Puglia: “Gusto Jazz” enogastronomia e musica per fare grande il territorio di Corato (BA) e delle Murge

La Quinta edizione di Gusto Jazz a Corato è di diritto tra i Grandi Eventi di Puglia.

Come ci è riuscita? Grazie al vincente connubio, ormai rodato, tra musica ed enogastronomia 100% pugliese. Non è mancata la stoccata di Joe Bastianich alla “sacralità del cibo italiano”, ovviamente con la sua inconfondibile, agrodolce ironia.

Otto giorni in cui la parola d’ordine è stata sinergia tra musica e buon cibo, questa la sintesi di Gusto Jazz. Giunta alla quinta edizione, la rassegna quest’anno si è arricchita del Parco del Gusto: due serate di confronto tra eccellenze enogastronomiche murgiane le cui caratteristiche sono, da sempre, artigianalità, estro creativo e grandi certezze a tavola.

La musica, sempre protagonista, ha scandito i passaggi della manifestazione verso il futuro. Con Alberto La Monica, direttore artistico e mentore della rassegna, abbiamo ripercorso i momenti salienti che hanno fatto di Gusto Jazz un evento imperdibile.

Photo credits: Francesco De Marinis

La musica al centro

Partiamo dall’inizio. Un sogno portare il Jazz lontano dalle classiche mete turistiche blasonate marittime. Alberto La Monica ci è riuscito: “l’idea è nata dal nostro desiderio – quello dell’associazione Art Promotion – di organizzare un evento che potesse diventare una punta di diamante nel cartellone culturale coratino. Volevamo realizzare qualcosa che fosse in grado di promuovere a 360 gradi il territorio sulla scia del Corato Jazz Festival che, negli anni, ha lasciato il suo segno. Si tratta di una naturale evoluzione che tiene al centro sempre la musica”.

Quest’anno il Festival è stato improntato alle voci femminili. Ad aprire la rassegna il 20 luglio Niki Nicolai. E poi Serena Brancale, Simona Bencini, Carolina Bubbico, Costanza Alegiani, Francesca Tandoni e Kelly Joyce. Voci internazionali nel panorama musicale soul e jazz. L’outsider di lusso è stato senz’altro Joe Bastianich, che in veste di musicista folk accompagnato dalla band Terza Classe, ha inaugurato il Parco del Gusto il 24 luglio. E chi meglio di lui avrebbe potuto farlo?

L’etica del buon mangiare

Il primo Parco del Gusto della rassegna ha messo insieme le eccellenze coratine e murgiane fatte di panificatori eccellenti come Marco Lattanzi del Panificio Toscano (tre pani Gambero Rosso 2024) fino alle golosità casearie di cui la città ne è ambasciatrice. Non sono mancate birre artigianali e le migliori cantine del circondario, tra cui Azienda Agricola Mazzone e la cooperativa Terra Maiorum che hanno dato voce alla cultura vitivinicola cittadina.

Il Parco del Gusto, secondo La Monica, è la naturale evoluzione di Gusto Jazz: “da quest’anno siamo tornati in centro con il Parco del Gusto, l’obiettivo è creare maggiore coinvolgimento. Una serie di eventi che contribuiscono alla promozione del territorio che è anche sinonimo di eccellenze enogastronomiche. Negli anni scorsi ci sono sempre stati momenti dedicati al tema, però come tutte le cose, si cresce. Il programma di quest’anno è stato ancora più ricco dal punto di vista gustativo”.

Photo credits: Francesco De Marinis

A Corato quando si parla di pasta c’è una voce che unisce tutti: quella della Pastificio Granoro, un’eccellenza a livello internazionale. Un passo ulteriori in avanti con la linea proveniente da grano 100% pugliese biologico. Si chiama Linea Dedicato ed è un modo per rassicurare il consumatore su un prodotto integro e salutare, importante per la dieta, simbolo dell’italianità e della Regione. Con lo chef Antonio Reale, re del padellone pugliese, sono state proposte due ricette, una in omaggio alla famiglia Bastianich dal sapore americano ma non troppo, l’altra ispirata all’orgoglio pugliese con tanto di salsiccia di cavallo e provola.

Quando si parla di carboidrati non si può prescindere dal comfort food per eccellenza, la pizza. Alimento su cui si potrebbe dibattere per ore, a Gusto Jazz è stata raccontata nella sua accezione contemporanea, ben diversa dalla classica espressione napoletana. Si chiama Contemporanea Pugliese e l’Italian Pizza Master Vincenzo Florio è tra i maggiori esponenti in materia. Anche in questo caso uno show cooking alla scoperta dei segreti che hanno reso la contemporanea non solo una combinazione di ingredienti, ma un vero e proprio stato d’animo da stendere a colpi di farina ed esperienza.

Photo credits: Francesco De Marinis

Un ensemble incredibile le due serate, proprio come farebbe un duo jazz. Se fare cibo è come comporre musica, l’abbiamo chiesto a tutti i protagonisti, Joe Bastianich compreso. A questa domanda, in conferenza stampa, ha risposto così “Non si può fare improvvisazione né in musica né col cibo, bisogna saper mettere insieme in modo ragionato ogni ingrediente come ispirazione, melodia, suoni, tecnica ed emozioni. Tutto questo può creare un brano e anche un piatto da mangiare”.

E pur riconoscendo la sacralità della cultura enogastronomica italiana, Bastianich invita tutti a prendersi un po’ meno sul serio, chiedendo, con ironia ovviamente, di derogare anche ad alcuni canoni del buon mangiare “Cappuccino dopo il branzino? Speriamo di no, ma non escludiamolo per chi proprio non può farne a meno. Dategli questo cappuccino e non rompete”. Senza mezzi termini, ma con il sorriso.

Photo credits Francesco De Marinis – al centro Alberto La Monica

Il cibo come musica per la bocca

Il cibo in ogni sua declinazione diventa gusto e diventa piacere, così come la musica. Ci chiediamo se serve una kermesse così grande e strutturata. La risposta è più che affermativa, soprattutto ora in cui il mangiare consapevole è fondamentale, così come ascoltare musica di qualità. Dal prossimo Gusto Jazz, secondo La Monica, dobbiamo aspettarci una coerenza con le passate edizioni, ma non solo: “non mancherà grande attenzione per ciò che il nostro territorio esprime con le sue eccellenze enogastronomiche a 360 gradi”.

Viva il Gusto, viva il Jazz!

Photo credits: Francesco De Marinis

Ferragosto: festeggiamolo con il Valdobbiadene Prosecco Superiore dell’azienda Merotto

Le dolci colline tra Conegliano e Valdobbiadene, avvolte da una luce dorata, sono un incanto per gli occhi e per l’anima. Con l’orizzonte punteggiato dalle vette innevate delle Dolomiti Bellunesi, l’atmosfera è intrisa di un’armonia naturale che avvolge ogni angolo di questa terra.

È qui che nascono le radici enologiche di Graziano Merotto – Azienda Agricola Merotto, protagonista silenzioso ma deciso nella scena del Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG.

L’esperienza inizia con un’accoglienza calorosa da parte della responsabile vendite Sonya Zanolla. Ci addentriamo in un viaggio nella Denominazione tra i comuni di Conegliano e Valdobbiadene, una terra selezionata dall’Unesco per la sua bellezza naturalistica. Questi terreni, composti da marne e conglomerati, sono il cuore dell’areale.

Il Prosecco, nome che evoca convivialità e leggerezza, è il protagonista del racconto: in un mondo in cui la velocità sembra regnare sovrana, il Prosecco si presenta come un sorso di autenticità e tradizione. Sebbene sia spesso paragonato alle bollicine francesi per numero di bottiglie, rappresenta un tesoro italiano apprezzato per la facilità di beva e la versatilità.

Un compagno ideale per le serate con gli amici, che nasconde anche un’anima ricca di sfumature, un’essenza che Graziano ha saputo catturare e interpretare con eleganza. Ringrazio Silvia Baratta, dell’Agenzia Gheusis Srl, per aver organizzato la visita in cantina. Incontri destinati a cambiare le sorti di una vita spesso accadono per caso, e così è stato per Graziano Merotto. Da giovane ragazzo inserito in una famiglia di agricoltori, ha sfidato le convenzioni e creduto nel successo di ciò che allora sembrava audace: produrre uno spumante Metodo Classico in terra di Valdobbiadene.

La cantina è un’affascinante casa storica che si erge con maestosità a mo’ di santuario di tradizione e innovazione. Graziano ha tracciato un sentiero illuminato dalla passione e dalla dedizione, determinato a rendere ogni sorso di Prosecco una sinfonia di gusto unica, con uno sguardo che attraversa i vigneti e si posa sulla cappella dedicata a San Martino.

La degustazione diventa un viaggio attraverso le varie sfumature del Prosecco. La Cuvée del Fondatore, omaggio al cinquantesimo della cantina, è una celebrazione di eleganza e maestria. Un Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG Brut Millesimato 2020 frutto della selezione dei grappoli migliori, un’espressione del territorio che Merotto custodisce gelosamente.

La storia non si ferma qui. L’Integral Brut Millesimo 2022 e il Bareta Brut sono testimonianze della dedizione di Graziano Merotto. Ogni sorso svela un’armonia tra l’uva Glera e la terra, una danza di bollicine che esalta il palato.

E ancora vini sempre più interessanti come Casté, un Crù Extra Dry Millesimato 2022 ottenuto da un piccolo vigneto in cima alla collina dove un tempo sorgeva un Castello. La bottiglia trasparente con la confezione arancione è stata  sostituita da una nuova bottiglia più scura. Poi La Primavera di Barbara, dedicato alla figlia di Graziano e Colbelo Extra Dry. E poi ancora Grani di Nero Rosé Brut vinificato da Pinot Nero.

Il Prosecco ed in articolare quello proveniente da Valdobbiadene, è la quintessenza di un territorio, un’introduzione a una cultura, una poesia scritta con uve. Tuttavia, questa poesia è a rischio di banalizzazione, minacciata da prezzi troppo bassi e standard di qualità calanti. Graziano Merotto ha saputo resistire a questa tendenza, mantenendo saldo l’impegno verso la qualità. Tralasciando la facile corsa al profitto, ha scelto un cammino meno battuto, optando per una produzione di minor quantità ma di qualità superiore. I

Il Prosecco è una melodia che unisce o divide, ma indubbiamente è un simbolo dell’Italia nel mondo. Dai suoi vitigni coltivati tra le colline del Prosecco Superiore di Valdobbiadene D.O.C.G., nasce un’eleganza raffinata e autentica, cultura, essenza e passione che l’azienda Merotto ha trasformato in realtà.

Il Consorzio Tutela Vini Friuli Colli Orientali e Ramandolo festeggia le 50 candeline: momento giusto per un bilancio in vista delle scelte future

A volte per giungere a delle conclusioni positive bisogna guardarsi intorno, sviscerando il passato e il presente a testa alta e senza remore. Lo fa Matteo Bellotto, consulente del Consorzio Tutela Vini Friuli Colli Orientali e Ramandolo, fornendo alla stampa una sequenza di numeri e ricerche davvero impressionanti, di cui ogni attore in gioco dovrà imparare a tenerne conto.

Lo fanno i singoli produttori, consapevoli di ciò che non va, schiacciati a volte da logiche di mercato alle quali non è sempre facile reagire. Ovviamente non tutto è negativo, anzi. Il livello medio dei vini assaggiati durante il tour organizzato dal 12 al 15 luglio è risultato davvero interessante, non solo per le classiche versioni in bianco.

Una maggior autocoscienza di come la qualità debba essere creata partendo, in prima battuta, dalla scelta dei terreni vocati: non si può coltivare varietà così profondamente diverse, per espressioni e carattere, in un medesimo angolo di territorio. Serve, inoltre, maggior prontezza nell’applicare tecniche moderne di cantina, per garantire al meglio la conservazione di aromi e sostanze eleganti, marcatori fondamentali dell’intero areale.

Per il 50° anniversario, festeggiato con 3 anni di ritardo causa pandemia, il Consorzio ha anche elaborato un nuovo logo, il marchio che diventerà l’emblema rappresentativo per i prossimi anni. La spada è il simbolo di Cividale del Friuli – lo spadone del Patriarca Marquardo. La lama entra nel calice e affonda nella storia, come ogni vino sa essere storia, finezza, eleganza del gesto.

I numeri, sempre quelli, parlano della gestione complessiva di 3 DOCG e 5 sottozone, oltre una sesta (Savorgnano) in arrivo a breve. Vitati 28.800 ettari suddivisi per ben 26 varietà tra autoctoni e internazionali. Sono state mappate oltre 5400 vigne, considerando suoli, pendenze, esposizioni, escursioni termiche clima e precipitazioni meteorologiche. Dorsali moreniche, presenza di flysch, roccia sedimentaria clastica tipica di queste valli, argilliti, feldspati e quarziti. Una complessità non indifferente che fa del lembo orientale del Friuli uno dei terreni geologicamente più antichi d’Europa.

E poi l’incontro, finalmente, con i produttori dopo i saluti iniziali del Presidente Paolo Valle, visibilmente emozionato dalla folta presenza di giornalisti e operatori del settore provenienti da molte regioni italiane. Parlare con un viticoltore ha sempre un fascino intrinseco. Ascoltare la storia di ognuno, certamente talora ripetitiva per alcuni aspetti, ma ricca di emozioni e suggestioni che formano il pane quotidiano di chi abbia a cuore la professione del giornalismo enogastronomico.

È il caso del giovane Federico De Luca di Ronc dai Luchis e del suo racconto sul Refosco di Faedis: varietà dalle connotazioni diverse dal Peduncolo Rosso, dal Refosk e dal Terrano. Materiale genetico recuperato da vecchi impianti, anche per quanto concerne il Refoscone (o Berzamino), anch’esso appartenente alla nutrita famiglia dei refoschi e quasi scomparso. Tante le similitudini di questi vitigni con altri come la Croatina e la Bonarda, in particolare per quanto concerne il carattere speziato, sottile fil rouge alla base di ogni assaggio.

O come Germano Zorzettig, cognome popolare da queste parti, della cantina La Sclusa, con l’etichetta Friulano 12 viti frutto della ricerca e sperimentazione su ben 12 cloni di Friulano, le cui uve vengono vinificate separatamente per realizzare poi il giusto blend in funzione dell’annata.

O Bruna Passetti, titolare, assieme al marito, dell’azienda Flaibani che ha presentato la sua idea di Pinot Grigio Ramato semplicemente da urlo.

E perché no, l’edizione limitata 2014 di Friulano “L’Evoluto”, nomen omen, scelto da Paolo Rodaro e dalla vulcanica moglie Lara titolari della cantina Rodaro, dopo un lunghissimo (e altamente sensato) riposo tra legno e bottiglia per il vitigno principe del Friuli Venezia Giulia.

Le sorprese non finiscono qui, grazie al Merlot 2018 appetitoso e lunghissimo di Marina Danieli, già pienamente convincente nella proposta del Pinot Grigio targato 2020, elegante e dalla classe cristallina.

E del Sauvignon Blanc 2022 di Bastianich, dobbiamo ammetterlo, in grande spolvero, dimentico stavolta di soddisfare solo il gusto di quanto chiede mercato, al quale va comunque prestata massima attenzione per evitare di avere vini ottimi ma invenduti… Il compromesso si può e si deve fare.

Che dire, invece, della piccola realtà Valchiarò, nata nel ’91 per diletto come attività del dopolavoro da 5 amici torreanesi – Armando, Lauro, Emilio, Galliano e Giampaolo – e divenuta adesso una solida realtà. Ottimo il Friulano da 5 particelle, ma sorprendente e accattivante nel prezzo il Cabernet Sauvignon 2021 in purezza, da vigna singola.

Chiudiamo con un altro autoctono di lusso, davvero difficile da produrre per via di componenti tanniche irsute e mai dome, con acidità pronunciate: il Pignolo. Tralci di Vita lo propone nella spettacolare versione 2018, appagante e dal succo di mirtillo maturo.

La nostra visita termina a Cividale del Friuli, per un momento goliardico e rilassante affacciati sul Ponte del Diavolo. Fondata da Giulio Cesare con il nome di Forum Iulii, da cui viene il nome Friuli, nel 568 d.C. Cividale divenne sede del primo ducato longobardo in Italia e in seguito, per alcuni secoli, residenza dei Patriarchi di Aquileia. Questo patrimonio storico e artistico è stato riconosciuto dall’UNESCO.

ll Ponte del Diavolo è uno dei simboli, sospeso sul fiume Natisone e avvolto nella leggenda. Le due sponde erano unite, almeno dal Duecento, da un passaggio in legno, sostituito dopo diversi tentativi inconcludenti dal manufatto in pietra progettato da lacopo Dugaro da Bissone, che ne iniziò la costruzione l’anno 1442. I lavori, lenti e contrastati da avversità di varia natura, proseguirono cinque anni dopo sotto la guida di Erardo (o Everardo) da Villaco, già collaboratore del Dugaro, che forse era morto di peste o, secondo altre versioni, si era defilato senza onorare interamente i suoi obblighi contrattuali.

Deceduto il capomastro Erardo, era Bartolomeo delle Cisterne a ultimare l’agognato ponte, che in base ad un atto notarile sappiamo essere stato lastricato nel 1501 ed ancora nel 1558. Le sue estremità erano difese da torri, abbattute verso la seconda metà del secolo scorso. Lavori di restauro si sono succeduti nel tempo per mantenere in piena efficienza l’indispensabile passaggio, che doveva sopportare le piene impetuose del fiume.

Cividale del Friuli, città di frontiera, una volta estremo confine della Nato che separava l’Italia ed il blocco Occidentale da quello Orientale del Patto di Varsavia. La presenza dei militari cristallizzava ogni tentativo di libera impresa, soggetta all’inevitabile burocrazia attivata, a più livelli, a difesa dei confini nazionali. Anche di questo bisogna tener conto, nel bilancio complessivo di ciò che hanno vissuto i produttori locali, in vista di un futuro luminoso ambito e in qualche modo meritato.

Una vera pacificazione, forse, ancora manca.

Romagna: l’alluvione ha unito AIS e Slow Food in una cena solidale di beneficenza per la raccolta fondi

L’alluvione è finita ma la solidarietà no: è questo il motto scelto per la cena solidale nata dalla collaborazione di Slow Food condotta di Forlì e AIS Delegazione Forlì, svoltasi giovedì 3 agosto presso l’azienda agricola Calonga.

Sono passati più di due mesi dalla tremenda catastrofe che ha colpito la Romagna, lasciandola immersa nel fango per parecchie settimane. Grazie all’impegno di tutti, le città Romagnole sono velocemente ritornate alla normalità; una normalità agognata che ha però la colpa di farci dimenticare in fretta quanto accaduto.

Un menù a più mani, composto da piatti preparati con materie prime di qualità provenienti da alcune delle aziende del territorio direttamente coinvolte dalle recenti frane (azienda agricola I Mät ad Sgùn, azienda agricola Giorgini, azienda agricola Tirli, Podere le Campore), sapientemente abbinati dai sommeliers di AIS Romagna coi vini dell’azienda agricola ospite, Calonga, di Maurizio Baravelli.

da sinistra Matteo, Francesco e Maurizio Baravelli dell’azienda agricola Calonga

20Italie era lì per voi per raccontarvi da vicino come “l’unione fa da sempre la forza”.

I commensali vengono accolti con un aperitivo in piedi, un pane “speziato” saltato in padella con timo rosmarino e aglio, qualche pomodorino fresco di Calonga (non sono solo vignaioli…) e il loro Baldàn, un metodo classico brut con quasi 5 anni sui lieviti, sapientemente assemblato unendo sangiovese vinificato in bianco e bombino bianco (localmente conosciuto come pagadebit) in parti eguali.

La ricca tavolata inizia a colorarsi di cibo appena viene servito l’antipasto, il tonno di coniglio, un lessato di coniglio con erbe aromatiche, condito con olio evo e spezie. La prima portata è composta da bucatini al ragù bianco con scalogno romagnolo (pasta rigorosamente home made di farina di semola rimacinata e trafilata al bronzo). Entrambe le pietanze accompagnate da L’Azzurro, un freschissimo Romagna DOC Pagadebit.

Arriviamo al pezzo forte, il “coniglio saporito”, un piatto che vinse il Premio Marietta 1997, riconoscimento istituito in nome della fedele cuoca governante di Pellegrino Artusi. A questo piatto vincente, viene abbinato il Bruno, simpaticissimo ed estivo Romagna DOC Sangiovese dal colore rosso tenue, e dalla quasi assenza di tannino.

Si chiude la cena con le tradizionalissime ciambella e crostata Romagnole, e l’altrettanto tradizionale Albana Dolce.

da sinistra Caterina Valbonesi Delegato AIS Forlì e Antonella Altini fiduciaria Slow Food Condotta di Forlì

Durante la serata le due Organizzazioni enogastronomiche si sono inventate una lotteria con premi in bottiglie di vino del territorio, cortesemente donate dal Consorzio Vini di Romagna.

Ed ha funzionato: sono stati ben 1.120 euro i fondi raccolti consegnati nelle mani della Parrocchia di Don Felice in modo da essere devoluti alle famiglie più in difficoltà.

Il commiato è avvenuto non prima di aver degustato anche tutti gli altri vini di Calonga, in particolare, Zenaide, Chardonnay che fermenta in barriques; e poi “7” Romagna DOC Sangiovese Superiore Riserva prodotto solo in particolari annate (quella in degustazione era una sorprendente 2017, anno dove pochi sono riusciti a far bene) e due Vermouth, BV Bianco e BV, nati dalla collaborazione col noto profumiere Baldo Baldinini.

Montefalco Green: esperienza “sostenibile” alla scoperta del territorio del Sagrantino

Il 14 e 15 giugno il Consorzio Tutela Vini Montefalco ha organizzato un press tour con l’intento di promuovere una declinazione ecologica del turismo in cantina e di valorizzare la produzione vinicola di una terra unica, “verde” per definizione.

Recentemente Il Consorzio, aderendo a Wine in Moderation, il principale programma di responsabilità sociale del settore, ha confermato l’impegno a praticare la sostenibilità, in modo etico e coerente. i territori di produzione delle Denominazioni di Origine Spoleto, Montefalco e Montefalco Sagrantino si contraddistinguono, infatti,  per l’attenzione a ridurre sempre di più l’impatto ambientale.

Montefalco Green ha voluto proporre un modo sostenibile per approcciarsi al mondo del vino, alla scoperta di vini, delle cantine e delle denominazioni, attuando una conversione ecologica del modo di concepire l’enoturismo: i giornalisti e bloggers intervenuti hanno potuto sperimentare bici e auto elettriche, le “Sagreentino”, per spostarsi lungo le strade del comprensorio di Montefalco, in visita alle cantine aderenti al progetto. Questi mezzi  propongono una mobilità lenta, nel rispetto appunto del territorio, che viene solo “sfiorato”: a questo proposito il Consorzio Tutela Vini di Montefalco ha stipulato un accordo con Enel X e sono stati già stati attivati 12 punti di ricarica in 6 cantine, in attesa di raggiungere quota 15 infrastrutture in altrettante aziende.

 

Il punto cardine del Consorzio è quello di proporre strategie innovative sempre nel rispetto della sostenibilità ambientale. Da tempo è già operativo il progetto Grape Assistance, un nuovo modello di assistenza tecnica per la gestione sostenibile del vigneto, applicato dal 2017 in tutta la regione Umbria.

Inoltre, molte aziende hanno aderito al New Green Revolution con lo scopo di installare impianti fotovoltaici e caldaie a biomassa per la riduzione del gas serra e ad Agroforestry , ovvero l’allevamento di avicoli e le lavorazioni con i cavalli nei vigneti.

La quota di aziende che praticano agricoltura biologica certificata o sono in conversione è salito al 31%; un dato che è sicuramente in aumento, che candida i territori di Montefalco e Spoleto a essere una delle aree vinicole più “green” dell’Italia.

L’evento è stato organizzato in modo impeccabile, nonostante la variabile del meteo che non ha certo assistito i partecipanti.

Il percorso con la green car ha toccato per prima l’azienda Romanelli, dove Devis ha raccontato la storia della famiglia, iniziata nel 1978, quando suo nonno e suo padre decisero di creare l’azienda agricola sul Colle di San Clemente a Montefalco. La biodiversità è rispettata nella scelta di dedicare 8 ettari alla vigne e 12 all’olivocoltura dei circa trenta posseduti, tutti condotti in regime biologico.

Durante la degustazione, accompagnata da quella dell’olio prodotto dagli stessi Romanelli (da ben quattro varietà quali leccino, frantoio, san Felice e moraiolo), abbiamo assaggiato Le Tese, da uve Trebbiano Spoletino provenienti da un vecchio vigneto, che ha ancora le viti maritate agli alberi. Poi il Terra Cupa Montefalco Sagrantino lasciato maturare a lungo in botti di rovere di diverse grandezza, ottenuto dalla parte più argillosa e calcarea del vigneto del Colle ove sorge la cantina e infine Medeo Montefalco Sagrantino prodotto solo nelle annate eccezionali, dedicato ad Amedeo Romanelli, che fu il primo a imbottigliare il vino di famiglia.

La seconda realtà del comprensorio visitata è stata Agricola Mevante, cantina di recente costruzione con una elegante e luminosa sala degustazione: Paolo e Antonella Presciutti hanno fatto diventare la loro passione un lavoro e la produzione si attesta per ora sulle 60.000 bottiglie. Abbiamo assaggiato Birbanteo sur lie da Trebbiano Spoletino e un rosato ottenuto da uve Sagrantino coltivato in vigneti nel comune di Bevagna impiantati da circa vent’anni.

Tra un temporale e l’altro siamo arrivati all’ora di pranzo alla cantina La Fonte: una realtà nata a Bevagna all’inizio del ‘900 grazie al bisnonno Angelo e che col passare del tempo è stata divisa tra i figli. Negli anni novanta del secolo scorso, Guido, da sempre appassionato di agricoltura decise insieme alla moglie Patrizia, di avviare lì attività producendo olio e vino. Il nome “la fonte” deriva dalla sorgente naturale ancora visibile, nascosta nel bosco a pochi passi dell’agriturismo.

L’incontro con Bevanato, macerato sulle bucce per una decina di giorni, è stato spettacolare: un tripudio di frutta matura a polpa gialla e tropicale, freschezza e chiusura sapida, grande bevibilità e piacevolezza. Amorosa è  il rosè ottenuto da Sangiovese raccolto anticipatamente e Cabernet Sauvignon. Profumato, fragrante, succoso. Si è proseguito con l’assaggio del Montefalco Rosso e del Montefalco Sagrantino, entrambi di notevole qualità.

Nel pomeriggio, riprese le Sagreentino Car il gruppo si è diretto alla Fattoria Colsanto, di proprietà della famiglia Livon del Friuli Venezia Giulia e che nel 2001 ha voluto investire in questo bellissimo territorio, ristrutturando un casale del ‘700 e acquisendo circa 20 ettari impiantati tra Sagrantino, Sangiovese, Montepulciano e Merlot.

Un viale costeggiato da cipressi conduce all’ingresso della struttura, che comprende anche un agriturismo: dopo la visita in cantina, l’enologo ha illustrato i vini in degustazione, focalizzando il nostro interesse sul Cantalupo proposto in diverse annate: un vino ispirato al bianco pluripremiato dell’azienda madre, ottenuto da Trebbiano Spoletino coltivato nel territorio di Bevagna e affinato in legno. Abbiamo poi assaggiato un ricco tagliere con salumi e formaggi prodotti localmente e finito un’esperienza molto interessante  con il servizio del Montefalco Sagrantino.

Ultima realtà raggiunta dal tour è stata Briziarelli: i lavori per la costruzione della cantina, vero gioiello architettonico, sono iniziati nel 2012 e la struttura domina i 50 ettari posseduti, di cui 22 vitati. Qui vengono coltivate le varietà autoctone ed è stato scelto uno stile di vinificazione tradizionale.

In degustazione Sua Signoria, un Trebbiano Spoletino che dopo la fermentazione matura in legno e Anthaia, il rosato ottenuto dalle uve a bacca nera coltivate in azienda. Abbiamo proseguito sui rossi con Rosso Mattone Montefalco Rosso Riserva e, infine, il Montefalco Sagrantino, intenso, potente e strutturato.

La giornata si è conclusa con la cena di gala ospiti, della cantina del presidente del Consorzio Tutela Vini Montefalco Giampaolo Tabarrini, al quale sono intervenuti i produttori tra cui Filippo Antonelli di Antonelli San Marco, Paolo Romaggioli enologo di Terre De la Custodia  e Liù Pambuffetti di Scacciadiavoli, dove gli ospiti hanno potuto proseguire al tavolo gli assaggi, serviti dai sommelier AIS, dei vini di questo luogo magico, dove tutto riesce a emozionare e a lasciare ricordi indelebili nella memoria.

Un ringraziamento, infine, a MG Logos per l’invito e la splendida opportunità di conoscere Montefalco e le sue produzioni.

Garda Doc: i numeri vincenti del vino dal Lago più grande d’Italia

Il Lago di Garda, già destinazione turistica nota in tutto il mondo, vuole spiccare il volo come Garda Doc.

Tirando le prime somme, ciò che colpisce sono i grandi numeri da spendere sul mercato e un suolo unico da raccontare, anche attraverso la neonata carta dei suoli. Insomma, il calice di Garda Doc si proietta verso una scelta d’appeal per il consumatore non più solo vacanziera.

Una strada in salita

Partita come Denominazione orientata all’immediato consumo, con gli anni ha saputo rendere sempre meglio l’idea di un territorio così particolare, dai connotati mediterranei. I confini si circoscrivono alle sponde lombarde e venete – le più produttive dal punto di vista commerciale e gustativo – e si fa forza sul distretto turistico del Lago di Garda.

Dagli anni Novanta qualcosa in avanti si è mosso, precisamente nel 1996 quando il percorso verso il Consorzio volontario ha avuto il suo inizio. Promuovere al meglio i varietali della Riviera Bresciana, Alto Mantovano e Veronese, è stato infine l’obiettivo concretizzato nel 2016. In quest’anno di svolta sono state fatte importanti scelte di mercato in grado di raccogliere il favore dei consumatori esteri, ma soprattutto quello degli italiani. Per farlo le bollicine sono venute in soccorso: Una scelta premiante quella di inserire in disciplinare la tipologia Spumante Bianco.

Sull’onda di questo successo sono stati molti i produttori che hanno scelto la via dell’unione, arrivando, vendemmia dopo vendemmia, a toccare la cifra annua di circa 20 milioni di bottiglie, quasi la massima produttiva.

Un po’ di numeri

Garda Doc esprime numeri importanti che fanno la differenza: oltre 153.000 hl di vino imbottigliati nel 2022, di cui un terzo da Chardonnay. A seguire il Pinot Grigio e la Garganega con 30.000 ettolitri. Una denominazione a trazione bianchista, ove non mancano i rossi da Cabernet Sauvignon e Merlot. La sfumatura giusta da dare al territorio, senza dimenticare l’autoctono principe che si esprime con il Marzemino. Una varietà da cavalcare in fase di riscoperta delle proprie radici enologiche.

Tra i complici di questi enormi numeri c’è certamente il turismo lacustre che assorbe le maggiori quantità di vino prodotto, soprattutto quando si parla di vini da consumare per un aperitivo o una cena. Ma come comunicarlo al meglio? Partendo dal terroir e andando ancora più a fondo, arrivando fino ai suoli.

Chiamatela “pedodiversità”

Dai grandi nomi ai più piccoli che si fanno forza sul brand Garda Doc, il bisogno di far conoscere il vino gardesano si è fatto maggiormente pressante, non soltanto per le esigenze di vendita. Per questo tra le attività di ricerca che il Consorzio Garda Doc mette in campo, c’è quello di spiegare, una volta per tutte, le potenzialità vitivinicole del lago partendo da milioni di anni or sono. La carta dei suoli è arrivata al culmine di un lavoro di rebranding. A occuparsene è stato Giuseppe Benciolini, con il suo brand Terroir2wine. La presentazione è avvenuta l’8 giugno presso l’Auditorium del Vittoriale a Gardone Riviera (BS).

Durante l’occasione, è stato coniato il termine “Pedodiversità” che offire l’essenza stessa del territorio “Ho coniato un nuovo termine per esprimere al meglio ciò che costituisce l’aspetto più caratterizzante della denominazione Garda DOC e la sua sorprendente varietà di suoli – afferma Benciolini – La pedodiversità appunto. Questo territorio, infatti, racchiude al suo interno diversi tipi di suolo che sono a loro volta derivati dalla grande varietà di processi geologici e di modellamento geomorfologico che hanno interessato il continente negli ultimi 200 milioni di anni.

Il Presidente del Consorzio Garda Doc Paolo Fiorini saluta con favore il documento frutto di studi e ricerche che il Consorzio promuove, affinché si generi maggiore attenzione sull’areale. “Questo lavoro, frutto di diversi studi promossi dal Consorzio, non solo testimonia il continuo impegno e attenzione del Consorzio Garda DOC nel campo scientifico, ma incarna anche i valori e lo spirito di innovazione da noi utilizzati per realizzare un documentario dal taglio prettamente divulgativo”.

Un’opera scientifica resa fruibile con un video nell’ottica dell’enoturismo maggiormente consapevole, al passo con il consumatore diretto verso l’enogastronomia di qualità e che, a ragion veduta, muove quasi il 60% dei viaggiatori italiani a caccia del Made in Italy e di un proprio stile di vita. Una tendenza da cavalcare in maniera consapevole.

Garda Doc consente di arrivare in mercati che i singoli produttori aderenti non avrebbero mai potuto conoscere. Una visione comune, commerciale e strutturata, in grado di rendere giustizia a un territorio che conta 31.000 ettari vitati.

I progetti della denominazione

Parallelamente alla tutela e promozione dei vini, il Consorzio si impegna perché possa di fatto rappresentare un supporto verso gli utilizzatori della Denominazione in ottica di controllo e costante ricerca, volto a un miglioramento complessivo. Un viaggio alla riscoperta di sé stessi, delle proprie origini, che hanno reso il vino competitivo e ben apprezzato all’estero, con volumi di vendite pari al 70%. Germania in prima battuta, poi Regno Unito e Svizzera. Una cifra scindibile in due categorie, vini da Grande Distribuzione e da canali Ho.Re.Ca. I primi comprendono essenzialmente bianchi d’annata, mentre i rossi con Cabernet Sauvignon e Merlot, raccolgono apprezzamenti nel settore ristorazione e hotellerie, perché competitivi con quelli dei “cugini stranieri” per qualità organolettiche e fascia prezzo.

Continueremo a lavorare, è far capire il ventaglio di opportunità che questa DOC può offrire, muovendoci parallelamente e mai in contrasto con le denominazioni storiche del territorio – A dirlo è Carlo Alberto Panont – Direttore del Consorzio Garda Doc – La denominazione mira a mettere tutti gli utilizzatori in condizioni di sfruttare al massimo quello che questo areale può dare”.

L’affinamento subacqueo dei vini: solo una “bolla” di profondità o c’è del vero? Ne parliamo con Marco Bacci ed il suo Talamo a Mare

Non ci nascondiamo mai e non lo faremo neanche stavolta parlando di un argomento alquanto delicato degli ultimi tempi: l’affinamento subacqueo dei vini.

Lo facciamo con un imprenditore dalla visione a dir poco lungimirante, Marco Bacci, le cui prodezze in campo vitivinicolo (dopo quelle dell’alta moda), hanno raggiunto vertici assoluti di eccellenza e qualità. Di lui, e del sogno nato in una delle cantine del Gruppo, quella di Terre di Talamo, ce ne ha già parlato la collega Augusta Boes nell’articolo Toscana: “Talamo a Mare” il bordolese di profondità.

Ciò che invece cercheremo di affrontare quest’oggi con il Direttore di 20Italie Luca Matarazzo e l’autore Alberto Chiarenza, è il tema scottante dello sdoganamento di una pratica divenuta ormai materia d’uso comune.

La sosta del vino in bottiglia, a profondità e condizioni determinate, può influire realmente sulla sua maturazione o resta confinata nei canoni di una semplice pratica commerciale?

Bene o male purché se ne parli dicevano ai tempi della Prima Repubblica; non vogliamo limitarci a un ostracismo incondizionato, ma anzi cercare di aprire gli occhi su un movimento in crescita e in totale fermento (mai termine fu più azzeccato).

Si attendono i risultati imminenti del lavoro pionieristico compiuto da una giovane start-up siciliana, grazie all’appoggio incondizionato dei brand Benanti e Passopisciaro, con il progetto Orygini in collaborazione con l’Università di Catania. Un controllo meticoloso e costante suddiviso in 14 parametri effettuato per durate variabili dai 6 ai 24 mesi su un campione di bottiglie immerse a 48 metri di profondità nei pressi dell’Area Marina Protetta Isole dei Ciclopi, tra Aci Trezza e Aci Castello. Per intanto dobbiamo accontentarci di uno studio già pubblicato dalla società Lyfe Cicle engineering sull’importante riduzione di CO2 (per 1000 bottiglie circa 680 kg) e sul risparmio di risorse energetiche e logistiche.

Al resto manca una nostra valutazione empirica per comprendere le effettive potenzialità, contando sulla correttezza e buona fede degli attori in gioco, elemento essenziale per scrivere un articolo. Lo faremo nel confronto di due annate, la 2018 e 2019, degustate in parallelo tra affinamento classico e affinamento marino.

Il vino di punta di Terre di Talamo, è un blend di quattro vitigni in pari percentuale di Merlot, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon e Syrah. Il desiderio era quello di realizzare un Supertuscan, riuscito davvero bene. I quattro vitigni risultano integrati e si percepiscono, di ognuno, le sue peculiarità. Ma Marco Bacci è anche amante del mare, navigante e sommozzatore con esperienze in ogni angolo del mondo, e in una occasione, dopo aver lasciato alcune bottiglie di Talamo nella sentina della sua barca, decide di stapparne una accorgendosi della differenza nell’evoluzione del vino. Si chiede, esattamente come noi, cosa farà migliorare la qualità del prodotto e, andando per tentativi, trova la quadra giusta a 35 metri sotto il livello del mare.

L’annata 2018 ritornerà alla luce dopo due anni, insieme alla 2019 che è rimasta tra le creature marine per la metà del tempo. E’ così che da una linea, ne sono state create due. Stesso vino, ma affinamenti completamente diversi. Talamo matura in cantina e Talamo a Mare, appunto, sul fondale marino in una zona che si trova tra il Monte Argentario e l’Isola di Giannutri.

Le nostre valutazioni finali

Diciamo subito che il prodotto è di una qualità straordinaria già prima di scegliere il suo percorso finale in bottiglia. Si percepiscono lievi differenze solo nella tonalità del colore, più scuro e intenso quello da affinamento subacqueo.

Per il resto, nella 2018 non segnaliamo altre particolarità: i vini sembrano quasi identici nelle loro espressioni organolettiche. Forse più verde e tagliente il Talamo a Mare, che denota, in prospettiva, maggior possibilità di resistere al tempo.

Nella 2019 le diversità si acuiscono, con la versione classica declinata su sensazioni boisée e quella proveniente dai fondali marini molto verticale e sanguigna. Annotiamo, infine, che nel calice le sfumature diventano sottili con il passare dei minuti, andandosi a riequilibrare pian piano con la giusta attesa. Sintomo che le basi solide emergono sempre, come i cavalli di razza. Nella verve iniziale probabilmente conta la variazione di maturazione, ma nella lunghezza di bocca dei due prodotti, in entrambe le annate, tutto sembra coincidere. L’unica cosa è il prezzo, triplicato nella versione da affinamento subacqueo, anche per l’esiguo numero di bottiglie.

Ringraziamo il padrone di casa Marco Bacci per essersi sottoposto al vaglio della stampa con la stessa voglia di apprendere e di trovare risposte. Speriamo di confrontarci con lui nuovamente in futuro, magari con i primi dati scientifici disponibili al mondo, per sdoganare finalmente la filosofia degli underwater wines.

I volti del Verdicchio dei Castelli di Jesi come non li avete mai visti: piccolo compendio per visitare le splendide Marche

Volevamo stupirvi con effetti speciali dicevano in uno spot anni ’80. Perché invece non parlare concretamente della qualità media elevata del Verdicchio dei Castelli di Jesi riscontrata durante il press tour “I Magnifici 16” organizzato dall’Istituto Marchigiano Tutela Vini (in sigla IMT). Il Presidente Michele Bernetti ed il Direttore Alberto Mazzoni hanno cercato di spiegare a parole il lavoro svolto negli anni di ripresa delle Denominazioni regionali da alcuni momenti bui.

Ma per quanto concerne il Verdicchio dei Castelli di Jesi i veri effetti speciali li abbiamo vissuti nel conoscere di persona i volti e i prodotti delle persone che si sporcano le mani quotidianamente in vigna, recuperando quell’antico sapere che è l’arte di far vino e farlo buono. Dal 2024 anche la tipologia “Superiore” rientrerà nella DOCG assieme alla già presente Riserva, con facoltà di utilizzare o meno il nome Verdicchio in etichetta.

Scelte commerciali che probabilmente non influenzeranno lo stile attuale, se non nell’ottica di una maggiore considerazione delle sottozone produttive. Bisogna avere pazienza in ogni progresso teso a nobilitare un territorio e i suoi vitivinicoltori. E adesso fiato alle trombe! Lo spettacolo sta per cominciare.

Quattro i fiumi che delimitano l’areale lungo i punti cardinali: Musone, Cesano, Misa ed Esino, con suoli variabili per altimetrie e componenti. Dai ciottoli fluviali si passa a sabbie marine, calcare e argille nei versanti collinari, sferzati dai venti freddi dell’Adriatico che influiscono sul carattere aromatico e sul nerbo minerale dei vini.

Direttamente da Cingoli (MC) ecco la Tenuta di Tavignano con a capo Ondine de la Feld Aymerich, entrata nel 2014 in azienda affiancando i fondatori Stefano Aymerich di Laconi e Beatrice Lucangeli. Il Verdicchio Classico Superiore 2021 “Misco” è austero, ricco di agrumi e spezie pepate su finale iodato. Da vigne di oltre 30 anni nella valle del Musone. Solo acciaio per 18 mesi. Cura oggi la parte enologica Pierluigi Lorenzetti.

Tenute Priori e Galdelli presenta un Metodo Classico Millesimo 2017 sboccatura febbraio 2023 da urlo, grazie all’estrema duttilità del varietale e alla spiccata acidità che consentono bellissime espressioni anche nel campo delle bollicine. Rosora (AN) siede su un antico deposito pliocenico di sabbie e conchiglie fossili. Verticale, dal corredo infinito di fiori bianchi, lascia la bocca in assetto verso un nuovo assaggio o verso la gastronomia tipica tra salumi e pesce. Enologo Sergio Paolucci.

Finocchi Viticoltori, giunti alla quarta generazione con Marco Finocchi, viene assistita da un enologo che ha cambiato per sempre l’identità del Verdicchio proiettandolo tra i migliori bianchi al mondo: Giancarlo Soverchia. Siamo a Staffolo (AN) a 500 metri d’altitudine con il Castelli di Jesi Verdicchio Riserva Classico Fiore 2015: la volontà di spingere il vitigno su vette inesplorate, facendo fermentare il uve in barrique più una maturazione di ben 18 mesi. Ammicca ai vin jaune francesi con un buon mix tra freschezze e sensazioni di frutta secca e tostature.

Azienda Mancini di Emanuela Mancini, con vigne a Maiolati Spontini (AN), realizza il Castelli di Jesi Verdicchio Riserva Classico 2019 da piante di oltre 40 anni. Ci mette un po’ a reagire nel calice, ma alla fine sprigiona energia pura in stile marchigiano tra mielosità, nuance succose di susine appena colte e zagare. Elegante dall’inizio alla fine. Anche qui Sergio Paolucci conduce il lavoro di cantina.

Fattoria Nannì si trova invece nella zona più a Sud della denominazione, precisamente ad Apiro (MC). Clima molto simile alla confinante Matelica, con il Monte San Vicino a mitigare le influenze calde estive. Piante di età compresa tra i 50 e i 60 anni di vita e una cantina nata nel 2015 dal proprietario enologo Roberto Cantori. Interessante il Castelli di Jesi Verdicchio Riserva Classico 2021 “Origini”, nella ostentazione di sfumature da vendemmia tardiva, come mandorla amara e macchia mediterranea.

Che dire di Fattoria Coroncino, premiatissima dalle guide di settore, qui rapresentata da Valerio Canistrari dopo la prematura scomparsa del padre Lucio avvenuta nel 2021. Gli appezzamenti sono ubicati a Staffolo e Cupramontana su terreni calcarei e marnosi. Il Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore 2021 è semplicemente commovente, tra note di cipria, caramello, affumicature e agrumi canditi. Assemblaggio di varie parcelle dopo 9 mesi dalla raccolta e vinificazione. Selezione massale con cloni registrati, un’autentica rarità.

Cantina Luca Cimarelli: a parlarcene è il nipote Tommaso Aquilanti, descrivendo l’accorpamento di 2 appezzamenti tra Contrada San Francesco e Contrada Corte a Staffolo (AN). Colpisce il Castelli di Jesi Verdicchio Riserva Classico 2019 “Selezione Cimarelli”, da uve scelte su viti di 50 anni. Tanta sostanza e delicatezza, con riverberi di pesca matura, arancia gialla e glicine. Solo cemento e vetro.

Colognola – Tenuta Musone ha certificato i suoi 33 ettari vitati con il marchio BIO dal 2014. Gabriele Villani funge sia da enologo che Direttore, curando i terreni esposti a Nord sul versante più alto di Cingoli (MC). Rese bassissime per il Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore 2020 “Ghiffa”, ben 18 mesi di sosta sulle fecce fini e batonnage per un vino austero, che gioca a nascondino prima di esprimersi con carattere in tutto il meglio del varietale. Il nome deriva da un single vineyard a San Michele della Ghiffa.

Andrea Felici parte da zero, nel 2005, con la sua attività a conduzione familiare, grazie anche all’aiuto del figlio Leopardo (per tutti Leo) di rientro da esperienze internazionali avute grazie ai migliori chef e manager del globo. Il loro Cru Castelli di Jesi Verdicchio Riserva Classico 2017 “Cantico della Figura” conserva dinamismo ed eleganza, al netto di una verve muscolare che rimanda all’annata di provenienza e che lo rende panciuto al centro bocca. Evolve su note idrocarburiche stimolanti e appetitose.

Cantina Spallacci è posta al limitare di Corinaldo (AN) a 200 metri sul livello del mare con terreni di medio impasto. Giordano Spallacci è il titolare, coadiuvato nelle scelte enologiche da Aroldo Bellelli. Nuova cantina dal 2011. Buono il Verdicchio dei Castelli di Jesi 2021 “Il Villano”: vibrante e caloroso, mantiene il passo su sensazioni di frutta secca e miele d’acacia.

La Staffa ha compiuto 30 anni da poco e la cura dell’enologo Umberto Trombelli è sinonimo di qualità. Siamo di nuovo a Staffolo (AN), su crinali a elevate altitudini e ottime esposizioni. Il Castelli di Jesi Verdicchio Riserva Classico 2020 “Rincrocca” ammalia per delicatezza, dimostrando al contempo una vena acida piuttosto irsuta che lo pone in lunga prospettiva. Fermenta e matura in cemento per 12 mesi, oltre 2 anni di sosta in bottiglia. Sbuffi di mela verde, miele di corbezzolo ed erbe officinali con una persistenza salmastro in splendida forma.

Simonetti: i sorridenti Massimo e Mirco ereditano dal nonno l’azienda nata a metà del secolo scorso. Il Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore 2021 nasce da un cru che regala forti componenti minerali, grazie anche a una resa davvero irrisoria di appena 50 quintali d’uva per ettaro. Teso come un vento di tramontana che sferza portando con sé ricordi di salsedine.

Cantina Suasa di Giorgio Secondini è una piccola realtà di 4 ettari a Castelleone di Suasa, che guarda dritto alle acque del Mar Adriatico a pochi chilometri. Dominano argille e sabbie per vini di corpo, dall’allungo fruttato. Il Verdicchio dei Castelli di Jesi 2021 “Princeps” emerge con lentezza, la stessa che gli antichi romani chiamavano festina lente, ovvero un’alternanza tra passo piano e subito che conduce comunque al traguardo, fatto di mandorla secca, bouquet di fiori bianchi e crema pasticcera.

Il mio personalissimo premio al merito lo ottiene lui, Giovanni Donninelli con la cantina Terre di Confine. Quasi 3 gli ettari in produzione su suoli argillosi a Castelpliano (AN). Rapporto qualità prezzo infinitamente bello, ciò che rende questo mondo sorprendente e amaro in parti uguali, quando noti dei divari non giustificati dal reale valore del vino. Giovanni produce un Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico 2021 per circa 1200 bottiglie vendute in azienda a 5 euro. Vigne vecchie che regalano quel corredo zuccherino, associato ad effluvi officinali e una mineralità appagante. Averne! Speriamo nel prosieguo futuro da parte del suo erede di questa perla tutta marchigiana.

Vignamato di Francesco e Maurizio Ceci trae le proprie origini da nonno amato, uno dei 13 fratelli della numerosissima famiglia. Gli ettari vitati arrivano fino a Monte Follonica, uno dei luoghi maggiormente vocati (e belli) della denominazione d’origine. Il Castelli di Jesi Verdicchio Riserva Classico 2018 “Ambrosia” è superbo. Nasce da un cru piantato nel 1975. Le sensazioni divagano su fiori appassiti, scorze di cedro e iodio marino. Sollo cemento.

Chiudiamo i sipari con la giovane e promettente Marasca Rossi e con Luca Marasca che, assieme al fratello Matteo, ha realizzato il sogno di non veder vanificata la passione di nonno Mino scomparso nel 2010. Un aiuto concreto da Roberto Potentini che insegna ai novelli vigneron a prendersi cura di campi e vinificazione, praticamente da garagisti. Unica realtà a Monte Roberto con presenza di argille e limo. Nella mini verticale proposta della sola etichetta di Verdicchio dei Castelli di Jesi Superiore – annate 2019, 2020 e 2021 – vince, a mani basse, quest’ultima per maggior pulizia e consapevolezza degli attori protagonisti. Gradevole espressione ancora timida agli inizi, ma dal sorso equilibrato e succoso.

Un compendio che si spera possa servire ad un viaggio di approfondimento alla scoperta delle meravigliose Marche.

Degustazione presso Les Grands Crus: un format innovativo in questo settore

Con amici e colleghi con i quali condivido la passione per il nettare di Bacco e dietro gentile invito di Simone Tabani, agente di Les Grands Crus per l’area di Siena e provincia, ho partecipato ad una degustazione di vini presso la sede di Magione (PG), piccolo  borgo posto a poca distanza da Perugia e dal Lago Trasimeno. 

Ha guidato la degustazione il dinamico Andrea Forestiero, titolare di Les Grands Crus, società che propone un nuovo format nel mondo della distribuzione, con l’obiettivo di rappresentare aziende di nicchia, talvolta di piccole dimensioni. Tradotto in termini pratici, si segue il concetto di bevibilità, sapidità e piacevolezza. I vini selezionati, per poi essere commercializzati in Italia, provengono da ogni regione del Belpaese e dalle migliori aree vitivinicole del mondo.

Otto gli assaggi che mi hanno maggiormente colpito

Falkenstein Pinot  Bianco  Riserva  2021 Duernberg – veste dorata dalle note di fiori di campo, nocciola, pere mature, ananas, arancia, cremoso e corposo. Piacevolmente fresco con lungo finale minerale.

Cima Vigneto Alto Vermentino Candia dei Colli Apuani Doc 2021 – Giallo paglierino luminoso, subito si percepiscono note di fiori di camomilla, pesca, ananas e agrumi. Sorso vibrante e sapido. 

Gavi La Meirana 2022 Broglia – Paglierino dalle sfumature verdoline, rimanda a note di tiglio, zagara, mela, melone e nuances agrumate sul finale. Gusto sapido, rinfrescante e ammaliante

Scarpe  Toste Unplugged Vino Bianco Cantina Le Macchie – Ottenuto da uve Gewürztraminer dal riverbero color ambra, sprigiona al naso sbuffi di fiori d’arancio, rosa rossa, datteri e spezie dolci. Equilibrio tra freschezza e sapidità, dura a lungo.

Vigneto del Balluccio Verdicchio dei Castelli di Jesi Doc Classico Superiore 2020 – Tenuta dell’Ugolino – Tenue su riflessi verdolini, si esalta tra pesca matura, susina, camomilla, tiglio e arancia tarocca. Vibra su finale di mandorla dolce.

Chianti Classico 2020 Podere Castellinuzza – Rubino lucente, all’olfatto emana note di marasca, viola mammola, scorza d’arancia e rabarbaro, Bocca avvolgente e fine.

Carmione Carmignano DOCG  2021 Fabrizio Pratesi (Sangiovese 70% Cabernet Sauvignon 15% Cabernet Franc 5% Merlot 10%) – Granato scuro, dai sentori di crème de cassis, more selvatiche, amarene e spezie dolci. Struttura potente ed equilibrata, tannini di corpo e ben integrati, dalla chiusura gradevole.

Hocheck Pinot Nero Riserva 2020 Duernberg – Rubino esuberante, al naso declina note di gelsomino, lampone, amarena, scorza d’arancia e sottobosco. Carezzevole e setoso, leggiadro e incredibilmente durevole.

Les Grands Crus Srl
Sede operativa:
Via L. Ariosto, 45/47
06063 Magione (Perugia)
Italia
Tel. +39 075.8241834

Romagna: Tenuta Uccellina, una viticoltura cesellata fra pianura e collina

di Matteo Paganelli

Si narra che i romagnoli siano un popolo ospitale e se ne ha la conferma quando si arriva in una cantina, manco a farlo apposta nel giorno in cui il produttore deve imbottigliare e, anziché dirti che non ha tempo, ti accoglie calorosamente.

Questo è solo un esempio del classico tipo di trattamento che Alberto, Antonietta ed Hermes Rusticali – Tenuta Uccellina – riservano a chi va a trovarli nella loro azienda agricola a Russi (RA).

Alberto Rusticali

Oggi in particolare si imbottiglia “Ghineo” Romagna DOC Sangiovese Riserva che da quest’anno esce con la sottozona Brisighella in etichetta. Già, perché pochi sanno che, nonostante Tenuta Uccellina sia da sempre ubicata nelle pianure ravennate dove coltivano i loro prodotti di punta Bursôn e Rambëla (di cui parleremo in seguito), continua a puntare sui vitigni Romagnoli per eccellenza: Sangiovese e Albana. Lo fa in collina, proprio in una delle zone più vocate per la viticoltura. La storia abbraccia pianura e collina, usualità e unicità; ma andiamo per ordine.

Le origini della famiglia sono abbastanza comuni qui in Romagna: provenienti dal settore agricolo, con la splendida location ove oggi sorge l’azienda che era un tempo la casa dei nonni; coltivatori d’uva sin da quando attorno al casale non sorgeva alcun centro abitato. Nel 1985 Alberto, mosso da fortissima passione e motivazione, decide di iniziare a diventare produttore di vino, quasi come per hobby (lavorava come dipendente in una distilleria in zona), credendo così tanto nel progetto, al punto da investirci risorse, prendendo in affitto dei vigneti a Bertinoro e iniziando quindi a sponsorizzare la viticoltura di collina.

La produzione prevedeva solo la vendita in damigiane, ai tempi consuetudine locale. La svolta arriva pochi anni più tardi, alla fine degli ’80, quando Pasquale Petroncini de “La Ca’ de Vèn” di Ravenna suggerisce di iniziare a imbottigliare i propri vini. Nascono così le prime annate di Trebbiano, Sangiovese e Albana, sotto la guida enologica del pilastro Sergio Ragazzini.

I risultati non tardano ad arrivare: l’Albana di Romagna DOCG 1989 viene proclamata Albana dei VIP dall’allora Ente Tutela Vini di Romagna e nel 1995 la richiesta è così alta che, oltre ai 2 dipendenti fissi, Alberto è costretto a licenziarsi dalla distilleria per seguire la cantina a tempo pieno. Il 1998 è forse l’anno più importante per Tenuta Uccellina quando, grazie proprio a Sergio Ragazzini, promotore della riscoperta del vitigno dimenticato “Longanesi”, oggi lanciato con il nome Bursôn, fonda assieme ad altri soci il Consorzio “Il Bagnacavallo” per commercializzarlo..

Nel 2004 il Consorzio istituisce il premio “Miglior Bursôn” al quale da allora partecipano ogni anno tutti i produttori iscritti, presentando i loro vini a una commissione di enologi e sommelier. Quello di Tenuta Uccellina si conferma vincitore in svariate annate, la più significativa è proprio l’edizione di quest’anno 2023, anno di premiazione del loro Bursôn “Etichetta Nera” 2016.

Ciò a riprova del fatto che quella vendemmia combacia con il primo anno in cui Hermes, figlio di Alberto e Antonietta, prende le redini enologiche di Tenuta Uccellina. Il 2016 vede inoltre anche l’imbottigliamento di Teodora, un’edizione limitata di Bursôn in soli 1.000 esemplari e solo nelle annate più propizie (prima di questa solo la 2008 e la 2011), da una selezione delle migliori Tonneau. L’etichetta è dedicata a Teodora, l’imperatrice di Bisanzio, della quale nella Basilica di San Vitale di Ravenna è conservato il suo famosissimo ritratto mosaico.

Torniamo indietro alla metà degli anni 2000. Mentre il Bursôn spopolava anche per la poca competizione, non si può dire lo stesso di Sangiovese e Albana. Numerose sono infatti le giovani cantine che vedono la luce in quegli anni, aumentando a dismisura l’offerta e causando un forte deprezzamento con bottiglie in vendita a partire da pochi euro. Si scatena una vera e propria guerra al ribasso, dove a uscirne sconfitti sono purtroppo i proprietari che sceglievano di puntare sulla qualità, costretti a ridurre il prezzo per restare sul mercato con inevitabili ripercussioni sul margine.

Per riuscire a restare a galla, nel 2010 arriva la decisione per Tenuta Uccellina di spostare i suoi vigneti da Bertinoro a Oriolo dei Fichi in modo da migliorare la logistica verso i locali deputati alla vinificazione e guadagnare così in competitività. La famiglia Rusticali opta, nel 2019, per un ennesimo spostamento delle vigne questa volta per ragioni stilistiche, abbandonando i terreni sabbiosi di Oriolo alla ricerca di quelli gessosi di Brisighella, nell’ottica della ricerca di una maggior complessità e profondità.

Inoltre da Tenuta Uccellina i cosiddetti autoctoni dimenticati abbondano. Uno in particolare vede la luce nel 2012: si tratta della Rambëla, termine dialettale (utilizzabile solo dai produttori del consorzio “Il Bagnacavallo”) con il quale viene indicato il vitigno Famoso. Questo vitigno, di carattere semi-aromatico, si presta in maniera egregia sia alla produzione di un vino fermo secco, sia alla produzione di bollicine.

È risaputo che il Famoso perda la sua carica aromatica dopo i primi 12 mesi dalla vinificazione, e per tale motivo solitamente se ne incentiva il consumo entro l’anno solare; tuttavia, in una recente degustazione di una loro Rambëla con 6 anni sulle spalle, sono state evidenziate caratteristiche di evoluzione decisamente interessanti, con freschezze ancora ben presenti agevolate dalla chiusura Nomacorc e Screwcap, per cercare di regalare qualche altro anno di longevità a questo prodotto tutt’altro che fugace.

Ho resistito fino a fine articolo per parlarvi di quello che a mio avviso è il dulcis in fundo di Tenuta Uccellina. Sto parlando di Biribésch, nome del vino che viene ottenuto da un rarissimo vitigno autoctono chiamato Cavècia. Il nome è dedicato al nonno di Alberto, soprannominato proprio “e biribésch”, il birichino, a indicarne la natura vocata allo scherzo.

Prodotto sia in versione rifermentato in bottiglia, sia in versione metodo classico, si affianca al contesto aziendale di esclusività e incorona una storia di sperimentazione da rare varietà autoctone (ricordiamo il loro spumante Alma Luna da uve Lanzesa e il loro spumante Pelaghios da uve Pelagos, entrambi non più in produzione).

Non resta che far visita ad Alberto, Antonietta ed Hermes per aver fatto della tradizione e dell’innovazione i capisaldi della produzione di vino in Romagna.