tra le colline del Prosecco Superiore di Valdobbiadene D.O.C.G., nasce un’eleganza raffinata e autentica, cultura, essenza e passione che l’azienda Merotto ha trasformato in realtà.

Il Consorzio Tutela Vini Friuli Colli Orientali e Ramandolo festeggia le 50 candeline: momento giusto per un bilancio in vista delle scelte future

A volte per giungere a delle conclusioni positive bisogna guardarsi intorno, sviscerando il passato e il presente a testa alta e senza remore. Lo fa Matteo Bellotto, consulente del Consorzio Tutela Vini Friuli Colli Orientali e Ramandolo, fornendo alla stampa una sequenza di numeri e ricerche davvero impressionanti, di cui ogni attore in gioco dovrà imparare a tenerne conto.

Lo fanno i singoli produttori, consapevoli di ciò che non va, schiacciati a volte da logiche di mercato alle quali non è sempre facile reagire. Ovviamente non tutto è negativo, anzi. Il livello medio dei vini assaggiati durante il tour organizzato dal 12 al 15 luglio è risultato davvero interessante, non solo per le classiche versioni in bianco.

Una maggior autocoscienza di come la qualità debba essere creata partendo, in prima battuta, dalla scelta dei terreni vocati: non si può coltivare varietà così profondamente diverse, per espressioni e carattere, in un medesimo angolo di territorio. Serve, inoltre, maggior prontezza nell’applicare tecniche moderne di cantina, per garantire al meglio la conservazione di aromi e sostanze eleganti, marcatori fondamentali dell’intero areale.

Per il 50° anniversario, festeggiato con 3 anni di ritardo causa pandemia, il Consorzio ha anche elaborato un nuovo logo, il marchio che diventerà l’emblema rappresentativo per i prossimi anni. La spada è il simbolo di Cividale del Friuli – lo spadone del Patriarca Marquardo. La lama entra nel calice e affonda nella storia, come ogni vino sa essere storia, finezza, eleganza del gesto.

I numeri, sempre quelli, parlano della gestione complessiva di 3 DOCG e 5 sottozone, oltre una sesta (Savorgnano) in arrivo a breve. Vitati 28.800 ettari suddivisi per ben 26 varietà tra autoctoni e internazionali. Sono state mappate oltre 5400 vigne, considerando suoli, pendenze, esposizioni, escursioni termiche clima e precipitazioni meteorologiche. Dorsali moreniche, presenza di flysch, roccia sedimentaria clastica tipica di queste valli, argilliti, feldspati e quarziti. Una complessità non indifferente che fa del lembo orientale del Friuli uno dei terreni geologicamente più antichi d’Europa.

E poi l’incontro, finalmente, con i produttori dopo i saluti iniziali del Presidente Paolo Valle, visibilmente emozionato dalla folta presenza di giornalisti e operatori del settore provenienti da molte regioni italiane. Parlare con un viticoltore ha sempre un fascino intrinseco. Ascoltare la storia di ognuno, certamente talora ripetitiva per alcuni aspetti, ma ricca di emozioni e suggestioni che formano il pane quotidiano di chi abbia a cuore la professione del giornalismo enogastronomico.

È il caso del giovane Federico De Luca di Ronc dai Luchis e del suo racconto sul Refosco di Faedis: varietà dalle connotazioni diverse dal Peduncolo Rosso, dal Refosk e dal Terrano. Materiale genetico recuperato da vecchi impianti, anche per quanto concerne il Refoscone (o Berzamino), anch’esso appartenente alla nutrita famiglia dei refoschi e quasi scomparso. Tante le similitudini di questi vitigni con altri come la Croatina e la Bonarda, in particolare per quanto concerne il carattere speziato, sottile fil rouge alla base di ogni assaggio.

O come Germano Zorzettig, cognome popolare da queste parti, della cantina La Sclusa, con l’etichetta Friulano 12 viti frutto della ricerca e sperimentazione su ben 12 cloni di Friulano, le cui uve vengono vinificate separatamente per realizzare poi il giusto blend in funzione dell’annata.

O Bruna Passetti, titolare, assieme al marito, dell’azienda Flaibani che ha presentato la sua idea di Pinot Grigio Ramato semplicemente da urlo.

E perché no, l’edizione limitata 2014 di Friulano “L’Evoluto”, nomen omen, scelto da Paolo Rodaro e dalla vulcanica moglie Lara titolari della cantina Rodaro, dopo un lunghissimo (e altamente sensato) riposo tra legno e bottiglia per il vitigno principe del Friuli Venezia Giulia.

Le sorprese non finiscono qui, grazie al Merlot 2018 appetitoso e lunghissimo di Marina Danieli, già pienamente convincente nella proposta del Pinot Grigio targato 2020, elegante e dalla classe cristallina.

E del Sauvignon Blanc 2022 di Bastianich, dobbiamo ammetterlo, in grande spolvero, dimentico stavolta di soddisfare solo il gusto di quanto chiede mercato, al quale va comunque prestata massima attenzione per evitare di avere vini ottimi ma invenduti… Il compromesso si può e si deve fare.

Che dire, invece, della piccola realtà Valchiarò, nata nel ’91 per diletto come attività del dopolavoro da 5 amici torreanesi – Armando, Lauro, Emilio, Galliano e Giampaolo – e divenuta adesso una solida realtà. Ottimo il Friulano da 5 particelle, ma sorprendente e accattivante nel prezzo il Cabernet Sauvignon 2021 in purezza, da vigna singola.

Chiudiamo con un altro autoctono di lusso, davvero difficile da produrre per via di componenti tanniche irsute e mai dome, con acidità pronunciate: il Pignolo. Tralci di Vita lo propone nella spettacolare versione 2018, appagante e dal succo di mirtillo maturo.

La nostra visita termina a Cividale del Friuli, per un momento goliardico e rilassante affacciati sul Ponte del Diavolo. Fondata da Giulio Cesare con il nome di Forum Iulii, da cui viene il nome Friuli, nel 568 d.C. Cividale divenne sede del primo ducato longobardo in Italia e in seguito, per alcuni secoli, residenza dei Patriarchi di Aquileia. Questo patrimonio storico e artistico è stato riconosciuto dall’UNESCO.

ll Ponte del Diavolo è uno dei simboli, sospeso sul fiume Natisone e avvolto nella leggenda. Le due sponde erano unite, almeno dal Duecento, da un passaggio in legno, sostituito dopo diversi tentativi inconcludenti dal manufatto in pietra progettato da lacopo Dugaro da Bissone, che ne iniziò la costruzione l’anno 1442. I lavori, lenti e contrastati da avversità di varia natura, proseguirono cinque anni dopo sotto la guida di Erardo (o Everardo) da Villaco, già collaboratore del Dugaro, che forse era morto di peste o, secondo altre versioni, si era defilato senza onorare interamente i suoi obblighi contrattuali.

Deceduto il capomastro Erardo, era Bartolomeo delle Cisterne a ultimare l’agognato ponte, che in base ad un atto notarile sappiamo essere stato lastricato nel 1501 ed ancora nel 1558. Le sue estremità erano difese da torri, abbattute verso la seconda metà del secolo scorso. Lavori di restauro si sono succeduti nel tempo per mantenere in piena efficienza l’indispensabile passaggio, che doveva sopportare le piene impetuose del fiume.

Cividale del Friuli, città di frontiera, una volta estremo confine della Nato che separava l’Italia ed il blocco Occidentale da quello Orientale del Patto di Varsavia. La presenza dei militari cristallizzava ogni tentativo di libera impresa, soggetta all’inevitabile burocrazia attivata, a più livelli, a difesa dei confini nazionali. Anche di questo bisogna tener conto, nel bilancio complessivo di ciò che hanno vissuto i produttori locali, in vista di un futuro luminoso ambito e in qualche modo meritato.

Una vera pacificazione, forse, ancora manca.

San Gimignano (SI) – Il Palagione: vini solidi come le storiche torri comunali

Lo scorso 9 agosto con amici ho visitato l’azienda vitivinicola Il Palagione.

Esperienza indimenticabile, arricchita dall’ospitalità di Giorgio Comotti, titolare dell’azienda, che ci ha deliziato con una degustazione dei suoi piacevoli vini sulla panoramica terrazza nell’antico fienile. Tante le nostre “enozioni” visitando la cantina, tradotte in conseguenti emozioni…

Dettagli molto interessanti che vanno ad aggiungersi al puzzle di conoscenza. Giorgio è molto affabile, competente e attento ad ogni singolo dettaglio, sia in vigna sia in cantina. Nulla viene lasciato al caso: il fil rouge dei vini è rimarcato da freschezza e sapidità.

Al centro Giorgio Comotti

Alcuni cenni sull’azienda e sulla Vernaccia di San Gimignano

Il Palagione si trova a San Gimignano e si erge sulla sommità della collina. Un antico podere risalente al 1594, finemente ristrutturato, posto lungo la strada panoramica che collega San Gimignano a Volterra. Una struttura immersa tra vigneti di Vernaccia e Sangiovese, ma anche bosco e oliveti. La vista gode di un panorama impareggiabile sulla città turrita e la verde vallata circostante.

Di proprietà dal 1995 di Giorgio Comotti, milanese di origine e innamorato di questa stupenda campagna, che assieme alla moglie Monica Rota decise di trasferirsi in questo lembo di Toscana per dar vita al suo progetto. Si è cimentato con grande passione e abnegazione nel mondo del vino ed ha lasciato le sue attività precedenti.

I vigneti vengono condotti secondo il regime di agricoltura biologica e le varietà coltivate sono Vernaccia, Sangiovese e Merlot. Gli appezzamenti sono posti ad un’altimetria media di 320 metri, su terreni argillosi e sabbiosi con presenza di fossili marini. L’azienda si estende su una superficie complessiva di 40 ettari, di cui 20 vitati e 3 ettari di uliveti.

La Vernaccia di San Gimignano è stato il primo vino italiano ad ottenere la denominazione di origine controllata nel 1966; successivamente è nato il Consorzio del Vino Vernaccia di San Gimignano che ha contribuito a dare nuovo slancio per la produzione di qualità, ottenendo nel 1993 la meritatissima Docg. 

San Gimignano si trova nella parte nord-ovest della provincia di Siena. Dichiarato dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità, conosciuto in tutto il mondo per le torri medievali, che gli hanno valso l’appellativo di Manhattan del Medioevo. In questo territorio si producono anche ottimi vini rossi, ma la produzione maggiore è riservata alla Vernaccia. Un bianco italiano con una notevole capacità d’invecchiamento, prodotto anche nella tipologia ” Riserva “.

Note di degustazione

Spumante Rosè Metodo Classico Nature De Monì 2019 – Sangiovese – Rosa tenue, perlage fine e persistente, tra note di rosa, crostata di frutti di bosco e sussulti d’arancia rossa che anticipano il palato, con una freschezza e una cremosità disarmanti.

Vernaccia di San Gimignano Hydra 2022 – 100% Vernaccia Toni giallo paglierino con sfumature  verdoline. Naso ricco di pompelmo, mela, pera e mandorla. Fresco e sapido, il finale è lungo con richiami agrumati.



Vernaccia di San Gimignano Lyra 2021 – Vernaccia 100% – Paglierino tendente al dorato, emana note di fiori di montagna, susina, pesca, melone, lime e mandorla,. Bocca avvolgente dal finale decisamente persistente.

Vernaccia di San Gimignano Riserva Ori 2021 – Vernaccia  100% – Giallo brillante, complesso, sprigionante sentori di pesca, zafferano, cedro, ananas, mango, papaya. Colpisce per la piacevole morbidezza, ma al contempo sa essere fresco e lungo, armonico ed equilibrato.

San Gimignano Doc Rosato Sunrose’ 2022 – Sangiovese – Bellissima tonalità rosa salmone, dipana eleganti sentori di fragolina di bosco, melagrana e rosa di campo. Sorso piacevolmente fresco e sapido, lungo e leggiadro.

Chianti Colli Senesi Riserva Draco 2019 – Sangiovese in purezza –  rubino trasparente e consistente, su note di ciliegia, violetta e frutti di bosco si alternano a note di pepe e bacche di ginepro,  avvolgente e decisamente persistente.

Nella nostra vita raramente prendiamo atto che ciò che riceviamo che è, talvolta, molto di più di ciò che diamo.

Il Palagione
Località Palagione – Castel San Gimignano
53037 – San Gimignano – Siena (SI)

Montefalco Green: esperienza “sostenibile” alla scoperta del territorio del Sagrantino

Il 14 e 15 giugno il Consorzio Tutela Vini Montefalco ha organizzato un press tour con l’intento di promuovere una declinazione ecologica del turismo in cantina e di valorizzare la produzione vinicola di una terra unica, “verde” per definizione.

Recentemente Il Consorzio, aderendo a Wine in Moderation, il principale programma di responsabilità sociale del settore, ha confermato l’impegno a praticare la sostenibilità, in modo etico e coerente. i territori di produzione delle Denominazioni di Origine Spoleto, Montefalco e Montefalco Sagrantino si contraddistinguono, infatti,  per l’attenzione a ridurre sempre di più l’impatto ambientale.

Montefalco Green ha voluto proporre un modo sostenibile per approcciarsi al mondo del vino, alla scoperta di vini, delle cantine e delle denominazioni, attuando una conversione ecologica del modo di concepire l’enoturismo: i giornalisti e bloggers intervenuti hanno potuto sperimentare bici e auto elettriche, le “Sagreentino”, per spostarsi lungo le strade del comprensorio di Montefalco, in visita alle cantine aderenti al progetto. Questi mezzi  propongono una mobilità lenta, nel rispetto appunto del territorio, che viene solo “sfiorato”: a questo proposito il Consorzio Tutela Vini di Montefalco ha stipulato un accordo con Enel X e sono stati già stati attivati 12 punti di ricarica in 6 cantine, in attesa di raggiungere quota 15 infrastrutture in altrettante aziende.

 

Il punto cardine del Consorzio è quello di proporre strategie innovative sempre nel rispetto della sostenibilità ambientale. Da tempo è già operativo il progetto Grape Assistance, un nuovo modello di assistenza tecnica per la gestione sostenibile del vigneto, applicato dal 2017 in tutta la regione Umbria.

Inoltre, molte aziende hanno aderito al New Green Revolution con lo scopo di installare impianti fotovoltaici e caldaie a biomassa per la riduzione del gas serra e ad Agroforestry , ovvero l’allevamento di avicoli e le lavorazioni con i cavalli nei vigneti.

La quota di aziende che praticano agricoltura biologica certificata o sono in conversione è salito al 31%; un dato che è sicuramente in aumento, che candida i territori di Montefalco e Spoleto a essere una delle aree vinicole più “green” dell’Italia.

L’evento è stato organizzato in modo impeccabile, nonostante la variabile del meteo che non ha certo assistito i partecipanti.

Il percorso con la green car ha toccato per prima l’azienda Romanelli, dove Devis ha raccontato la storia della famiglia, iniziata nel 1978, quando suo nonno e suo padre decisero di creare l’azienda agricola sul Colle di San Clemente a Montefalco. La biodiversità è rispettata nella scelta di dedicare 8 ettari alla vigne e 12 all’olivocoltura dei circa trenta posseduti, tutti condotti in regime biologico.

Durante la degustazione, accompagnata da quella dell’olio prodotto dagli stessi Romanelli (da ben quattro varietà quali leccino, frantoio, san Felice e moraiolo), abbiamo assaggiato Le Tese, da uve Trebbiano Spoletino provenienti da un vecchio vigneto, che ha ancora le viti maritate agli alberi. Poi il Terra Cupa Montefalco Sagrantino lasciato maturare a lungo in botti di rovere di diverse grandezza, ottenuto dalla parte più argillosa e calcarea del vigneto del Colle ove sorge la cantina e infine Medeo Montefalco Sagrantino prodotto solo nelle annate eccezionali, dedicato ad Amedeo Romanelli, che fu il primo a imbottigliare il vino di famiglia.

La seconda realtà del comprensorio visitata è stata Agricola Mevante, cantina di recente costruzione con una elegante e luminosa sala degustazione: Paolo e Antonella Presciutti hanno fatto diventare la loro passione un lavoro e la produzione si attesta per ora sulle 60.000 bottiglie. Abbiamo assaggiato Birbanteo sur lie da Trebbiano Spoletino e un rosato ottenuto da uve Sagrantino coltivato in vigneti nel comune di Bevagna impiantati da circa vent’anni.

Tra un temporale e l’altro siamo arrivati all’ora di pranzo alla cantina La Fonte: una realtà nata a Bevagna all’inizio del ‘900 grazie al bisnonno Angelo e che col passare del tempo è stata divisa tra i figli. Negli anni novanta del secolo scorso, Guido, da sempre appassionato di agricoltura decise insieme alla moglie Patrizia, di avviare lì attività producendo olio e vino. Il nome “la fonte” deriva dalla sorgente naturale ancora visibile, nascosta nel bosco a pochi passi dell’agriturismo.

L’incontro con Bevanato, macerato sulle bucce per una decina di giorni, è stato spettacolare: un tripudio di frutta matura a polpa gialla e tropicale, freschezza e chiusura sapida, grande bevibilità e piacevolezza. Amorosa è  il rosè ottenuto da Sangiovese raccolto anticipatamente e Cabernet Sauvignon. Profumato, fragrante, succoso. Si è proseguito con l’assaggio del Montefalco Rosso e del Montefalco Sagrantino, entrambi di notevole qualità.

Nel pomeriggio, riprese le Sagreentino Car il gruppo si è diretto alla Fattoria Colsanto, di proprietà della famiglia Livon del Friuli Venezia Giulia e che nel 2001 ha voluto investire in questo bellissimo territorio, ristrutturando un casale del ‘700 e acquisendo circa 20 ettari impiantati tra Sagrantino, Sangiovese, Montepulciano e Merlot.

Un viale costeggiato da cipressi conduce all’ingresso della struttura, che comprende anche un agriturismo: dopo la visita in cantina, l’enologo ha illustrato i vini in degustazione, focalizzando il nostro interesse sul Cantalupo proposto in diverse annate: un vino ispirato al bianco pluripremiato dell’azienda madre, ottenuto da Trebbiano Spoletino coltivato nel territorio di Bevagna e affinato in legno. Abbiamo poi assaggiato un ricco tagliere con salumi e formaggi prodotti localmente e finito un’esperienza molto interessante  con il servizio del Montefalco Sagrantino.

Ultima realtà raggiunta dal tour è stata Briziarelli: i lavori per la costruzione della cantina, vero gioiello architettonico, sono iniziati nel 2012 e la struttura domina i 50 ettari posseduti, di cui 22 vitati. Qui vengono coltivate le varietà autoctone ed è stato scelto uno stile di vinificazione tradizionale.

In degustazione Sua Signoria, un Trebbiano Spoletino che dopo la fermentazione matura in legno e Anthaia, il rosato ottenuto dalle uve a bacca nera coltivate in azienda. Abbiamo proseguito sui rossi con Rosso Mattone Montefalco Rosso Riserva e, infine, il Montefalco Sagrantino, intenso, potente e strutturato.

La giornata si è conclusa con la cena di gala ospiti, della cantina del presidente del Consorzio Tutela Vini Montefalco Giampaolo Tabarrini, al quale sono intervenuti i produttori tra cui Filippo Antonelli di Antonelli San Marco, Paolo Romaggioli enologo di Terre De la Custodia  e Liù Pambuffetti di Scacciadiavoli, dove gli ospiti hanno potuto proseguire al tavolo gli assaggi, serviti dai sommelier AIS, dei vini di questo luogo magico, dove tutto riesce a emozionare e a lasciare ricordi indelebili nella memoria.

Un ringraziamento, infine, a MG Logos per l’invito e la splendida opportunità di conoscere Montefalco e le sue produzioni.

La verticale di Bellone della cantina I Pàmpini: un vitigno guerriero che offre vini espressivi e serbevoli

Da chi poteva mai partire l’idea di svolgere una verticale su un vitigno, il Bellone, spesso messo da parte dal suo stesso territorio? Solo Carmen Iemma ed Enzo Oliveto della cantina I Pàmpini potevano approcciarsi a questa esperienza, unica nel suo genere, forti della profonda conoscenza che hanno del vitigno Bellone e spinti dall’amore che in esso hanno riposto fin dall’inizio.

da sinistra l’enologo Pierpaolo Pirone, Carmen Iemma e Enzo Oliveto

Siamo sul litorale laziale, in Località Acciarella (LT), fra Borgo Piave e Nettuno, a 2 Km dal mare. I terreni sono pianeggianti, argillosi e silicei, con una componente sabbiosa di origine marina che influenza notevolmente la mineralità dei vini. L’azienda nasce nel 1999 ad opera di Carmen Iemma, ex docente, ed Enzo Oliveto, già capitano di marina; il nome deriva dallo stato in cui i coniugi trovarono la vecchia proprietà con pampini, cioè tralci di vite sparsi un po’ ovunque e in abbandono.

Tra i primi a produrre vino da uve Bellone in purezza, circa 5000 bottiglie all’anno, hanno in squadra dal 2016, il giovane e talentuoso enologo Pierpaolo Pirone, che segue con dedizione e competenza il progetto.

Il Bellone è un vitigno di origini antichissime, diffuso nell’area dei Castelli Romani già in epoca romana e citata da Plinio il Vecchio come “uva pantastica”. Oggi nell’area di Nettuno, diverse realtà vitivinicole hanno iniziato a credere nella valorizzazione del Cacchione, nome qui consentito per disciplinare.

Sulle vigne sorge il Sole la mattina e cala la sera raggiungendo temperature estive importanti; gli zefiri dai colli Albani, alle spalle della pianura, apportano aria fresca consentendo le giuste escursioni termiche e la maturazione delle uve senza scossoni negativi.

Il prodotto sottoposto alla verticale è il vino Bellone non filtrato

I grappoli vengono scelti e raccolti a mano a metà settembre, le uve vinificate in bianco con tecniche tradizionali e decantazione statica. Il mosto pulito fermenta in serbatoi di acciaio inox a temperatura controllata per ricercare il minimo dell’espressione aromatica del lievito e il massimo dalla trasformazione dei precursori aromatici.

Negli assaggi a ritroso nel tempo, coadiuvati dalla sommelier di sala Silvia, si è voluto ricercare le caratteristiche varietali. La degustazione ha riguardato 6 annate: 2021-2020-2019-2018-2017-2013. Il risultato è stato un’immersione piacevole e accademica, stimolante ed entusiasmante nel mondo del Bellone.

2021: Enzo la definisce “Ottima annata”, in quanto la vite ha compiuto il suo ciclo vitale senza stress, riuscendo a esprimersi nelle sue massime potenzialità. Al gusto l’acidità è molto larga, non tagliente e prevale sulla grassezza e sulla struttura del vino. Naso da classici frutti pompelmo e pera, con richiami floreali che ritrovano la stessa sensazione percepita masticando un acino. Nel finale resiste qualche nota balsamica, un sentore di coccio e torba e una grande salinità finale che arricchisce la persistenza.

2020: più calda della 2021 e meno piovosa. Ad influenzare l’andamento, probabilmente, è stata proprio la media delle temperature, lievemente più alta. Ciò comporta nel bouquet una prevalenza di note fruttate, in particolare frutta matura, ed un calo di quelle floreali; al gusto, però, la freschezza è ben accentuata. Avviluppa e accompagna con mineralità salmastre e lunghezza di bocca.

2019: L’annata è stata quella che maggiormente ha subito influenze della gelata primaverile del 2018. In quell’anno la vigna è stata sottoposta ad interventi di forte potatura, proprio per consentire il risanamento delle piante. La quantità di uva è stata minore come anche la resa, ma ha avuto una stagione di maturazione molta lunga. Il colore risulta giallo paglierino con riflessi verdognoli, il naso riporta alla complessità della 2021, ma la bevuta ricorda la bocca della 2020. La mineralità è predominante ed è figlia del territorio: richiama il mare.

2018: Annata difficile, lo abbiamo detto, con due gelate ad aprile. Come non bastasse la stagione estiva ha visto un clima tendenzialmente tropicale. Ne derivano note vegetali e balsamiche, da finocchietto selvatico, bergamotto quasi candito, e pasticcino al liquore. Un’altalena gustativa, che lascia arrivare solo in un secondo momento la tipica scia minerale e agrumata del bergamotto.

2017: sembra una vendemmia tardiva. Lo stesso colore giallo dorato conferma tale sensazione. Lieve ossidazione al naso, ma ancora buona la freschezza. Predominano i sentori terziari, in particolar modo le spezie dolci. Il vino risulta più snello, carente in lunghezza di sorso.

2013: Quest’ultima annata differisce dalle altre annate per essere stata sottoposta a filtrazione e per la giovane età delle vigne (all’epoca avevano dieci anni).  Meno intenso, ma molto espressivo. Predomina la frutta candita, le balsamicità e la mineralità. Nuance terrose sul finale. Il vino è maturo, evoluto ma ancora piacevole da degustare.

In conclusione: il Bellone nelle varie annate degustate ha messo in evidenza la sua grande capacità di resistenza alle avversità climatiche e dello scorrere del tempo. Primeggia il suo carattere, l’animo guerriero, di combattente che vince sui vari ostacoli.  

La frase di Anatole France aiuta a sintetizzare bene il coraggio e la fermezza avuta da tutta la squadra:  “Per realizzare grandi cose, non dobbiamo solo agire, ma anche sognare; non solo progettare ma anche credere”.

Carminuccio Week: tu chiamala se vuoi… una pizza

Quando mi hanno proposto di prendere parte alla serata di apertura della Carminuccio Week, confesso che ero stata abbastanza scettica.

Da non salernitana, (napoletana solo per parte di madre), mi chiedevo cosa avrei potuto cogliere di una serata che, a tutti gli effetti, si preannunciava come un memorial a un anno esatto dalla dipartita, di Carmine Donadio, in arte “Carminuccio”, per tutti i salernitani doc che in qualche modo lo avevano conosciuto.

Mai come in questo caso il famoso assunto scrivi di ciò che conosci mi sembrava riferito ad una conoscenza reale e concreta, senza la quale temevo di perdere l’essenza stessa della persona per ritrovarmi a stendere il mero resoconto di una serata tra amici, dove io stessa sarei diventata un elemento estraneo. Più raccoglievo informazioni preliminari, leggendo le motivazioni dell’evento promosso dal giornalista enogastronomico Luciano Pignataro, autoctono illustre, più questa sensazione prendeva consistenza.

E invece mi sono dovuta ricredere.

17 luglio 2023 – ore 18.30: una delle sere più calde di questa torrida estate. La location scelta per l’evento è il Crub Seafront Bay a Vietri sul mare. All’arrivo molti bagnanti si attardano ancora sulla spiaggia su cui si affaccia il locale, mentre fervono i preparativi per la serata. Salta subito all’occhio la schiera di pizzaioli in divisa, già presenti sul posto. Gran parte della festa è dedicata a loro, che hanno inserito in carta la pizza Carminuccio (creata ormai cinquant’anni fa da Carmine Donadio) che per un’intera settimana la offriranno ai loro clienti ad un prezzo speciale.

Poi noto loro: Vincenza, moglie e compagna di Carmine per una vita intera, Maria Rosaria e Diamante, le figlie, Enzo, il genero che ne ha raccolto l’eredità e nello sguardo serio e fiero racconta tutto l’orgoglio, che preferisce non esprimere a parole.

Mi rendo conto che il clou dell’evento è tutto in queste due immagini, capaci di trasmettere in modo potente ed evocativo l’idea di una persona e di quello che ha fatto in vita, fino a farla diventare una leggenda.

Luciano Pignataro, reduce della kermesse 50 TOP Pizza Italia 2023, così mi racconta la pizza Carminuccio:

<<La Carminuccio fu inventata da Carmine Donadio, pizzaiolo di lungo corso nel quartiere periferico di Mariconda, che all’inizio dell’attività era un cosiddetto quartiere difficile. Lui inventò questa pizza molto semplice con pomodoro, pancetta, formaggio e un po’ di forte, servita con la carta oleata, in una città, Salerno, che non aveva una grande tradizione di pizza. Intere generazioni di salernitani sono cresciute con questa pizza che ha attraversato le mode ed è diventata identitaria. Identitaria e incredibilmente moderna, nonostante i cinquant’anni d’età, (la Carminuccio è una pizza senza mozzarella, oggi talvolta usata in sovrabbondanza per coprire altre mancanze), che gioca sulla purezza degli ingredienti: la qualità della pancetta, la qualità del pomodoro, la qualità del formaggio.>>

La serata è dunque un tributo, ma anche l’occasione per riunire le pizzerie, trentuno quelle note, che includono la Carminuccio nei loro menù. L’evento è realizzato con la collaborazione di sponsor esclusivamente commerciali: Acqua Pazza di Cetara, Caputo, Caseificio La Tramontina, Famiglia Pagano, Nobile Pomodori, Mulino Urbano, Crub Sea Front e Sa Car ed è stato presentato dalla giornalista Maria Teresa Sica, che tiene con orgoglio a rivendicare le proprie origini campane.

Scopro che oltre ai numerosi pizzaioli di Salerno e provincia, c’è Antonio Amato, proprietario della pizzeria Affamato a Serravalle Sesia (NO), venuto appositamente per l’occasione; in collegamento da Manhattan c’è Ciro Casella, proprietario di San Matteo NYC, e da Milano Francesco Capece di Confine, Pizza e Cantina, proprio di recente classificatosi undicesimo nella 50 Top Pizza Italia 2023.

Ascolto storie ed esperienze recenti come pure di quarant’anni fa, tutte unite dal comune denominatore di una pizza avvolta in un foglio di carta oleata, addentata con tale vorace golosità da ustionarsi la bocca e consumata in piedi (tanto che la patacca sui vestiti a fine serata era istituzionalizzata) o, nella migliore delle ipotesi, sul sellino di un motorino o sul cofano di una utilitaria.

Tutti ricevono in omaggio il piatto e la vetrofania con l’originale logo di una pizza stilizzata, creato per l’occasione da Viviana Saponiero, e una magnum di Taurasi Famiglia Pagano. Al termine della premiazione un piccolo buffet per gli ospiti presenti; i vini di accompagnamento sono offerti dalla Famiglia Pagano: I Ponti Falanghina Campania IGP, I Tufi Greco di Tufo DOCG, Le Pietre Fiano di Avellino DOCG, Taurasi DOCG.

Ma soprattutto viene sfornata pizza Carminuccio a go go: al forno lavorano Enzo, suo figlio Raffaele, che a dodici anni già mostra la stoffa del nonno e del papà, e Salvatore. Ed eccola finalmente, la mia Carminuccio: sottile al centro, cornicione gonfio e soffice, cottura perfetta senza bruciature, pomodoro, pancetta, formaggio, basilico e un ingrediente segreto, che Enzo non ha ovviamente voluto rivelare.

La mangio con golosità, ustionandomi la bocca al primo boccone, come da tradizione, evitando con abilità la patacca istituzionale e chiedendo il bis perché è talmente leggera (caratteristica voluta da Carmine come mi ha svelato la moglie Vincenza) che quasi non ti accorgi di averla mangiata.

Sakè: Aichi uno spaccato di Giappone dove si produce l’Houraisen Junmai Ginjo Bi

La prefettura di Aichi conta oltre 7.500.00 abitanti, si trova nella regione di Chūbu, precisamente nella parte centrale dell’isola di Honshū, la più grande dell’arcipelago giapponese, si affaccia sull’Oceano Pacifico a Sud attraverso la Baia di Ise e la Baia di Mikawa ed ha Nagoya per capoluogo.

La morfologia del paesaggio di questa terra spazia dal tratto costiero alle lande pianeggianti, dagli altipiani sino alle montagne innevate, sulle quali domina il Chasuyama coi suoi 1415 metri sul livello del mare. Per quanto rappresenti circa l’1,36% della superficie totale del Giappone, la sua produzione industriale è la più alta di tutte le altre prefetture: Aichi di fatto è il polo manifatturiero, automobilistico ed aerospaziale del Paese.

Si pensi che Nagoya, raggiungibile da Tokyo velocemente con lo Shinkasen, è la terza città più importante del Sol Levante dal punto di vista economico ed ha costituito da sempre uno snodo importantissimo, mettendo in comunicazione Osaka e Kyoto con la capitale, grazie ad una posizione geografica invidiabile che nel tempo è andata corroborandosi grazie al potenziamento ed al progresso costante del porto ed all’installazione di ben due aeroporti.

Il processo storico che ha portato Aichi a diventare la prefettura che è oggi risale almeno al tempo dell’epoca feudale nipponica, periodo in cui esistevano Mikawa ed Owari, province opulente che attirarono con le loro ricchezze e le grandi possibilità di espansione tre daimyō (equivalente di signore feudale) molto famosi.

Ieyasu Tokugawa si stabilì nella prima provincia, mentre Hideyoshi Toyotomi e Nobunaga Oda, quest’ultimo fondatore di Nagoya, nella seconda. Il 24 marzo 1603 Ieyasu Tokugawa divenne shōgun (comandante) ed in seguito pensò di affidare gran parte della provincia di Owari a suo figlio Hidetada, che a sua volta ne stabilì la capitale a Nagoya e che assunse più avanti lo shogunato, facendo prosperare il nuovo centro della provincia grazie alla posizione strategica sulla strada Tōkaidō.

Mikawa venne invece suddivisa tra daimyō che avevano servito fedelmente i Tokugawa, prima del loro accesso al potere. Aboliti gli Han nel 1871, ossia i feudi dei clan che contraddistinsero la storia giapponese per tutto il periodo Edo (ed in parte della Restaurazione Meiji), vennero create le singole prefetture: Owari una volta riunita ad Inuyama diventerà la prefettura di Nagoya, mentre Mikawa, dapprima divisa in dieci prefetture, verrà riunita nella prefettura di Nukara.

Nagoya e Nukata verranno fuse a loro volta nella prefettura di Aichi nel 1872, un modello di fermezza e laboriosità: in questa terra tutto riconduce alla dedizione ed alla fierezza cavalleresca tipica del samurai.

Da vedere assolutamente sono le spiagge della penisola Atsumi, il Toyota Kaikan Museum e la città samurai di Okazaki. Ad Inuyama bisogna visitare il museo all’aria aperta di Meiji Mura, che include edifici storici giapponesi dell’era Meiji ed era Taisho, il parco delle scimmie, il giardino Urakuen e la sala da tè Joan, oltre ai castelli di Nagoya, Okazaki e Toyohashi. La fortezza di Inuyama, ai cui piedi sorge il tempio Sanko Inari ed il santuario di Haritsuna, il castello più antico del Giappone ad essere sopravvissuto intatto a guerre e calamità naturali, mantenendo la sua struttura originale risalente al 1440 ed ultimata il 1537.

Sfoggia tutto il suo splendore sia in primavera che in autunno, grazie ai colori cangianti degli alberi di ciliegio ed acero, ed è un punto panoramico piacevolissimo per osservare il fluire del fiume Kiso. Splendide le passeggiate sino alla Gola di Korankei, il paesaggio presso i Monti Horaiji e le stazioni termali della vicina Yuya, inoltre non manca l’intrattenimento invernale con la stazione sciistica Chasuyama Kogen, la vivacità caratteristica del Capodanno a Osu Kannon e gli strepitosi fuochi d’artificio presso la Baia di Mikawa.

Famoso, infine, il vasellame della città di Seto, le ceramiche prodotte a Tokoname ed i pennelli di Toyohashi, esempi dell’artigianato di questa prefettura inoltre, dalle più semplici ali di pollo fritte alla salsa di miso hatcho, non mancano le specialità gastronomiche le quali includono anche il miso nikomi udon, tipicissimo di Nagoya, e l’hitsumabushi, a base di anguilla. La prefettura di Aichi ha ospitato nel 2005 vi un’esposizione universale sul tema “La Saggezza della Natura” e lo studio Ghibli ha annunciato di voler aprire un parco tematico nel 2022.

Per poter visitare la sakagura ove si produce l’Houraisen Junmai Ginjo Bi bisogna spingersi nell’area interna, verso le montagne, ed arrivare sino alla piccola cittadina di Shitara dove è ubicata la sede storica della cantina Sekiya, fondata nel lontano 1864. Creata dalla famiglia di Takeshi Sekiya, divenuto presidente nel 2010 a seguito della laurea in agronomia conseguita presso l’Università di Tokyo, la sakagura si pose da subito l’obiettivo di portare ristoro ai viandanti che facevano sosta nell’antico borgo ed ai commercianti che all’epoca trasportavano il sale dalla costa all’entroterra.

La mission odierna, nata dalla visione del giovane Takeshi, è quella di diventare il fulcro di una ripresa economica locale attraverso l’agricoltura, sofferente negli ultimi decenni a causa di un ricambio generazionale che manca e che è ripartito attraverso la partnership tra cantina e coltivatori, oltre che l’instaurazione di un nuovo spirito di comunità.

Giallo paglierino molto tenue e di medio corpo, così si presenta l’Houraisen Junmai Dai Ginjo Bi, dai profumi di gelsomino e rosa, mela golden e cantalupo, riso al vapore, guanábana ed una quasi impercettibile nota piperita. Grande equilibrio tra note morbide, la freschezza e sapidità. Persistenza aromatica intensa, breve ma senza essere evanescente, e garbata con un finale leggermente umami.

Un sakè sicuramente fuori dalle logiche del mercato delle sakagura industriali, con un carattere olfattivo tutt’altro che scontato e che non strizza l’occhio al consumatore, anzi richiede la dovuta attenzione per poi concedersi con la sua complessità e piacevolezza senza eccessi. Squisito col cheviche tropical, intrigante con un risotto alle fragole, esalta benissimo il sapore del polpo arrosto allo zenzero.