Ferragosto: festeggiamolo con il Valdobbiadene Prosecco Superiore dell’azienda Merotto

Le dolci colline tra Conegliano e Valdobbiadene, avvolte da una luce dorata, sono un incanto per gli occhi e per l’anima. Con l’orizzonte punteggiato dalle vette innevate delle Dolomiti Bellunesi, l’atmosfera è intrisa di un’armonia naturale che avvolge ogni angolo di questa terra.

È qui che nascono le radici enologiche di Graziano Merotto – Azienda Agricola Merotto, protagonista silenzioso ma deciso nella scena del Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG.

L’esperienza inizia con un’accoglienza calorosa da parte della responsabile vendite Sonya Zanolla. Ci addentriamo in un viaggio nella Denominazione tra i comuni di Conegliano e Valdobbiadene, una terra selezionata dall’Unesco per la sua bellezza naturalistica. Questi terreni, composti da marne e conglomerati, sono il cuore dell’areale.

Il Prosecco, nome che evoca convivialità e leggerezza, è il protagonista del racconto: in un mondo in cui la velocità sembra regnare sovrana, il Prosecco si presenta come un sorso di autenticità e tradizione. Sebbene sia spesso paragonato alle bollicine francesi per numero di bottiglie, rappresenta un tesoro italiano apprezzato per la facilità di beva e la versatilità.

Un compagno ideale per le serate con gli amici, che nasconde anche un’anima ricca di sfumature, un’essenza che Graziano ha saputo catturare e interpretare con eleganza. Ringrazio Silvia Baratta, dell’Agenzia Gheusis Srl, per aver organizzato la visita in cantina. Incontri destinati a cambiare le sorti di una vita spesso accadono per caso, e così è stato per Graziano Merotto. Da giovane ragazzo inserito in una famiglia di agricoltori, ha sfidato le convenzioni e creduto nel successo di ciò che allora sembrava audace: produrre uno spumante Metodo Classico in terra di Valdobbiadene.

La cantina è un’affascinante casa storica che si erge con maestosità a mo’ di santuario di tradizione e innovazione. Graziano ha tracciato un sentiero illuminato dalla passione e dalla dedizione, determinato a rendere ogni sorso di Prosecco una sinfonia di gusto unica, con uno sguardo che attraversa i vigneti e si posa sulla cappella dedicata a San Martino.

La degustazione diventa un viaggio attraverso le varie sfumature del Prosecco. La Cuvée del Fondatore, omaggio al cinquantesimo della cantina, è una celebrazione di eleganza e maestria. Un Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG Brut Millesimato 2020 frutto della selezione dei grappoli migliori, un’espressione del territorio che Merotto custodisce gelosamente.

La storia non si ferma qui. L’Integral Brut Millesimo 2022 e il Bareta Brut sono testimonianze della dedizione di Graziano Merotto. Ogni sorso svela un’armonia tra l’uva Glera e la terra, una danza di bollicine che esalta il palato.

E ancora vini sempre più interessanti come Casté, un Crù Extra Dry Millesimato 2022 ottenuto da un piccolo vigneto in cima alla collina dove un tempo sorgeva un Castello. La bottiglia trasparente con la confezione arancione è stata  sostituita da una nuova bottiglia più scura. Poi La Primavera di Barbara, dedicato alla figlia di Graziano e Colbelo Extra Dry. E poi ancora Grani di Nero Rosé Brut vinificato da Pinot Nero.

Il Prosecco ed in articolare quello proveniente da Valdobbiadene, è la quintessenza di un territorio, un’introduzione a una cultura, una poesia scritta con uve. Tuttavia, questa poesia è a rischio di banalizzazione, minacciata da prezzi troppo bassi e standard di qualità calanti. Graziano Merotto ha saputo resistire a questa tendenza, mantenendo saldo l’impegno verso la qualità. Tralasciando la facile corsa al profitto, ha scelto un cammino meno battuto, optando per una produzione di minor quantità ma di qualità superiore. I

Il Prosecco è una melodia che unisce o divide, ma indubbiamente è un simbolo dell’Italia nel mondo. Dai suoi vitigni coltivati tra le colline del Prosecco Superiore di Valdobbiadene D.O.C.G., nasce un’eleganza raffinata e autentica, cultura, essenza e passione che l’azienda Merotto ha trasformato in realtà.

Il Consorzio Tutela Vini Friuli Colli Orientali e Ramandolo festeggia le 50 candeline: momento giusto per un bilancio in vista delle scelte future

A volte per giungere a delle conclusioni positive bisogna guardarsi intorno, sviscerando il passato e il presente a testa alta e senza remore. Lo fa Matteo Bellotto, consulente del Consorzio Tutela Vini Friuli Colli Orientali e Ramandolo, fornendo alla stampa una sequenza di numeri e ricerche davvero impressionanti, di cui ogni attore in gioco dovrà imparare a tenerne conto.

Lo fanno i singoli produttori, consapevoli di ciò che non va, schiacciati a volte da logiche di mercato alle quali non è sempre facile reagire. Ovviamente non tutto è negativo, anzi. Il livello medio dei vini assaggiati durante il tour organizzato dal 12 al 15 luglio è risultato davvero interessante, non solo per le classiche versioni in bianco.

Una maggior autocoscienza di come la qualità debba essere creata partendo, in prima battuta, dalla scelta dei terreni vocati: non si può coltivare varietà così profondamente diverse, per espressioni e carattere, in un medesimo angolo di territorio. Serve, inoltre, maggior prontezza nell’applicare tecniche moderne di cantina, per garantire al meglio la conservazione di aromi e sostanze eleganti, marcatori fondamentali dell’intero areale.

Per il 50° anniversario, festeggiato con 3 anni di ritardo causa pandemia, il Consorzio ha anche elaborato un nuovo logo, il marchio che diventerà l’emblema rappresentativo per i prossimi anni. La spada è il simbolo di Cividale del Friuli – lo spadone del Patriarca Marquardo. La lama entra nel calice e affonda nella storia, come ogni vino sa essere storia, finezza, eleganza del gesto.

I numeri, sempre quelli, parlano della gestione complessiva di 3 DOCG e 5 sottozone, oltre una sesta (Savorgnano) in arrivo a breve. Vitati 28.800 ettari suddivisi per ben 26 varietà tra autoctoni e internazionali. Sono state mappate oltre 5400 vigne, considerando suoli, pendenze, esposizioni, escursioni termiche clima e precipitazioni meteorologiche. Dorsali moreniche, presenza di flysch, roccia sedimentaria clastica tipica di queste valli, argilliti, feldspati e quarziti. Una complessità non indifferente che fa del lembo orientale del Friuli uno dei terreni geologicamente più antichi d’Europa.

E poi l’incontro, finalmente, con i produttori dopo i saluti iniziali del Presidente Paolo Valle, visibilmente emozionato dalla folta presenza di giornalisti e operatori del settore provenienti da molte regioni italiane. Parlare con un viticoltore ha sempre un fascino intrinseco. Ascoltare la storia di ognuno, certamente talora ripetitiva per alcuni aspetti, ma ricca di emozioni e suggestioni che formano il pane quotidiano di chi abbia a cuore la professione del giornalismo enogastronomico.

È il caso del giovane Federico De Luca di Ronc dai Luchis e del suo racconto sul Refosco di Faedis: varietà dalle connotazioni diverse dal Peduncolo Rosso, dal Refosk e dal Terrano. Materiale genetico recuperato da vecchi impianti, anche per quanto concerne il Refoscone (o Berzamino), anch’esso appartenente alla nutrita famiglia dei refoschi e quasi scomparso. Tante le similitudini di questi vitigni con altri come la Croatina e la Bonarda, in particolare per quanto concerne il carattere speziato, sottile fil rouge alla base di ogni assaggio.

O come Germano Zorzettig, cognome popolare da queste parti, della cantina La Sclusa, con l’etichetta Friulano 12 viti frutto della ricerca e sperimentazione su ben 12 cloni di Friulano, le cui uve vengono vinificate separatamente per realizzare poi il giusto blend in funzione dell’annata.

O Bruna Passetti, titolare, assieme al marito, dell’azienda Flaibani che ha presentato la sua idea di Pinot Grigio Ramato semplicemente da urlo.

E perché no, l’edizione limitata 2014 di Friulano “L’Evoluto”, nomen omen, scelto da Paolo Rodaro e dalla vulcanica moglie Lara titolari della cantina Rodaro, dopo un lunghissimo (e altamente sensato) riposo tra legno e bottiglia per il vitigno principe del Friuli Venezia Giulia.

Le sorprese non finiscono qui, grazie al Merlot 2018 appetitoso e lunghissimo di Marina Danieli, già pienamente convincente nella proposta del Pinot Grigio targato 2020, elegante e dalla classe cristallina.

E del Sauvignon Blanc 2022 di Bastianich, dobbiamo ammetterlo, in grande spolvero, dimentico stavolta di soddisfare solo il gusto di quanto chiede mercato, al quale va comunque prestata massima attenzione per evitare di avere vini ottimi ma invenduti… Il compromesso si può e si deve fare.

Che dire, invece, della piccola realtà Valchiarò, nata nel ’91 per diletto come attività del dopolavoro da 5 amici torreanesi – Armando, Lauro, Emilio, Galliano e Giampaolo – e divenuta adesso una solida realtà. Ottimo il Friulano da 5 particelle, ma sorprendente e accattivante nel prezzo il Cabernet Sauvignon 2021 in purezza, da vigna singola.

Chiudiamo con un altro autoctono di lusso, davvero difficile da produrre per via di componenti tanniche irsute e mai dome, con acidità pronunciate: il Pignolo. Tralci di Vita lo propone nella spettacolare versione 2018, appagante e dal succo di mirtillo maturo.

La nostra visita termina a Cividale del Friuli, per un momento goliardico e rilassante affacciati sul Ponte del Diavolo. Fondata da Giulio Cesare con il nome di Forum Iulii, da cui viene il nome Friuli, nel 568 d.C. Cividale divenne sede del primo ducato longobardo in Italia e in seguito, per alcuni secoli, residenza dei Patriarchi di Aquileia. Questo patrimonio storico e artistico è stato riconosciuto dall’UNESCO.

ll Ponte del Diavolo è uno dei simboli, sospeso sul fiume Natisone e avvolto nella leggenda. Le due sponde erano unite, almeno dal Duecento, da un passaggio in legno, sostituito dopo diversi tentativi inconcludenti dal manufatto in pietra progettato da lacopo Dugaro da Bissone, che ne iniziò la costruzione l’anno 1442. I lavori, lenti e contrastati da avversità di varia natura, proseguirono cinque anni dopo sotto la guida di Erardo (o Everardo) da Villaco, già collaboratore del Dugaro, che forse era morto di peste o, secondo altre versioni, si era defilato senza onorare interamente i suoi obblighi contrattuali.

Deceduto il capomastro Erardo, era Bartolomeo delle Cisterne a ultimare l’agognato ponte, che in base ad un atto notarile sappiamo essere stato lastricato nel 1501 ed ancora nel 1558. Le sue estremità erano difese da torri, abbattute verso la seconda metà del secolo scorso. Lavori di restauro si sono succeduti nel tempo per mantenere in piena efficienza l’indispensabile passaggio, che doveva sopportare le piene impetuose del fiume.

Cividale del Friuli, città di frontiera, una volta estremo confine della Nato che separava l’Italia ed il blocco Occidentale da quello Orientale del Patto di Varsavia. La presenza dei militari cristallizzava ogni tentativo di libera impresa, soggetta all’inevitabile burocrazia attivata, a più livelli, a difesa dei confini nazionali. Anche di questo bisogna tener conto, nel bilancio complessivo di ciò che hanno vissuto i produttori locali, in vista di un futuro luminoso ambito e in qualche modo meritato.

Una vera pacificazione, forse, ancora manca.

Romagna: l’alluvione ha unito AIS e Slow Food in una cena solidale di beneficenza per la raccolta fondi

L’alluvione è finita ma la solidarietà no: è questo il motto scelto per la cena solidale nata dalla collaborazione di Slow Food condotta di Forlì e AIS Delegazione Forlì, svoltasi giovedì 3 agosto presso l’azienda agricola Calonga.

Sono passati più di due mesi dalla tremenda catastrofe che ha colpito la Romagna, lasciandola immersa nel fango per parecchie settimane. Grazie all’impegno di tutti, le città Romagnole sono velocemente ritornate alla normalità; una normalità agognata che ha però la colpa di farci dimenticare in fretta quanto accaduto.

Un menù a più mani, composto da piatti preparati con materie prime di qualità provenienti da alcune delle aziende del territorio direttamente coinvolte dalle recenti frane (azienda agricola I Mät ad Sgùn, azienda agricola Giorgini, azienda agricola Tirli, Podere le Campore), sapientemente abbinati dai sommeliers di AIS Romagna coi vini dell’azienda agricola ospite, Calonga, di Maurizio Baravelli.

da sinistra Matteo, Francesco e Maurizio Baravelli dell’azienda agricola Calonga

20Italie era lì per voi per raccontarvi da vicino come “l’unione fa da sempre la forza”.

I commensali vengono accolti con un aperitivo in piedi, un pane “speziato” saltato in padella con timo rosmarino e aglio, qualche pomodorino fresco di Calonga (non sono solo vignaioli…) e il loro Baldàn, un metodo classico brut con quasi 5 anni sui lieviti, sapientemente assemblato unendo sangiovese vinificato in bianco e bombino bianco (localmente conosciuto come pagadebit) in parti eguali.

La ricca tavolata inizia a colorarsi di cibo appena viene servito l’antipasto, il tonno di coniglio, un lessato di coniglio con erbe aromatiche, condito con olio evo e spezie. La prima portata è composta da bucatini al ragù bianco con scalogno romagnolo (pasta rigorosamente home made di farina di semola rimacinata e trafilata al bronzo). Entrambe le pietanze accompagnate da L’Azzurro, un freschissimo Romagna DOC Pagadebit.

Arriviamo al pezzo forte, il “coniglio saporito”, un piatto che vinse il Premio Marietta 1997, riconoscimento istituito in nome della fedele cuoca governante di Pellegrino Artusi. A questo piatto vincente, viene abbinato il Bruno, simpaticissimo ed estivo Romagna DOC Sangiovese dal colore rosso tenue, e dalla quasi assenza di tannino.

Si chiude la cena con le tradizionalissime ciambella e crostata Romagnole, e l’altrettanto tradizionale Albana Dolce.

da sinistra Caterina Valbonesi Delegato AIS Forlì e Antonella Altini fiduciaria Slow Food Condotta di Forlì

Durante la serata le due Organizzazioni enogastronomiche si sono inventate una lotteria con premi in bottiglie di vino del territorio, cortesemente donate dal Consorzio Vini di Romagna.

Ed ha funzionato: sono stati ben 1.120 euro i fondi raccolti consegnati nelle mani della Parrocchia di Don Felice in modo da essere devoluti alle famiglie più in difficoltà.

Il commiato è avvenuto non prima di aver degustato anche tutti gli altri vini di Calonga, in particolare, Zenaide, Chardonnay che fermenta in barriques; e poi “7” Romagna DOC Sangiovese Superiore Riserva prodotto solo in particolari annate (quella in degustazione era una sorprendente 2017, anno dove pochi sono riusciti a far bene) e due Vermouth, BV Bianco e BV, nati dalla collaborazione col noto profumiere Baldo Baldinini.

San Gimignano (SI) – Il Palagione: vini solidi come le storiche torri comunali

Lo scorso 9 agosto con amici ho visitato l’azienda vitivinicola Il Palagione.

Esperienza indimenticabile, arricchita dall’ospitalità di Giorgio Comotti, titolare dell’azienda, che ci ha deliziato con una degustazione dei suoi piacevoli vini sulla panoramica terrazza nell’antico fienile. Tante le nostre “enozioni” visitando la cantina, tradotte in conseguenti emozioni…

Dettagli molto interessanti che vanno ad aggiungersi al puzzle di conoscenza. Giorgio è molto affabile, competente e attento ad ogni singolo dettaglio, sia in vigna sia in cantina. Nulla viene lasciato al caso: il fil rouge dei vini è rimarcato da freschezza e sapidità.

Al centro Giorgio Comotti

Alcuni cenni sull’azienda e sulla Vernaccia di San Gimignano

Il Palagione si trova a San Gimignano e si erge sulla sommità della collina. Un antico podere risalente al 1594, finemente ristrutturato, posto lungo la strada panoramica che collega San Gimignano a Volterra. Una struttura immersa tra vigneti di Vernaccia e Sangiovese, ma anche bosco e oliveti. La vista gode di un panorama impareggiabile sulla città turrita e la verde vallata circostante.

Di proprietà dal 1995 di Giorgio Comotti, milanese di origine e innamorato di questa stupenda campagna, che assieme alla moglie Monica Rota decise di trasferirsi in questo lembo di Toscana per dar vita al suo progetto. Si è cimentato con grande passione e abnegazione nel mondo del vino ed ha lasciato le sue attività precedenti.

I vigneti vengono condotti secondo il regime di agricoltura biologica e le varietà coltivate sono Vernaccia, Sangiovese e Merlot. Gli appezzamenti sono posti ad un’altimetria media di 320 metri, su terreni argillosi e sabbiosi con presenza di fossili marini. L’azienda si estende su una superficie complessiva di 40 ettari, di cui 20 vitati e 3 ettari di uliveti.

La Vernaccia di San Gimignano è stato il primo vino italiano ad ottenere la denominazione di origine controllata nel 1966; successivamente è nato il Consorzio del Vino Vernaccia di San Gimignano che ha contribuito a dare nuovo slancio per la produzione di qualità, ottenendo nel 1993 la meritatissima Docg. 

San Gimignano si trova nella parte nord-ovest della provincia di Siena. Dichiarato dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità, conosciuto in tutto il mondo per le torri medievali, che gli hanno valso l’appellativo di Manhattan del Medioevo. In questo territorio si producono anche ottimi vini rossi, ma la produzione maggiore è riservata alla Vernaccia. Un bianco italiano con una notevole capacità d’invecchiamento, prodotto anche nella tipologia ” Riserva “.

Note di degustazione

Spumante Rosè Metodo Classico Nature De Monì 2019 – Sangiovese – Rosa tenue, perlage fine e persistente, tra note di rosa, crostata di frutti di bosco e sussulti d’arancia rossa che anticipano il palato, con una freschezza e una cremosità disarmanti.

Vernaccia di San Gimignano Hydra 2022 – 100% Vernaccia Toni giallo paglierino con sfumature  verdoline. Naso ricco di pompelmo, mela, pera e mandorla. Fresco e sapido, il finale è lungo con richiami agrumati.



Vernaccia di San Gimignano Lyra 2021 – Vernaccia 100% – Paglierino tendente al dorato, emana note di fiori di montagna, susina, pesca, melone, lime e mandorla,. Bocca avvolgente dal finale decisamente persistente.

Vernaccia di San Gimignano Riserva Ori 2021 – Vernaccia  100% – Giallo brillante, complesso, sprigionante sentori di pesca, zafferano, cedro, ananas, mango, papaya. Colpisce per la piacevole morbidezza, ma al contempo sa essere fresco e lungo, armonico ed equilibrato.

San Gimignano Doc Rosato Sunrose’ 2022 – Sangiovese – Bellissima tonalità rosa salmone, dipana eleganti sentori di fragolina di bosco, melagrana e rosa di campo. Sorso piacevolmente fresco e sapido, lungo e leggiadro.

Chianti Colli Senesi Riserva Draco 2019 – Sangiovese in purezza –  rubino trasparente e consistente, su note di ciliegia, violetta e frutti di bosco si alternano a note di pepe e bacche di ginepro,  avvolgente e decisamente persistente.

Nella nostra vita raramente prendiamo atto che ciò che riceviamo che è, talvolta, molto di più di ciò che diamo.

Il Palagione
Località Palagione – Castel San Gimignano
53037 – San Gimignano – Siena (SI)

Montefalco Green: esperienza “sostenibile” alla scoperta del territorio del Sagrantino

Il 14 e 15 giugno il Consorzio Tutela Vini Montefalco ha organizzato un press tour con l’intento di promuovere una declinazione ecologica del turismo in cantina e di valorizzare la produzione vinicola di una terra unica, “verde” per definizione.

Recentemente Il Consorzio, aderendo a Wine in Moderation, il principale programma di responsabilità sociale del settore, ha confermato l’impegno a praticare la sostenibilità, in modo etico e coerente. i territori di produzione delle Denominazioni di Origine Spoleto, Montefalco e Montefalco Sagrantino si contraddistinguono, infatti,  per l’attenzione a ridurre sempre di più l’impatto ambientale.

Montefalco Green ha voluto proporre un modo sostenibile per approcciarsi al mondo del vino, alla scoperta di vini, delle cantine e delle denominazioni, attuando una conversione ecologica del modo di concepire l’enoturismo: i giornalisti e bloggers intervenuti hanno potuto sperimentare bici e auto elettriche, le “Sagreentino”, per spostarsi lungo le strade del comprensorio di Montefalco, in visita alle cantine aderenti al progetto. Questi mezzi  propongono una mobilità lenta, nel rispetto appunto del territorio, che viene solo “sfiorato”: a questo proposito il Consorzio Tutela Vini di Montefalco ha stipulato un accordo con Enel X e sono stati già stati attivati 12 punti di ricarica in 6 cantine, in attesa di raggiungere quota 15 infrastrutture in altrettante aziende.

 

Il punto cardine del Consorzio è quello di proporre strategie innovative sempre nel rispetto della sostenibilità ambientale. Da tempo è già operativo il progetto Grape Assistance, un nuovo modello di assistenza tecnica per la gestione sostenibile del vigneto, applicato dal 2017 in tutta la regione Umbria.

Inoltre, molte aziende hanno aderito al New Green Revolution con lo scopo di installare impianti fotovoltaici e caldaie a biomassa per la riduzione del gas serra e ad Agroforestry , ovvero l’allevamento di avicoli e le lavorazioni con i cavalli nei vigneti.

La quota di aziende che praticano agricoltura biologica certificata o sono in conversione è salito al 31%; un dato che è sicuramente in aumento, che candida i territori di Montefalco e Spoleto a essere una delle aree vinicole più “green” dell’Italia.

L’evento è stato organizzato in modo impeccabile, nonostante la variabile del meteo che non ha certo assistito i partecipanti.

Il percorso con la green car ha toccato per prima l’azienda Romanelli, dove Devis ha raccontato la storia della famiglia, iniziata nel 1978, quando suo nonno e suo padre decisero di creare l’azienda agricola sul Colle di San Clemente a Montefalco. La biodiversità è rispettata nella scelta di dedicare 8 ettari alla vigne e 12 all’olivocoltura dei circa trenta posseduti, tutti condotti in regime biologico.

Durante la degustazione, accompagnata da quella dell’olio prodotto dagli stessi Romanelli (da ben quattro varietà quali leccino, frantoio, san Felice e moraiolo), abbiamo assaggiato Le Tese, da uve Trebbiano Spoletino provenienti da un vecchio vigneto, che ha ancora le viti maritate agli alberi. Poi il Terra Cupa Montefalco Sagrantino lasciato maturare a lungo in botti di rovere di diverse grandezza, ottenuto dalla parte più argillosa e calcarea del vigneto del Colle ove sorge la cantina e infine Medeo Montefalco Sagrantino prodotto solo nelle annate eccezionali, dedicato ad Amedeo Romanelli, che fu il primo a imbottigliare il vino di famiglia.

La seconda realtà del comprensorio visitata è stata Agricola Mevante, cantina di recente costruzione con una elegante e luminosa sala degustazione: Paolo e Antonella Presciutti hanno fatto diventare la loro passione un lavoro e la produzione si attesta per ora sulle 60.000 bottiglie. Abbiamo assaggiato Birbanteo sur lie da Trebbiano Spoletino e un rosato ottenuto da uve Sagrantino coltivato in vigneti nel comune di Bevagna impiantati da circa vent’anni.

Tra un temporale e l’altro siamo arrivati all’ora di pranzo alla cantina La Fonte: una realtà nata a Bevagna all’inizio del ‘900 grazie al bisnonno Angelo e che col passare del tempo è stata divisa tra i figli. Negli anni novanta del secolo scorso, Guido, da sempre appassionato di agricoltura decise insieme alla moglie Patrizia, di avviare lì attività producendo olio e vino. Il nome “la fonte” deriva dalla sorgente naturale ancora visibile, nascosta nel bosco a pochi passi dell’agriturismo.

L’incontro con Bevanato, macerato sulle bucce per una decina di giorni, è stato spettacolare: un tripudio di frutta matura a polpa gialla e tropicale, freschezza e chiusura sapida, grande bevibilità e piacevolezza. Amorosa è  il rosè ottenuto da Sangiovese raccolto anticipatamente e Cabernet Sauvignon. Profumato, fragrante, succoso. Si è proseguito con l’assaggio del Montefalco Rosso e del Montefalco Sagrantino, entrambi di notevole qualità.

Nel pomeriggio, riprese le Sagreentino Car il gruppo si è diretto alla Fattoria Colsanto, di proprietà della famiglia Livon del Friuli Venezia Giulia e che nel 2001 ha voluto investire in questo bellissimo territorio, ristrutturando un casale del ‘700 e acquisendo circa 20 ettari impiantati tra Sagrantino, Sangiovese, Montepulciano e Merlot.

Un viale costeggiato da cipressi conduce all’ingresso della struttura, che comprende anche un agriturismo: dopo la visita in cantina, l’enologo ha illustrato i vini in degustazione, focalizzando il nostro interesse sul Cantalupo proposto in diverse annate: un vino ispirato al bianco pluripremiato dell’azienda madre, ottenuto da Trebbiano Spoletino coltivato nel territorio di Bevagna e affinato in legno. Abbiamo poi assaggiato un ricco tagliere con salumi e formaggi prodotti localmente e finito un’esperienza molto interessante  con il servizio del Montefalco Sagrantino.

Ultima realtà raggiunta dal tour è stata Briziarelli: i lavori per la costruzione della cantina, vero gioiello architettonico, sono iniziati nel 2012 e la struttura domina i 50 ettari posseduti, di cui 22 vitati. Qui vengono coltivate le varietà autoctone ed è stato scelto uno stile di vinificazione tradizionale.

In degustazione Sua Signoria, un Trebbiano Spoletino che dopo la fermentazione matura in legno e Anthaia, il rosato ottenuto dalle uve a bacca nera coltivate in azienda. Abbiamo proseguito sui rossi con Rosso Mattone Montefalco Rosso Riserva e, infine, il Montefalco Sagrantino, intenso, potente e strutturato.

La giornata si è conclusa con la cena di gala ospiti, della cantina del presidente del Consorzio Tutela Vini Montefalco Giampaolo Tabarrini, al quale sono intervenuti i produttori tra cui Filippo Antonelli di Antonelli San Marco, Paolo Romaggioli enologo di Terre De la Custodia  e Liù Pambuffetti di Scacciadiavoli, dove gli ospiti hanno potuto proseguire al tavolo gli assaggi, serviti dai sommelier AIS, dei vini di questo luogo magico, dove tutto riesce a emozionare e a lasciare ricordi indelebili nella memoria.

Un ringraziamento, infine, a MG Logos per l’invito e la splendida opportunità di conoscere Montefalco e le sue produzioni.

La verticale di Bellone della cantina I Pàmpini: un vitigno guerriero che offre vini espressivi e serbevoli

Da chi poteva mai partire l’idea di svolgere una verticale su un vitigno, il Bellone, spesso messo da parte dal suo stesso territorio? Solo Carmen Iemma ed Enzo Oliveto della cantina I Pàmpini potevano approcciarsi a questa esperienza, unica nel suo genere, forti della profonda conoscenza che hanno del vitigno Bellone e spinti dall’amore che in esso hanno riposto fin dall’inizio.

da sinistra l’enologo Pierpaolo Pirone, Carmen Iemma e Enzo Oliveto

Siamo sul litorale laziale, in Località Acciarella (LT), fra Borgo Piave e Nettuno, a 2 Km dal mare. I terreni sono pianeggianti, argillosi e silicei, con una componente sabbiosa di origine marina che influenza notevolmente la mineralità dei vini. L’azienda nasce nel 1999 ad opera di Carmen Iemma, ex docente, ed Enzo Oliveto, già capitano di marina; il nome deriva dallo stato in cui i coniugi trovarono la vecchia proprietà con pampini, cioè tralci di vite sparsi un po’ ovunque e in abbandono.

Tra i primi a produrre vino da uve Bellone in purezza, circa 5000 bottiglie all’anno, hanno in squadra dal 2016, il giovane e talentuoso enologo Pierpaolo Pirone, che segue con dedizione e competenza il progetto.

Il Bellone è un vitigno di origini antichissime, diffuso nell’area dei Castelli Romani già in epoca romana e citata da Plinio il Vecchio come “uva pantastica”. Oggi nell’area di Nettuno, diverse realtà vitivinicole hanno iniziato a credere nella valorizzazione del Cacchione, nome qui consentito per disciplinare.

Sulle vigne sorge il Sole la mattina e cala la sera raggiungendo temperature estive importanti; gli zefiri dai colli Albani, alle spalle della pianura, apportano aria fresca consentendo le giuste escursioni termiche e la maturazione delle uve senza scossoni negativi.

Il prodotto sottoposto alla verticale è il vino Bellone non filtrato

I grappoli vengono scelti e raccolti a mano a metà settembre, le uve vinificate in bianco con tecniche tradizionali e decantazione statica. Il mosto pulito fermenta in serbatoi di acciaio inox a temperatura controllata per ricercare il minimo dell’espressione aromatica del lievito e il massimo dalla trasformazione dei precursori aromatici.

Negli assaggi a ritroso nel tempo, coadiuvati dalla sommelier di sala Silvia, si è voluto ricercare le caratteristiche varietali. La degustazione ha riguardato 6 annate: 2021-2020-2019-2018-2017-2013. Il risultato è stato un’immersione piacevole e accademica, stimolante ed entusiasmante nel mondo del Bellone.

2021: Enzo la definisce “Ottima annata”, in quanto la vite ha compiuto il suo ciclo vitale senza stress, riuscendo a esprimersi nelle sue massime potenzialità. Al gusto l’acidità è molto larga, non tagliente e prevale sulla grassezza e sulla struttura del vino. Naso da classici frutti pompelmo e pera, con richiami floreali che ritrovano la stessa sensazione percepita masticando un acino. Nel finale resiste qualche nota balsamica, un sentore di coccio e torba e una grande salinità finale che arricchisce la persistenza.

2020: più calda della 2021 e meno piovosa. Ad influenzare l’andamento, probabilmente, è stata proprio la media delle temperature, lievemente più alta. Ciò comporta nel bouquet una prevalenza di note fruttate, in particolare frutta matura, ed un calo di quelle floreali; al gusto, però, la freschezza è ben accentuata. Avviluppa e accompagna con mineralità salmastre e lunghezza di bocca.

2019: L’annata è stata quella che maggiormente ha subito influenze della gelata primaverile del 2018. In quell’anno la vigna è stata sottoposta ad interventi di forte potatura, proprio per consentire il risanamento delle piante. La quantità di uva è stata minore come anche la resa, ma ha avuto una stagione di maturazione molta lunga. Il colore risulta giallo paglierino con riflessi verdognoli, il naso riporta alla complessità della 2021, ma la bevuta ricorda la bocca della 2020. La mineralità è predominante ed è figlia del territorio: richiama il mare.

2018: Annata difficile, lo abbiamo detto, con due gelate ad aprile. Come non bastasse la stagione estiva ha visto un clima tendenzialmente tropicale. Ne derivano note vegetali e balsamiche, da finocchietto selvatico, bergamotto quasi candito, e pasticcino al liquore. Un’altalena gustativa, che lascia arrivare solo in un secondo momento la tipica scia minerale e agrumata del bergamotto.

2017: sembra una vendemmia tardiva. Lo stesso colore giallo dorato conferma tale sensazione. Lieve ossidazione al naso, ma ancora buona la freschezza. Predominano i sentori terziari, in particolar modo le spezie dolci. Il vino risulta più snello, carente in lunghezza di sorso.

2013: Quest’ultima annata differisce dalle altre annate per essere stata sottoposta a filtrazione e per la giovane età delle vigne (all’epoca avevano dieci anni).  Meno intenso, ma molto espressivo. Predomina la frutta candita, le balsamicità e la mineralità. Nuance terrose sul finale. Il vino è maturo, evoluto ma ancora piacevole da degustare.

In conclusione: il Bellone nelle varie annate degustate ha messo in evidenza la sua grande capacità di resistenza alle avversità climatiche e dello scorrere del tempo. Primeggia il suo carattere, l’animo guerriero, di combattente che vince sui vari ostacoli.  

La frase di Anatole France aiuta a sintetizzare bene il coraggio e la fermezza avuta da tutta la squadra:  “Per realizzare grandi cose, non dobbiamo solo agire, ma anche sognare; non solo progettare ma anche credere”.

Carminuccio Week: tu chiamala se vuoi… una pizza

Quando mi hanno proposto di prendere parte alla serata di apertura della Carminuccio Week, confesso che ero stata abbastanza scettica.

Da non salernitana, (napoletana solo per parte di madre), mi chiedevo cosa avrei potuto cogliere di una serata che, a tutti gli effetti, si preannunciava come un memorial a un anno esatto dalla dipartita, di Carmine Donadio, in arte “Carminuccio”, per tutti i salernitani doc che in qualche modo lo avevano conosciuto.

Mai come in questo caso il famoso assunto scrivi di ciò che conosci mi sembrava riferito ad una conoscenza reale e concreta, senza la quale temevo di perdere l’essenza stessa della persona per ritrovarmi a stendere il mero resoconto di una serata tra amici, dove io stessa sarei diventata un elemento estraneo. Più raccoglievo informazioni preliminari, leggendo le motivazioni dell’evento promosso dal giornalista enogastronomico Luciano Pignataro, autoctono illustre, più questa sensazione prendeva consistenza.

E invece mi sono dovuta ricredere.

17 luglio 2023 – ore 18.30: una delle sere più calde di questa torrida estate. La location scelta per l’evento è il Crub Seafront Bay a Vietri sul mare. All’arrivo molti bagnanti si attardano ancora sulla spiaggia su cui si affaccia il locale, mentre fervono i preparativi per la serata. Salta subito all’occhio la schiera di pizzaioli in divisa, già presenti sul posto. Gran parte della festa è dedicata a loro, che hanno inserito in carta la pizza Carminuccio (creata ormai cinquant’anni fa da Carmine Donadio) che per un’intera settimana la offriranno ai loro clienti ad un prezzo speciale.

Poi noto loro: Vincenza, moglie e compagna di Carmine per una vita intera, Maria Rosaria e Diamante, le figlie, Enzo, il genero che ne ha raccolto l’eredità e nello sguardo serio e fiero racconta tutto l’orgoglio, che preferisce non esprimere a parole.

Mi rendo conto che il clou dell’evento è tutto in queste due immagini, capaci di trasmettere in modo potente ed evocativo l’idea di una persona e di quello che ha fatto in vita, fino a farla diventare una leggenda.

Luciano Pignataro, reduce della kermesse 50 TOP Pizza Italia 2023, così mi racconta la pizza Carminuccio:

<<La Carminuccio fu inventata da Carmine Donadio, pizzaiolo di lungo corso nel quartiere periferico di Mariconda, che all’inizio dell’attività era un cosiddetto quartiere difficile. Lui inventò questa pizza molto semplice con pomodoro, pancetta, formaggio e un po’ di forte, servita con la carta oleata, in una città, Salerno, che non aveva una grande tradizione di pizza. Intere generazioni di salernitani sono cresciute con questa pizza che ha attraversato le mode ed è diventata identitaria. Identitaria e incredibilmente moderna, nonostante i cinquant’anni d’età, (la Carminuccio è una pizza senza mozzarella, oggi talvolta usata in sovrabbondanza per coprire altre mancanze), che gioca sulla purezza degli ingredienti: la qualità della pancetta, la qualità del pomodoro, la qualità del formaggio.>>

La serata è dunque un tributo, ma anche l’occasione per riunire le pizzerie, trentuno quelle note, che includono la Carminuccio nei loro menù. L’evento è realizzato con la collaborazione di sponsor esclusivamente commerciali: Acqua Pazza di Cetara, Caputo, Caseificio La Tramontina, Famiglia Pagano, Nobile Pomodori, Mulino Urbano, Crub Sea Front e Sa Car ed è stato presentato dalla giornalista Maria Teresa Sica, che tiene con orgoglio a rivendicare le proprie origini campane.

Scopro che oltre ai numerosi pizzaioli di Salerno e provincia, c’è Antonio Amato, proprietario della pizzeria Affamato a Serravalle Sesia (NO), venuto appositamente per l’occasione; in collegamento da Manhattan c’è Ciro Casella, proprietario di San Matteo NYC, e da Milano Francesco Capece di Confine, Pizza e Cantina, proprio di recente classificatosi undicesimo nella 50 Top Pizza Italia 2023.

Ascolto storie ed esperienze recenti come pure di quarant’anni fa, tutte unite dal comune denominatore di una pizza avvolta in un foglio di carta oleata, addentata con tale vorace golosità da ustionarsi la bocca e consumata in piedi (tanto che la patacca sui vestiti a fine serata era istituzionalizzata) o, nella migliore delle ipotesi, sul sellino di un motorino o sul cofano di una utilitaria.

Tutti ricevono in omaggio il piatto e la vetrofania con l’originale logo di una pizza stilizzata, creato per l’occasione da Viviana Saponiero, e una magnum di Taurasi Famiglia Pagano. Al termine della premiazione un piccolo buffet per gli ospiti presenti; i vini di accompagnamento sono offerti dalla Famiglia Pagano: I Ponti Falanghina Campania IGP, I Tufi Greco di Tufo DOCG, Le Pietre Fiano di Avellino DOCG, Taurasi DOCG.

Ma soprattutto viene sfornata pizza Carminuccio a go go: al forno lavorano Enzo, suo figlio Raffaele, che a dodici anni già mostra la stoffa del nonno e del papà, e Salvatore. Ed eccola finalmente, la mia Carminuccio: sottile al centro, cornicione gonfio e soffice, cottura perfetta senza bruciature, pomodoro, pancetta, formaggio, basilico e un ingrediente segreto, che Enzo non ha ovviamente voluto rivelare.

La mangio con golosità, ustionandomi la bocca al primo boccone, come da tradizione, evitando con abilità la patacca istituzionale e chiedendo il bis perché è talmente leggera (caratteristica voluta da Carmine come mi ha svelato la moglie Vincenza) che quasi non ti accorgi di averla mangiata.

Garda Doc: i numeri vincenti del vino dal Lago più grande d’Italia

Il Lago di Garda, già destinazione turistica nota in tutto il mondo, vuole spiccare il volo come Garda Doc.

Tirando le prime somme, ciò che colpisce sono i grandi numeri da spendere sul mercato e un suolo unico da raccontare, anche attraverso la neonata carta dei suoli. Insomma, il calice di Garda Doc si proietta verso una scelta d’appeal per il consumatore non più solo vacanziera.

Una strada in salita

Partita come Denominazione orientata all’immediato consumo, con gli anni ha saputo rendere sempre meglio l’idea di un territorio così particolare, dai connotati mediterranei. I confini si circoscrivono alle sponde lombarde e venete – le più produttive dal punto di vista commerciale e gustativo – e si fa forza sul distretto turistico del Lago di Garda.

Dagli anni Novanta qualcosa in avanti si è mosso, precisamente nel 1996 quando il percorso verso il Consorzio volontario ha avuto il suo inizio. Promuovere al meglio i varietali della Riviera Bresciana, Alto Mantovano e Veronese, è stato infine l’obiettivo concretizzato nel 2016. In quest’anno di svolta sono state fatte importanti scelte di mercato in grado di raccogliere il favore dei consumatori esteri, ma soprattutto quello degli italiani. Per farlo le bollicine sono venute in soccorso: Una scelta premiante quella di inserire in disciplinare la tipologia Spumante Bianco.

Sull’onda di questo successo sono stati molti i produttori che hanno scelto la via dell’unione, arrivando, vendemmia dopo vendemmia, a toccare la cifra annua di circa 20 milioni di bottiglie, quasi la massima produttiva.

Un po’ di numeri

Garda Doc esprime numeri importanti che fanno la differenza: oltre 153.000 hl di vino imbottigliati nel 2022, di cui un terzo da Chardonnay. A seguire il Pinot Grigio e la Garganega con 30.000 ettolitri. Una denominazione a trazione bianchista, ove non mancano i rossi da Cabernet Sauvignon e Merlot. La sfumatura giusta da dare al territorio, senza dimenticare l’autoctono principe che si esprime con il Marzemino. Una varietà da cavalcare in fase di riscoperta delle proprie radici enologiche.

Tra i complici di questi enormi numeri c’è certamente il turismo lacustre che assorbe le maggiori quantità di vino prodotto, soprattutto quando si parla di vini da consumare per un aperitivo o una cena. Ma come comunicarlo al meglio? Partendo dal terroir e andando ancora più a fondo, arrivando fino ai suoli.

Chiamatela “pedodiversità”

Dai grandi nomi ai più piccoli che si fanno forza sul brand Garda Doc, il bisogno di far conoscere il vino gardesano si è fatto maggiormente pressante, non soltanto per le esigenze di vendita. Per questo tra le attività di ricerca che il Consorzio Garda Doc mette in campo, c’è quello di spiegare, una volta per tutte, le potenzialità vitivinicole del lago partendo da milioni di anni or sono. La carta dei suoli è arrivata al culmine di un lavoro di rebranding. A occuparsene è stato Giuseppe Benciolini, con il suo brand Terroir2wine. La presentazione è avvenuta l’8 giugno presso l’Auditorium del Vittoriale a Gardone Riviera (BS).

Durante l’occasione, è stato coniato il termine “Pedodiversità” che offire l’essenza stessa del territorio “Ho coniato un nuovo termine per esprimere al meglio ciò che costituisce l’aspetto più caratterizzante della denominazione Garda DOC e la sua sorprendente varietà di suoli – afferma Benciolini – La pedodiversità appunto. Questo territorio, infatti, racchiude al suo interno diversi tipi di suolo che sono a loro volta derivati dalla grande varietà di processi geologici e di modellamento geomorfologico che hanno interessato il continente negli ultimi 200 milioni di anni.

Il Presidente del Consorzio Garda Doc Paolo Fiorini saluta con favore il documento frutto di studi e ricerche che il Consorzio promuove, affinché si generi maggiore attenzione sull’areale. “Questo lavoro, frutto di diversi studi promossi dal Consorzio, non solo testimonia il continuo impegno e attenzione del Consorzio Garda DOC nel campo scientifico, ma incarna anche i valori e lo spirito di innovazione da noi utilizzati per realizzare un documentario dal taglio prettamente divulgativo”.

Un’opera scientifica resa fruibile con un video nell’ottica dell’enoturismo maggiormente consapevole, al passo con il consumatore diretto verso l’enogastronomia di qualità e che, a ragion veduta, muove quasi il 60% dei viaggiatori italiani a caccia del Made in Italy e di un proprio stile di vita. Una tendenza da cavalcare in maniera consapevole.

Garda Doc consente di arrivare in mercati che i singoli produttori aderenti non avrebbero mai potuto conoscere. Una visione comune, commerciale e strutturata, in grado di rendere giustizia a un territorio che conta 31.000 ettari vitati.

I progetti della denominazione

Parallelamente alla tutela e promozione dei vini, il Consorzio si impegna perché possa di fatto rappresentare un supporto verso gli utilizzatori della Denominazione in ottica di controllo e costante ricerca, volto a un miglioramento complessivo. Un viaggio alla riscoperta di sé stessi, delle proprie origini, che hanno reso il vino competitivo e ben apprezzato all’estero, con volumi di vendite pari al 70%. Germania in prima battuta, poi Regno Unito e Svizzera. Una cifra scindibile in due categorie, vini da Grande Distribuzione e da canali Ho.Re.Ca. I primi comprendono essenzialmente bianchi d’annata, mentre i rossi con Cabernet Sauvignon e Merlot, raccolgono apprezzamenti nel settore ristorazione e hotellerie, perché competitivi con quelli dei “cugini stranieri” per qualità organolettiche e fascia prezzo.

Continueremo a lavorare, è far capire il ventaglio di opportunità che questa DOC può offrire, muovendoci parallelamente e mai in contrasto con le denominazioni storiche del territorio – A dirlo è Carlo Alberto Panont – Direttore del Consorzio Garda Doc – La denominazione mira a mettere tutti gli utilizzatori in condizioni di sfruttare al massimo quello che questo areale può dare”.

L’affinamento subacqueo dei vini: solo una “bolla” di profondità o c’è del vero? Ne parliamo con Marco Bacci ed il suo Talamo a Mare

Non ci nascondiamo mai e non lo faremo neanche stavolta parlando di un argomento alquanto delicato degli ultimi tempi: l’affinamento subacqueo dei vini.

Lo facciamo con un imprenditore dalla visione a dir poco lungimirante, Marco Bacci, le cui prodezze in campo vitivinicolo (dopo quelle dell’alta moda), hanno raggiunto vertici assoluti di eccellenza e qualità. Di lui, e del sogno nato in una delle cantine del Gruppo, quella di Terre di Talamo, ce ne ha già parlato la collega Augusta Boes nell’articolo Toscana: “Talamo a Mare” il bordolese di profondità.

Ciò che invece cercheremo di affrontare quest’oggi con il Direttore di 20Italie Luca Matarazzo e l’autore Alberto Chiarenza, è il tema scottante dello sdoganamento di una pratica divenuta ormai materia d’uso comune.

La sosta del vino in bottiglia, a profondità e condizioni determinate, può influire realmente sulla sua maturazione o resta confinata nei canoni di una semplice pratica commerciale?

Bene o male purché se ne parli dicevano ai tempi della Prima Repubblica; non vogliamo limitarci a un ostracismo incondizionato, ma anzi cercare di aprire gli occhi su un movimento in crescita e in totale fermento (mai termine fu più azzeccato).

Si attendono i risultati imminenti del lavoro pionieristico compiuto da una giovane start-up siciliana, grazie all’appoggio incondizionato dei brand Benanti e Passopisciaro, con il progetto Orygini in collaborazione con l’Università di Catania. Un controllo meticoloso e costante suddiviso in 14 parametri effettuato per durate variabili dai 6 ai 24 mesi su un campione di bottiglie immerse a 48 metri di profondità nei pressi dell’Area Marina Protetta Isole dei Ciclopi, tra Aci Trezza e Aci Castello. Per intanto dobbiamo accontentarci di uno studio già pubblicato dalla società Lyfe Cicle engineering sull’importante riduzione di CO2 (per 1000 bottiglie circa 680 kg) e sul risparmio di risorse energetiche e logistiche.

Al resto manca una nostra valutazione empirica per comprendere le effettive potenzialità, contando sulla correttezza e buona fede degli attori in gioco, elemento essenziale per scrivere un articolo. Lo faremo nel confronto di due annate, la 2018 e 2019, degustate in parallelo tra affinamento classico e affinamento marino.

Il vino di punta di Terre di Talamo, è un blend di quattro vitigni in pari percentuale di Merlot, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon e Syrah. Il desiderio era quello di realizzare un Supertuscan, riuscito davvero bene. I quattro vitigni risultano integrati e si percepiscono, di ognuno, le sue peculiarità. Ma Marco Bacci è anche amante del mare, navigante e sommozzatore con esperienze in ogni angolo del mondo, e in una occasione, dopo aver lasciato alcune bottiglie di Talamo nella sentina della sua barca, decide di stapparne una accorgendosi della differenza nell’evoluzione del vino. Si chiede, esattamente come noi, cosa farà migliorare la qualità del prodotto e, andando per tentativi, trova la quadra giusta a 35 metri sotto il livello del mare.

L’annata 2018 ritornerà alla luce dopo due anni, insieme alla 2019 che è rimasta tra le creature marine per la metà del tempo. E’ così che da una linea, ne sono state create due. Stesso vino, ma affinamenti completamente diversi. Talamo matura in cantina e Talamo a Mare, appunto, sul fondale marino in una zona che si trova tra il Monte Argentario e l’Isola di Giannutri.

Le nostre valutazioni finali

Diciamo subito che il prodotto è di una qualità straordinaria già prima di scegliere il suo percorso finale in bottiglia. Si percepiscono lievi differenze solo nella tonalità del colore, più scuro e intenso quello da affinamento subacqueo.

Per il resto, nella 2018 non segnaliamo altre particolarità: i vini sembrano quasi identici nelle loro espressioni organolettiche. Forse più verde e tagliente il Talamo a Mare, che denota, in prospettiva, maggior possibilità di resistere al tempo.

Nella 2019 le diversità si acuiscono, con la versione classica declinata su sensazioni boisée e quella proveniente dai fondali marini molto verticale e sanguigna. Annotiamo, infine, che nel calice le sfumature diventano sottili con il passare dei minuti, andandosi a riequilibrare pian piano con la giusta attesa. Sintomo che le basi solide emergono sempre, come i cavalli di razza. Nella verve iniziale probabilmente conta la variazione di maturazione, ma nella lunghezza di bocca dei due prodotti, in entrambe le annate, tutto sembra coincidere. L’unica cosa è il prezzo, triplicato nella versione da affinamento subacqueo, anche per l’esiguo numero di bottiglie.

Ringraziamo il padrone di casa Marco Bacci per essersi sottoposto al vaglio della stampa con la stessa voglia di apprendere e di trovare risposte. Speriamo di confrontarci con lui nuovamente in futuro, magari con i primi dati scientifici disponibili al mondo, per sdoganare finalmente la filosofia degli underwater wines.

Torna a Salerno la Festa della Pizza

Oltre ottantamila presenze e centoquarantamila tranci di pizza sfornati. Questi i numeri con cui è tornata, per spegnere le sue venticinque candeline, la Festa della Pizza a Salerno, dopo una pausa lunga quattordici anni.

Una kermesse organizzata da Associazione Alimenta con Maurizio Falcone e Alfonso Aufiero, in collaborazione con Ivano Santoro di Santoro Creative Hub per il piano marketing e comunicazione, che si è nuovamente proposta come la giusta combinazione di gastronomia e spettacolo.

Piazza Salerno Capitale, sul lungomare del capoluogo campano, si è trasformata in un vero e proprio villaggio del gusto, dove dodici pizzerie storiche hanno lavorato per cinque sere consecutive, dal 12 al 16 luglio, per far conoscere le proprie specialità, mentre sul palcoscenico si sono alternati otto cantanti, sei band e otto scuole di danza, per animare ogni singola serata.

<<Avevamo voglia di tornare! – ha dichiarato Alfonso Aufiero – La location è la migliore: nel centro di Salerno, in un luogo dal clima ideale in giorni di caldo infernale, ventilato e vicino al mare. La missione della festa è sempre stata quella di esaltare la tradizione campana della pizza>>.

In ciascuna delle serate è stato possibile assaggiare, con un ticket a pagamento, quattro tranci di pizza e bere una bibita, scegliendo tra uno o più dei tredici forni a legna presenti.

A partire dalle tradizionali margherita e marinara, proposte dall’Antica Pizzeria Brandi attiva a Napoli dal 1780, alla pizza col pomodoro arruscato della Pizzeria Umberto Falcone, specialità cilentana che su una base bianca prevede l’utilizzo di pomodorini cotti in forno a legna; dalla pizza con impasto gragnanese, diverso da quello napoletano perché più alto e più soffice, della pizzeria Ai Tre Monelli, al classico panuozzo, un vero e proprio panino in pasta di pizza con provola e pancetta, di Luigi o’ Furnar. Presente anche il forno Madison dell’AIC, con le proposte per i celiaci.

E nonostante il caldo, sono state lunghe le file ad ogni forno per mangiare la pizza all’aperto, con tanti numeri d’intrattenimento alternati sul palcoscenico. La conduzione delle cinque serate, come in tutte le edizioni precedenti, è stata affidata a Pippo Pelo, noto conduttore di Radio Kiss Kiss.

Alla domanda su cosa significhi tornare dopo anni a condurre questo evento, Pippo non ci ha pensato due volte: <<Per me la Festa della Pizza è intanto famiglia, è una festa, è lavoro, lavoro nella mia città. Mi sento accolto e amato dai salernitani e non solo, perché questo evento è conosciuto in tutta la regione e anche oltre>>.

Ad affiancarlo sul palcoscenico anche Adriana Petro, sua compagna di “battaglia radiofonica” nella trasmissione di radio Kiss Kiss che tra le 7.00 e le 9.00 dà il buongiorno all’Italia: Pippo Pelo Show.

Il palinsesto della manifestazione ha contato su artisti del calibro di Lele Blade, Napoleone, Neri per Caso, Dadà, Davide De Marinis, Ciccio Merolla, LDA, che hanno intrattenuto il pubblico in attesa della propria pizza o intento a gustare una delle specialità appena sfornate.

<<Gastronomia e spettacolo sono un connubio perfetto>> sottolinea infine Alfonso Aufiero. E in questo caso la gastronomia è quella della grande tradizione della pizza partenopea e campana. Una tradizione che ha il difficile compito di mantenersi attraente in un’epoca in cui l’offerta, sempre più multiforme e multietnica, ha sortito lo stesso effetto delle Sirene su Ulisse. Se dobbiamo dare ascolto ai maestri pizzaioli che hanno partecipato alla Festa, la vera originalità della pizza oggi risiede unicamente nell’eccellente rielaborazione della grande tradizione e nelle materie prime.

L’ELENCO DELLE PIZZERIE PRESENTI ALLA MANIFESTAZIONE

Ai Tre Monelli – Angri (SA)

Pizzeria l’Angelo e il Diavolo – Salerno

Antica Pizzeria Brandi – Napoli

Antica Pizzeria Reginé – Salerno e Firenze

Criscemunno – Salerno

I Due Fratelli – Salerno

I Love Pizza – Baronissi (SA)

Luigi ‘o Furnar – Gragnano (NA)

Madison – Cava de’ Tirreni (SA)

Ma Tu Vulive ‘a Pizza – Napoli

La Pizza di Umberto Falcone – Salerno

Tutù Pizza – Bivio Pratole (SA) Vaco ‘e Pressa – Salerno