Campania: Cantine Tempere il pregio dell’essere unici

Unicità, un termine usato spesso a sproposito per esprimere un concetto positivo di elemento distintivo nell’arco di un gruppo o di un territorio. Nel mentre tutto sembra essere diventata l’eccezione, con la famiglia Pica titolari delle Cantine Tempere possiamo avere la famosa “conferma della regola”.

Essere unici si esprime nel fatto che in queste zone fare vino non è semplice. Precisiamo: fare vino di qualità e non quantità, come invece richiedevano le usanze dei tempi passati, quando la bevanda idroalcolica fungeva da alimento piuttosto che da salotto, tavolo gourmet od enoteca di livello. Siamo diventati un popolo di sofisticati degustatori, pronti a vivere nuove esperienze sensoriali a qualsiasi prezzo, basta vantarsene con amici e parenti ignari delle sgrammaticature che inevitabilmente seguono in tali dibattiti.

Raccontare un terroir è già elemento dirimente tra le semplici, banali considerazioni e l’affrontare un tema fondamentale nell’analisi giornalistica. Non tutto si può coltivare ovunque: alcune varietà d’uva autoctone si esaltano a dovere meglio di altre, tracciando la strada sicura da seguire anche per il viticoltore profano.

I fratelli Arsenio e Giuseppe Pica sono partiti dal punto zero, pur con antiche reminiscenze apprese dai genitori che producevano e commerciavano uve e vino in Località Tempe a San Pietro al Tanagro (SA), nel bel mezzo dei declivi vicini a Sant’Arsenio nel Vallo di Diano. Riportare in vita le antiche tradizioni è stato il loro scopo aiutati, nei primi passi enologici, dall’enologo Carmine Valentino, pietra miliare dell’eccellenza campana.

Una storia d’amore che si rispetti non poteva dimenticare il successivo ingresso in azienda di Filippo, figlio di Giuseppe, che da avviato imprenditore a Roma coltiva la stessa passione dei germani nel proseguire (ed ampliare) le attività, inclusa la gestione di 5 punti vendita nella Capitale. Dall’Aglianico marchio identitario dei rossi che contano, la sperimentazione è passata nelle mani dell’attuale consulente enologo Alessandro Leoni, che ha puntato sulla vena bianchista dell’immancabile Fiano (dalle alture di Bellosguardo) e sulle bollicine Metodo Classico dal profilo aromatico “internazionale”.

Già 5 gli ettari vitati; si lavora solo ciò che si ricava dalla terra, senza acquistare nulla altrove, per un totale annuo di circa 18000 bottiglie.

Filippo Pica

La degustazione

Brut Rosè Millesimo 2019: progetto iniziato con la vendemmia dell’anno precedente. Sosta sui lieviti 24 mesi, sboccatura gennaio 2023, utilizzando vin de reserve nel dosaggio finale. Cremosità intrigante del perlage e bocca avvolgente tra piccoli frutti rossi e petali di rosa macerati, con crosta di pane in chiusura. Gastronomico.

Fiano Monteroro 2022: prima annata nel 2020, complice l’epoca difficile della Pandemia. Come sempre, e come altri areali in cui attecchisce, il Fiano necessita di tempo in bottiglia per essere giudicato al meglio. Per il momento si chiude a riccio su note fermentative e di fiori bianchi, dimostrando comunque ottima polpa.

Tempere Rosso Aglianico 2018: il puro piacere di bere. Fenomenale nella maturità, gustoso e miscellaneo tra mirtilli scuri, pepe in polvere e china. Tannino croccante e speziato. Inaspettato e vibrante.

Tempere “Primo” Aglianico 2017: i vini di Tempere rispecchiano l’annata, senza omologazione di sorta. La 2017 si esprime nel suo calore complessivo, inclusa una trama tannica impegnativa ancora su toni scalpitanti. Eppure, come per altri casi visti in giro per l’Italia, il gusto resta pulito, certamente potente, ma ricco di sapore e di sfumature da macchia mediterranea.

L’assaggio di una vecchia vintage – la Selezione Aglianico 2011 – fa capire il potenziale d’invecchiamento dell’Aglianico, con puro succo di mora selvatica e liquirizia di eleganza disarmante.

Fino a fine settembre le iniziative di Cantine Tempere prevedono l’aperitivo tra le vigne storiche di famiglia, con degustazioni a tema ed assaggi dei prodotti tipici locali.

Un modo ulteriore per avvicinarsi al concetto di “unicità”.

A che punto siamo con il Fiano di Avellino Docg?

Lapio (AV), 4 agosto 2023Il “Tasting Impossible: la mia prima volta”

Lo scopo dell’evento è stato la degustazione delle prime annate disponibili di Fiano di Avellino Docg dei produttori di Lapio. Le testimonianze dirette dei vitivinicoltori presenti, dai tempi iniziali dell’incredulità circa il potenziale d’invecchiamento, fino alle moderne tecniche di vinificazione per riuscire ad interpretare al meglio questo vitigno, sono stati i momenti più salienti della serata.

Il Fiano di Avellino infatti, con lo specifico areale di Lapio e delle sue contrade, è uno dei vini che meglio si adatta al concetto di zonazione e di territorio. Non vogliamo perdere tempo in chiacchiere sulle eterne (ahinoi) diatribe sul perché tale riconoscimento internazionale tardi ancora ad arrivare. Una vivace polemica tutta interna, che preferiamo non evidenziare per non contribuire a creare pessimismo.

Restiamo, invece, volutamente ottimisti e raccontiamo, in ordine discendente dalla più recente alla più datata, le etichette degustate direttamente dalla narrazione dei produttori.

Laura De Vito presenta Elle Fiano di Avellino DOCG 2018, la prima annata vinificata a venticinque anni dall’impianto delle vigne. Una cantina di recente fondazione che pone il territorio al centro del proprio progetto produttivo. Dichiara la De Vito: “la vinificazione è basata sul principio di zonazione, con tre etichette su quattro che portano il nome delle contrade di provenienza delle uve, oltre una quarta che raccoglie le varie parcelle vinificate in unico blend variabile di anno per percentuali ogni anno. La fermentazione avviene esclusivamente in acciaio, con permanenza di nove mesi sulle fecce fini, affinamento in bottiglia ed uscita in commercio non prima di 24 mesi dalla vendemmia”.

Angelo Silano presenta la sua Vigna Arianiello Fiano di Avellino DOCG 2016.

Angelo racconta che la sua “prima volta” per questa etichetta è stata l’annata 2013. Dato l’intento di voler esaltare al massimo le caratteristiche del territorio, anche Angelo ha lavorato sul concetto di zonazione specificando che “rispetto ad altri vigneti, in quello di Arianiello c’è tanta materia vulcanica.”

La 2014 e la 2015 non sono state prodotte perché le annate eccessivamente calde avrebbero inficiato proprio questa caratteristica. “La 2016 invece, figlia di una stagione equilibrata, ha permesso di mettere in risalto le caratteristiche sia del vitigno che della zona.”

Il campione successivo in degustazione è il Vino della Stella Fiano di Avellino DOCG 2012. A raccontare il progetto enologico è Raffaele Pagano, patron dell’azienda Joaquin, da sempre presente a Lapio e impegnata in progetti di micro-zonazione: “la 2012 non è la prima volta” di questa etichetta, preceduta da una 2009, mentre la 2010 e la 2011 non sono state prodotte”. La 2012 è stata una vendemmia atipica, particolarmente calda, che si è ripresa sul finale permettendo di spingere la raccolta a metà ottobre. Siamo puristi, non usiamo molta tecnologia, non facciamo controllo delle temperature, ci piace lavorare col batonage spinto. In questo caso, inoltre, il vino non fa legno”.

Adolfo Scuotto di Tenuta Scuotto ci ha parlato del Fiano di Avellino 2011, non la prima annata dell’etichetta, che ha un precedente già nel 2010.

“La 2011 è stata un’annata di difficile interpretazione, inizialmente fresca, seguita da un periodo caldo con escursioni termiche importanti, che hanno sviluppato un corredo aromatico molto interessante. La maturazione lenta, la fase vegetativa prolungata e la raccolta delle uve a partire dalla seconda/terza decade di ottobre, hanno fatto il resto nella definizione di questa annata. Il vino fermenta in acciaio ed affina esclusivamente in acciaio e bottiglia”.

Ercole Zarrella imbottiglia per la prima volta la sua personale etichetta di Fiano di Avellino nel lontano 2004. La cantina è Rocca del Principe e l’etichetta degustata è Fiano di Avellino 2010.

“Non ci sono bottiglie precedenti conservate perché non si pensava che il Fiano avesse questa longevità!” La novità dell’annata 2010 sta proprio nel fatto che ne è stata ritardata l’uscita in commercio di circa sei mesi per permettere un miglior affinamento del vino. Un sacrificio non indifferente dato che Ercole, nel perseguimento di un progetto che permettesse la massima espressione del vitigno, ha rimandato di diversi mesi la vendita delle bottiglie, rimanendo di fatto “senza vino”. Anche nel caso di Rocca del Principe è ben chiaro il principio di zonazione e mentre il Fiano degustato è un blend (70% Vigna Tognano 30% Vigna Arianiello), etichette specifiche sono invece dedicate ai cru Tognano e Neviere di Sopra.

Quando arriviamo alla cantina Colli di Lapio, entriamo a pieno titolo nella storia del Fiano a Lapio, contrada Arianiello. Carmela Romano, figlia di Clelia, la Signora del Fiano, ci racconta ancora una volta la storia di un vino, imbottigliato per la prima volta nel 1994,  di cui non si immaginavano i potenziali d’invecchiamento. Per questo motivo non esistono bottiglie che vadano così indietro nel tempo e dunque degustiamo il Fiano di Avellino 2007. Carmela ha scelto questa annata perché è stata una delle più calde e siccitose, più regolare nelle precipitazioni rispetto alla 2003, con ottime escursioni termiche e una vendemmia anticipata ai primi di settembre. Fermentazione in acciaio, affinamenti successivi in acciaio e bottiglia.

Se Colli di Lapio è la storia del Fiano a Lapio, Romano Nicola ne è probabilmente la legenda. Azienda presente sul territorio dal 1988, fortuitamente ritrova alcune bottiglie dell’annata 1989, la prima imbottigliata a Lapio, precedenti dunque all’istituzione della DOCG. Amerino Romano confessa di affrontare il tasting senza garanzie, vista l’età avanzata del vino, ma con grande spirito didattico e di studio condivide con l’intera platea una vera e propria emozione.

Infine Daniela Mastroberardino, Presidente nazionale dell’Associazione Donne del Vino, rappresenta la cantina Terredora situata a Montefusco, ma che a Lapio detiene la vigna dedicata al Fiano di Avellino Riserva Campore, assaggiato nell’annata 2008.

La prima annata di questo vino risale invece al 1998.

“In un momento in cui si lavorava prevalentemente con i vini d’annata, nasce Campore con una diversa impostazione. Dal 1998 e fino al 2002 Campore fermentava per il  50% in acciaio e per il 50% in barrique. A partire dall’annata 2003 la fermentazione avviene esclusivamente in barrique, con una sosta sulle fecce fini di sei mesi. Esce a cinque anni dalla vendemmia”.

Daniela si sofferma a lungo sulle virtù di un vitigno autoctono, il fiano, coltivato in molte parti del mondo ma che trova il suo clima d’elezione ideale nella fredda Irpinia, “isola del Nord appuntata al centro del Sud Italia”. Commoventi, infine, le parole dedicate al fratello Lucio, enologo di grande talento, prematuramente mancato nel 2013.

Carminuccio Week: tu chiamala se vuoi… una pizza

Quando mi hanno proposto di prendere parte alla serata di apertura della Carminuccio Week, confesso che ero stata abbastanza scettica.

Da non salernitana, (napoletana solo per parte di madre), mi chiedevo cosa avrei potuto cogliere di una serata che, a tutti gli effetti, si preannunciava come un memorial a un anno esatto dalla dipartita, di Carmine Donadio, in arte “Carminuccio”, per tutti i salernitani doc che in qualche modo lo avevano conosciuto.

Mai come in questo caso il famoso assunto scrivi di ciò che conosci mi sembrava riferito ad una conoscenza reale e concreta, senza la quale temevo di perdere l’essenza stessa della persona per ritrovarmi a stendere il mero resoconto di una serata tra amici, dove io stessa sarei diventata un elemento estraneo. Più raccoglievo informazioni preliminari, leggendo le motivazioni dell’evento promosso dal giornalista enogastronomico Luciano Pignataro, autoctono illustre, più questa sensazione prendeva consistenza.

E invece mi sono dovuta ricredere.

17 luglio 2023 – ore 18.30: una delle sere più calde di questa torrida estate. La location scelta per l’evento è il Crub Seafront Bay a Vietri sul mare. All’arrivo molti bagnanti si attardano ancora sulla spiaggia su cui si affaccia il locale, mentre fervono i preparativi per la serata. Salta subito all’occhio la schiera di pizzaioli in divisa, già presenti sul posto. Gran parte della festa è dedicata a loro, che hanno inserito in carta la pizza Carminuccio (creata ormai cinquant’anni fa da Carmine Donadio) che per un’intera settimana la offriranno ai loro clienti ad un prezzo speciale.

Poi noto loro: Vincenza, moglie e compagna di Carmine per una vita intera, Maria Rosaria e Diamante, le figlie, Enzo, il genero che ne ha raccolto l’eredità e nello sguardo serio e fiero racconta tutto l’orgoglio, che preferisce non esprimere a parole.

Mi rendo conto che il clou dell’evento è tutto in queste due immagini, capaci di trasmettere in modo potente ed evocativo l’idea di una persona e di quello che ha fatto in vita, fino a farla diventare una leggenda.

Luciano Pignataro, reduce della kermesse 50 TOP Pizza Italia 2023, così mi racconta la pizza Carminuccio:

<<La Carminuccio fu inventata da Carmine Donadio, pizzaiolo di lungo corso nel quartiere periferico di Mariconda, che all’inizio dell’attività era un cosiddetto quartiere difficile. Lui inventò questa pizza molto semplice con pomodoro, pancetta, formaggio e un po’ di forte, servita con la carta oleata, in una città, Salerno, che non aveva una grande tradizione di pizza. Intere generazioni di salernitani sono cresciute con questa pizza che ha attraversato le mode ed è diventata identitaria. Identitaria e incredibilmente moderna, nonostante i cinquant’anni d’età, (la Carminuccio è una pizza senza mozzarella, oggi talvolta usata in sovrabbondanza per coprire altre mancanze), che gioca sulla purezza degli ingredienti: la qualità della pancetta, la qualità del pomodoro, la qualità del formaggio.>>

La serata è dunque un tributo, ma anche l’occasione per riunire le pizzerie, trentuno quelle note, che includono la Carminuccio nei loro menù. L’evento è realizzato con la collaborazione di sponsor esclusivamente commerciali: Acqua Pazza di Cetara, Caputo, Caseificio La Tramontina, Famiglia Pagano, Nobile Pomodori, Mulino Urbano, Crub Sea Front e Sa Car ed è stato presentato dalla giornalista Maria Teresa Sica, che tiene con orgoglio a rivendicare le proprie origini campane.

Scopro che oltre ai numerosi pizzaioli di Salerno e provincia, c’è Antonio Amato, proprietario della pizzeria Affamato a Serravalle Sesia (NO), venuto appositamente per l’occasione; in collegamento da Manhattan c’è Ciro Casella, proprietario di San Matteo NYC, e da Milano Francesco Capece di Confine, Pizza e Cantina, proprio di recente classificatosi undicesimo nella 50 Top Pizza Italia 2023.

Ascolto storie ed esperienze recenti come pure di quarant’anni fa, tutte unite dal comune denominatore di una pizza avvolta in un foglio di carta oleata, addentata con tale vorace golosità da ustionarsi la bocca e consumata in piedi (tanto che la patacca sui vestiti a fine serata era istituzionalizzata) o, nella migliore delle ipotesi, sul sellino di un motorino o sul cofano di una utilitaria.

Tutti ricevono in omaggio il piatto e la vetrofania con l’originale logo di una pizza stilizzata, creato per l’occasione da Viviana Saponiero, e una magnum di Taurasi Famiglia Pagano. Al termine della premiazione un piccolo buffet per gli ospiti presenti; i vini di accompagnamento sono offerti dalla Famiglia Pagano: I Ponti Falanghina Campania IGP, I Tufi Greco di Tufo DOCG, Le Pietre Fiano di Avellino DOCG, Taurasi DOCG.

Ma soprattutto viene sfornata pizza Carminuccio a go go: al forno lavorano Enzo, suo figlio Raffaele, che a dodici anni già mostra la stoffa del nonno e del papà, e Salvatore. Ed eccola finalmente, la mia Carminuccio: sottile al centro, cornicione gonfio e soffice, cottura perfetta senza bruciature, pomodoro, pancetta, formaggio, basilico e un ingrediente segreto, che Enzo non ha ovviamente voluto rivelare.

La mangio con golosità, ustionandomi la bocca al primo boccone, come da tradizione, evitando con abilità la patacca istituzionale e chiedendo il bis perché è talmente leggera (caratteristica voluta da Carmine come mi ha svelato la moglie Vincenza) che quasi non ti accorgi di averla mangiata.

Il Cinema prende forma a Sala Consilina (SA) con la decima edizione del Toko Film Fest

Ciak si gira! Parliamo di territorio e lo facciamo, questa volta, con una lodevole iniziativa giunta ormai alla sua decima edizione: il Toko Film Fest – Festival Internazionale di Cinema e Cultura.

Ideato da un’associazione di giovani appassionati della settima arte, definita tale dal critico Ricciotto Canudo nel manifesto del 1921, la kermesse ha cambiato più volte forma, come la pelle di un camaleonte mentre cerca di adattarsi ai colori dell’ambiente circostante.

Partito nel 2014 dalla Piazzetta Gracchi – “la chiazzeredda” per i cittadini salesi – l’evento ha assunto ormai le forme di un appuntamento fisso, che richiama pubblico dai numerosi comuni del Vallo di Diano (e non solo). Ospiti fissi selezionati tra registi, attori e musicisti di caratura nazionale, oltre laboratori di recitazione, cortometraggi, live podcast e talk culturali.

Quest’anno la vera novità è stata quella di passare da un Festival interattivo e itinerante dei tempi della pandemia ad una sorta di “Festival diffuso” lungo 7 giorni e con numerose iniziative in programma dal 24 al 30 luglio. Il culmine sarà il live show finale con il concerto di Valerio Lundini, conduttore televisivo, musicista, comico e scrittore, accompagnato dal gruppo I Vazzanikki già presenti su Raidue nel programma satirico “Una pezza di Lundini”.

Il dibattito invece, spiega il direttore artistico Gianmarco Ungaro, vedrà la presenza del regista Valerio Vestoso e degli artisti Demetra Bellina, Cristina Cappelli, Sabrina Martina, Andrea Vailati, Mauro Zingarelli e il team di sviluppatori indie Morbidware: Diego Sacchetti, Giuseppe Longo e Matteo Corradini (membro dei The Pills e scriptwriter di “The Textorcist”).

Nei giorni precedenti si è svolta la proiezione al Cinema Adriano del film Mixed by Erry del regista Sidney Sibilia e un incontro al Gran Caffè Trezza a Teggiano (SA) per la visione dei cortometraggi ammessi in concorso al Toko Film Fest.

Non manca l’attenzione verso i produttori del territorio; l’occasione ideale per fare la conoscenza di Alessandro Paventa, uno dei titolari, assieme ai cugini, del Caseificio S. Antonio di Sala Consilina (SA), terza generazione di imprenditori abili nel realizzare fiordilatte e caciocavallo di alta qualità. Una gradevole sosta trascorsa assaggiando proprio il loro caciocavallo, stagionato dieci giorni e cotto alla piastra su pane bruschetta.

Nel retro del Palazingaro, sede delle ultime due serate della manifestazione, è possibile anche osservare una piccola mostra d’arte contemporanea, ispirata alle problematiche sociali e ambientali del nostro tempo. Dichiarano gli organizzatori: <<prima ancora che una rassegna cinematografica, è amore per il territorio e per le proprie radici. Uno dei punti fermi è il recupero del centro storico di Sala Consilina, utilizzando il Festival anche per rafforzare la comunità esistente e rilanciare la zona come attrattore turistico e di investimenti nell’intero Vallo di Diano. Una parte fondamentale della nostra macchina organizzativa è sempre stata accompagnare i nostri ospiti – o nuovi membri dello staff provenienti da fuori Regione – a visitare i punti di forza del Vallo di Diano: Certosa di Padula, Grotte di Pertosa, Battistero di San Giovanni in Fonte ed altri, di concerto con le istituzioni e coinvolgendo altre associazioni ove necessario>>.

Per ulteriori info: https://www.tokofilmfestival.it/

L’ingresso è totalmente gratuito.

Torna a Salerno la Festa della Pizza

Oltre ottantamila presenze e centoquarantamila tranci di pizza sfornati. Questi i numeri con cui è tornata, per spegnere le sue venticinque candeline, la Festa della Pizza a Salerno, dopo una pausa lunga quattordici anni.

Una kermesse organizzata da Associazione Alimenta con Maurizio Falcone e Alfonso Aufiero, in collaborazione con Ivano Santoro di Santoro Creative Hub per il piano marketing e comunicazione, che si è nuovamente proposta come la giusta combinazione di gastronomia e spettacolo.

Piazza Salerno Capitale, sul lungomare del capoluogo campano, si è trasformata in un vero e proprio villaggio del gusto, dove dodici pizzerie storiche hanno lavorato per cinque sere consecutive, dal 12 al 16 luglio, per far conoscere le proprie specialità, mentre sul palcoscenico si sono alternati otto cantanti, sei band e otto scuole di danza, per animare ogni singola serata.

<<Avevamo voglia di tornare! – ha dichiarato Alfonso Aufiero – La location è la migliore: nel centro di Salerno, in un luogo dal clima ideale in giorni di caldo infernale, ventilato e vicino al mare. La missione della festa è sempre stata quella di esaltare la tradizione campana della pizza>>.

In ciascuna delle serate è stato possibile assaggiare, con un ticket a pagamento, quattro tranci di pizza e bere una bibita, scegliendo tra uno o più dei tredici forni a legna presenti.

A partire dalle tradizionali margherita e marinara, proposte dall’Antica Pizzeria Brandi attiva a Napoli dal 1780, alla pizza col pomodoro arruscato della Pizzeria Umberto Falcone, specialità cilentana che su una base bianca prevede l’utilizzo di pomodorini cotti in forno a legna; dalla pizza con impasto gragnanese, diverso da quello napoletano perché più alto e più soffice, della pizzeria Ai Tre Monelli, al classico panuozzo, un vero e proprio panino in pasta di pizza con provola e pancetta, di Luigi o’ Furnar. Presente anche il forno Madison dell’AIC, con le proposte per i celiaci.

E nonostante il caldo, sono state lunghe le file ad ogni forno per mangiare la pizza all’aperto, con tanti numeri d’intrattenimento alternati sul palcoscenico. La conduzione delle cinque serate, come in tutte le edizioni precedenti, è stata affidata a Pippo Pelo, noto conduttore di Radio Kiss Kiss.

Alla domanda su cosa significhi tornare dopo anni a condurre questo evento, Pippo non ci ha pensato due volte: <<Per me la Festa della Pizza è intanto famiglia, è una festa, è lavoro, lavoro nella mia città. Mi sento accolto e amato dai salernitani e non solo, perché questo evento è conosciuto in tutta la regione e anche oltre>>.

Ad affiancarlo sul palcoscenico anche Adriana Petro, sua compagna di “battaglia radiofonica” nella trasmissione di radio Kiss Kiss che tra le 7.00 e le 9.00 dà il buongiorno all’Italia: Pippo Pelo Show.

Il palinsesto della manifestazione ha contato su artisti del calibro di Lele Blade, Napoleone, Neri per Caso, Dadà, Davide De Marinis, Ciccio Merolla, LDA, che hanno intrattenuto il pubblico in attesa della propria pizza o intento a gustare una delle specialità appena sfornate.

<<Gastronomia e spettacolo sono un connubio perfetto>> sottolinea infine Alfonso Aufiero. E in questo caso la gastronomia è quella della grande tradizione della pizza partenopea e campana. Una tradizione che ha il difficile compito di mantenersi attraente in un’epoca in cui l’offerta, sempre più multiforme e multietnica, ha sortito lo stesso effetto delle Sirene su Ulisse. Se dobbiamo dare ascolto ai maestri pizzaioli che hanno partecipato alla Festa, la vera originalità della pizza oggi risiede unicamente nell’eccellente rielaborazione della grande tradizione e nelle materie prime.

L’ELENCO DELLE PIZZERIE PRESENTI ALLA MANIFESTAZIONE

Ai Tre Monelli – Angri (SA)

Pizzeria l’Angelo e il Diavolo – Salerno

Antica Pizzeria Brandi – Napoli

Antica Pizzeria Reginé – Salerno e Firenze

Criscemunno – Salerno

I Due Fratelli – Salerno

I Love Pizza – Baronissi (SA)

Luigi ‘o Furnar – Gragnano (NA)

Madison – Cava de’ Tirreni (SA)

Ma Tu Vulive ‘a Pizza – Napoli

La Pizza di Umberto Falcone – Salerno

Tutù Pizza – Bivio Pratole (SA) Vaco ‘e Pressa – Salerno

Kasanna a Sala Consilina (SA): il Vallo di Diano conosce un maestro dell’affinamento formaggi

Nicola Memoli, professione affinatore di formaggi a pasta molle e crosta fiorita con la sua azienda Kasanna a Sala Consilina (SA).

Nicola Memoli che di anni ne ha 48, pur sembrando ancora un giovane virgulto, ha ormai collezionato un’esperienza nel settore che lo vede protagonista sulle tavole d’Italia e di molti Paesi europei. Essere affinatore di formaggi richiede voglia continua di sperimentare, adottando lavorazioni e materie prime che non alterino eccessivamente i sapori d’origine. Il nome dell’azienda a conduzione familiare è dedicato alle sue 3 figlie, utilizzando l’acronimo dei nomi Karol, Sara e Annalisa.

Nicola Memoli – Kasanna

Non basta una grotta a fare un eremita, e neppure basta per ricreare quel mistero nel quale i maestri italiani primeggiano. All’estero è praticamente una rarità l’esercizio di tale professione, ma lungo lo stivale della nostra Penisola siamo autentici fuoriclasse. L’Affinatore fa il possibile per continuare a mantenere il profilo originale del formaggio, facendo attenzione ad abbinare le spezie, gli aromi o le erbe, con lo scopo di esaltare la materia prima quando il processo sarà terminato, sperimentando idee nuove, ma rispettose.

Nicola era partito, 10 anni orsono, dalla stagionatura del caciocavallo, per tentativi, fino a giungere al suo piccolo capolavoro: un caciocavallo al tartufo con riposo in botte di rovere contenente fieno per una durata media dai 4 ai 6 mesi di cantina. Non si sentiva soddisfatto del livello ormai raggiunto e, sconvolgendo ogni suo proposito, decise nel 2015 di selezionare latte di pecora e capra per affinare i formaggi a pasta molle e crosta fiorita.

E adesso? Memoli è arrivato alla cifra di ben 22 prodotti diversi, alcuni premiati dalla critica gastronomica, come l’elisir di fragole al rosmarino, oppure un formaggio a crosta fiorita con colatura di alici e scorzette di limone o, infine, vari tipi di affinamento nel vino, utilizzando l’Aglianico possente e tannico, sulla scorta dell’antica ricetta romana del mulsum.

A proposito di territorio, Kasanna propone, principalmente tra i comuni del Vallo di Diano, (estendendosi a volte lungo l’intero areale del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano e Alburni), una sorta di “aperitivo itinerante”, fruibile da chi ne segue i canali social, entrando a far parte del gruppo di watsapp. Una sorta di flash mob organizzato all’improvviso sulla base di un certo numero di adesioni con indicazione di una data papabile.

Il luogo dell’evento viene scelto all’ultimo momento tra una lista di strutture disponibili. L’idea è quella di far da punto di ritrovo per persone di diversa estrazione e cultura e parlare delle bellezze artistiche ed enogastronomiche del luogo, con la partecipazione di altri caseifici e produttori di vino, companatico ideale per le nostre migliori espressioni casearie.

Kasanna

Salita Guerrazzi, 5

84036 Sala Consilina Italia

Costiera Amalfitana: a Maiori (SA) l’azienda agricola biologica Raffaele Palma

di Luigi Salvatore Scala

Raffaele Palma ha seguito il suono dolcissimo del richiamo alla terra ed ha creato a Maiori (SA), in Costiera Amalfitana, un’azienda totalmente condotta all’insegna della eco-compatibilità e sostenibilità a picco sul blu del mare.

Vista panoramica dall’azienda

Fu certo in un momento di pazzia che Raffaele Palma, anzichè godersi in panciolle l’età matura dopo una vita attiva da imprenditore del settore legno, ha deciso di investire tutto per strappare alla montagna dei terrazzamenti da destinare alla vigna, oggi incorniciati e sostenuti dai muretti a secco, tra uliveti e limoneti. Impossibile descriverne il coraggio: l’invito è partire alla scoperta della vera viticoltura eroica, quella dell’uomo che non solo vince sulla natura, preservandola, ma la fa anche presuntuosamente più bella.

Il primo terreno

Nel 2005 Raffaele decise di dare tutto sé stesso e, passeggiata dopo passeggiata in questo paradiso perduto, si è convinto ad acquisire diversi appezzamenti dai 50 ai 450 metri di altitudine, investendo nell’innovazione e nella sperimentazione, con passione e assoluta devozione alla natura del luogo. Oggi sono ben gli 6 ettari vitati sui 22 totali.

PUNTACROCE Costa d’Amalfi D.O.C.

Nasce da un assemblaggio tra Falanghina, Biancolella, Ginestra ed altre varietà locali. Il profumo è caratterizzato da sentori di mandarino, albicocca, fiori di agrumi e lavanda. Al gusto le marcate note minerali sono piacevolmente accompagnate da una discreta sapidità. Finale persistente di frutta gialla candita. Ideale abbinamento con la cucina di mare.

MONTECORVO Costa d’Amalfi D.O.C. rosso

Da un uvaggio di Piedirosso e Aglianico. Colore rosso rubino intenso, dal bouquet di prugne rosse, arance, petali di rosa e ribes. Al gusto è fresco con piacevole persistenza aromatica e dalla struttura tannica non invadente. Ideale abbinamento al tipico pranzo domenicale a base di ragù.

SALICERCHI Costa d’Amalfi D.O.C. rosato

Pressatura soffice di uve Piedirosso e Aglianico. Un rosato dai riverberi cerasuoli intensi. Odora di note da crème de cassis, liquirizia, chiodi di garofano e fragoline sotto spirito. Al palato fa sentire tutta la sua freschezza e l’imponente enfasi alcolica che ben si bilancia alle note sapide. Persistenza fondata su un’ottima struttura acida. Vino davvero versatile, abbinabile a tutto campo, dalla carne bianca, agli arrosti di agnello, dai primi piatti alle tagliate di frutta.

CIARARIIS IGP Colli di Salerno bianco

Frutto della vinificazione di sole uve Ginestra in purezza, varietà locale poco diffusa, ma dalle particolari caratteristiche organolettiche. All’olfatto ha sentori di agrumi, frutta candita, albicocca e note di fiori gialli. Il sorso avvolge con armonia e chiosa sapido e di lunga persistenza.

Tutta la cantina è certificata BIO, così come i limoneti e gli uliveti. L’azienda produce anche: miele, marmellate, liquori e l’unico olio di oliva extravergine Colline Salernitane D.O.P. presente ad oggi in Costiera Amalfitana.

A Raffaele Palma va dunque il merito di avere ulteriormente ampliato “la frontiera” del vigneto Campania.

© Azienda Agricola Biologica Raffaele Palma

Via Arsenale, 8 – 84010 Maiori (SA)
Sede Operativa: Località San Vito 
Tel +39 335 76 01 858 | Fax +39 089 812129

Albamarina e i vini bianchi di Mario Notaroberto: una storia cilentana fatta di vere passioni ed emozioni

di Silvia De Vita

La cantina del “brigante contadino” Mario Notaroberto e l’espressione dei vini bianchi di Albamarina colpiscono nel segno. Una storia tutta cilentana fatta di vere passione ed emozioni quella che andremo a narrare per 20Italie.

I racconti hanno sempre il loro fascino quando consentono di immergersi in atmosfere talvolta lontane nel tempo e nello spazio. Le parole che li compongono assumono peso, circostanze, significati che in contesti diversi avrebbero tutt’altro senso. Le espressioni, le intonazioni, le pause ne arricchiscono enormemente il fascino. E se poi la narrazione è accompagnata da un calice di vino, arricchita da complici sguardi, l’immersione nel luogo e nel tempo è garantita. Silenzi e pause che contribuiscono a condurre il ritmo, la suspense e l’armonia della composizione, come accade in un brano musicale.

Mario Notaroberto – Albamarina

Ci troviamo nel comune di Centola (SA), nella natura selvaggia del Parco del Cilento, lì dove mare e montagna si incontrano in un trionfo di colori che sfumano dal blu profondo del mare al verde intenso della campagna, con spennellate di macchia mediterranea e profumi intensi di salsedine e piante aromatiche.

Il protagonista è Mario Notaroberto – cantina Albamarina proprietario di splendidi vigneti che si affacciano sul golfo di Palinuro. Un terreno noto agli esperti come flysch cilentano, dove lo strato di argilliti e quarziti di origine marina ha l’arduo compito di assorbire l’acqua piovana per poi restituirla nei periodi più aridi. È un piccolo mondo di storie, di vigne e pensieri: una terra di testarde attese e di cuori resilienti.

La roccia è composta da vari livelli di arenaria, argilla, marna, calcare, e qualcuno sostiene, non solo. Nel tratto a largo della costa del Cilento, due giganti sottomarini, il Marsili e il Palinuro, hanno avuto in passato una attività vulcanica imponente, tanto da far supporre ad alcuni studiosi che il suolo possa avere richiami tipicamente vulcanici.

Mario sviluppa qui la sua cantina su 10 ettari vitati, tra Fiano ed Aglianico e altri vitigni autoctoni cilentani e della Campania (Falanghina, Greco e Santa Sofia). Gli impianti sono del 2009 e nel 2012 è avvenuta la prima vendemmia; l’anno seguente Albamarina è comparsa sul mercato con ottimo consenso dalla critica. Il microclima è particolarmente favorevole e si avvantaggia della brezza marina proveniente dal golfo di Policastro protetta dal Monte Bulgheria in un unico abbraccio.

Di strade Notaroberto ne ha percorse molte dal momento che, dopo gli studi di ragioneria e un lavoro proficuo a Napoli, si è trasferito in gioventù nel Lussemburgo spinto forse da questioni di cuore o molto più probabilmente da nuove ambizioni e ricerca di stimoli. Lì apre il Ristorante Il Notaro che conduce al successo rapidamente, arricchendone la cantina con un numero importante di vini, tali da raggiungere negli anni oltre 1450 etichette. Oggi il business in Lussemburgo viene gestito dai figli Livio e Dario che, dopo gli studi alla Bocconi, hanno deciso di seguire le orme del papà.

La passione per il vino nasce in Mario sin da ragazzo, nella vigna di famiglia. Non ha mai saputo che uva il padre coltivasse, ma ha chiaro il ricordo di questo vino rosso da una varietà francese a detta dei genitori, riportata nel Cilento da un compaesano emigrato con dei “maioli”.

Il risultato era di colore tanto scuro da far dannare la mamma quando una sua goccia macchiava la tovaglia. Molti anni dopo, per caso durante un viaggio a Montevideo, scopre che quell’uva era semplicemente il Tanat, vitigno del Sud Ovest francese, molto tannico, con caratteristiche che si collocano a metà strada tra Aglianico e Sagrantino.

La degustazione improntata sui suoi vini è splendida. Con molta generosità alterna il racconto di Albamarina e della sua storia personale a momenti di assaggi delle diverse tipologie di vino della cantina.

Ad aprire le danze Etèl – IGP Campania 2022, Falanghina proveniente per metà dai terreni di Centola ed il rimanente 50% dal Sannio. Il nome del vino richiama il nome del fiume LETE scritto al contrario, sui cui lembi (ben stilizzati in etichetta) si affacciano, a circa 250 mt di altitudine, i vigneti. Il clone utilizzato è quello del Sannio, impiantato nel 2016 e vinificato per la prima volta nel 2021. L’affinamento avviene in acciaio sulle fecce fini per circa 6 mesi, ed in bottiglia per almeno 3 mesi. Vino di carattere, dalle nuance giallo paglierine e naso inebriante di sentori fruttati. Sorso fresco e di buon corpo, ben equilibrato dal gradevole allungo.

Nerbo e prospettive di longevità per il Nylos, IGP Campania 2021, da Greco in purezza. La dedica è a San Nilo, il cui cammino cilentano, in alcuni punti, segue le vigne di Albamarina. Richiama al naso fiori di ginestra e frutta a pasta gialla. Fresco, ben equilibrato e di buona persistenza.

La degustazione continua con il vino storico dell’azienda, il Fiano IGP Valmezzana. Il nome del richiama la località nella quale viene coltivata l’uva. L’etichetta invece evoca una farfalla per simboleggiare un’esistenza effimera e quindi un vino che va bevuto velocemente perché di vita breve. Invece resiste in maniera superba lo scorrere del tempo!

La verticale proposta denota, infatti, tutt’altro. Le diverse annate di Valmezzana 2021 – 2019 – 2014 – 2013 oltre ad impressionare per l’intensità del colore che vira a mano a mano verso il giallo dorato con riflessi ambrati, sviluppano al naso un bouquet di note agrumate, con fiori bianchi, mughetto alpino e balsamicità. Andando indietro con le lancette dell’orologio emergono le sfumature tostate e mielose del Fiano e una mineralità di forte presenza in bocca. Straordinaria l’evoluzione del Valmezzana in versione Magnum.

Ultimo prodotto in degustazione è il Palimiento, che rappresenta per Albamarina un ritorno al legno in fase di fermentazione e un affinamento per almeno 12 mesi in barrique.

Il nome del vino “Palimiento” richiama “I Palmenti”, le vasche o di cemento o scavate nella roccia, che già in tempi antichi venivano utilizzate per la fermentazione del mosto, rievocate e stilizzate in etichetta con un tratto delicato. La presenza del legno nel processo produttivo ha un impatto nobile sul vino. L’esaltazione della macchia mediterranea e la mineralità vengono percepite senza troppe difficoltà, come se le sue botti fossero state immerse in acqua di mare. Una struttura importante accompagnata da una freschezza e una sapidità rendono la beva elegante.

Un nuovo progetto vede l’espressione del Fiano nelle bollicine – Metodo Charmat e Metodo Classico – presto in arrivo al pubblico. Noi abbiamo degustato in anteprima lo spumante brut Metodo Charmat il cui nome “L’eremita” è un omaggio ad una delle frazioni di Futani “Eremiti”. L’etichetta richiama una rete in cui l’eremita si sente intrappolato, come lo spumante quando è chiuso in bottiglia. Dal perlage fine e brillante con piccoli riflessi di luce dorata.  Al naso richiama sentori di agrumi e frutta gialla non ancora matura, arricchiti da piacevoli note floreali e di lievitazione. La beva ha una buona freschezza e finezza; lungo e pulito il finale.

Il mondo dei rossi e rosati di Albamarina meriterà tempo e dedizione in un’altra visita. Si va via consapevoli della magia appena vissuta e nostalgici delle magnifiche sollecitazioni che più volte hanno stimolato piacevolmente i nostri 5 sensi.

Oscar Wilde diceva “The future belongs to those who believe in the beauty of their dreams.”

Mario Notaroberto, ne è l’esempio vivente…

Merci et à la prochaine! Et ce sera bientot.

“A cena con l’enologo”: Sergio Pappalardo ci racconta il suo Fiano Pelós al Ristorante Mediterraneo a Salerno

di Luca Matarazzo

Nemo profeta in patria. Lo so, a volte mi rendo conto di essere ripetitivo col passare degli anni. Eppure credo sempre di più nella verità storica di questo motto latino: nessuno è profeta in patria, ovvero pochi sanno esaltare le bellezze che abbiamo a due passi dai nostri occhi.

Una di queste è il Ristorante Mediterraneo a Salerno di Carla D’Acunto, giunto ormai alla prima decade dal giorno dell’apertura, motivo dell’incontro a cena con l’enologo (e produttore) Sergio Pappalardo per la presentazione, in esclusiva per 20Italie, del suo Pelós 2021 da uve varietà Fiano.

L’affabile Carla ci accoglie con quel sorriso che solo i grandi del mestiere sanno esprimere. Non un gesto di semplice cortesia, quanto il modo migliore per dirti “benvenuto a casa mia”. Dimentichiamo spesso l’importanza di ricevere un simile trattamento nell’avvicinarci a un esercizio pubblico o comunque vogliate chiamarlo. Ma dalla forma bisognerà poi passare alla sostanza e di questo ne parleremo a breve.

Cominciamo, invece, con raccontare il progetto di Sergio Pappalardo, esperto enologo che ha deciso di cimentarsi in prima persona nel duro mestiere di vigneron. Nel 2018 prende in gestione una vigna a Sorbo Serpico a 500 metri d’altitudine, in Contrada Pascone. Il materiale d’inizio era buono, piante di Fiano del 1994 che però necessitavano di giusta cura e attenzione.

Anche perché Sergio è da solo e deve occuparsi di ogni aspetto produttivo, persino l’etichetta per il suo vino. I suoli sono argillosi, puntati a forte pendenze con rischio continuo di dilavamento a valle durante le piogge. Motivo ulteriore per dover seguire la vigna come un bambino ai primi passi con la mano del buon padre di famiglia.

Ma cosa farne, esattamente, dei grappoli splendidi e luminosi vendemmiati da tale appezzamento? Pappalardo non esita un secondo, seguendo la propria filosofia produttiva improntata sulla ricerca delle pratiche rispettose dell’ambiente e della natura.

Permettetemi, dunque, un lieve brivido pensando ad altre esperienze fallimentari o alla grande confusione esistente attorno al concetto di vino naturale. Tralasciando il termine in sé, bisogna provare per credere, tastare nel calice il prodotto nato da tanta selezione e sacrificio e capire che non possiamo mai avere preconcetti, ma solo verifiche tecniche di chi lavora bene… e chi no.

Le uve scelte per il Pelós 2021 sono state raccolte tardivamente tra il 30 ottobre e il 13 novembre e hanno seguito diraspatura e successiva macerazione in 7 lune di anfora di gres e uova di cemento, durante le quali si sono svolte le principali fermentazioni spontanee alcolica e malolattica. Zero aiuto da anidride solforosa o altre componenti chimiche: alla svinatura e torchiatura di maggio il vino è ritornato negli stessi vasi vinari per 9 mesi e imbottigliato senza nessuna filtrazione, presentato in commercio a giugno 2023 per sole 583 bottiglie numerate.

Quando si crede (sbagliando) sulla stranezza di simili espressioni, alla fine sei costretto a fare ammenda ritornando sui tuoi passi. Non affrontiamo minimamente la tematica del colore, un mix tra ambra lucente e topazio lievemente velato che poco importa ai fini della degustazione. La bellezza del Pelós 2021 sta tutta nella bocca! Possente, fruttata, con quegli aromi tipici di chi sa cosa sia lavorare una delle varietà a bacca bianca più interessanti e avvincenti del mondo enologico.

Le naunce da pesca matura e albicocca, seguite da una vena mediterranea goduriosa tra salvia e tiglio, che chiosa verso mandorla disidratata e nocciola tostata raccontano la completezza del quadro dipinto dal Fiano. Tra mille lo si riconoscerebbe senza esitazioni.

E per un degno re della tavola, non potevano mancare altrettante proposte culinarie dello staff di Carla D’Acunto, come il calamaretto cotto alla piastra con cipolla fresca o gli gnocchetti fatti in casa al sugo di molluschi e pecorino grattuggiato.

Due esempi di perfetto abbinamento, di armonia e di equilibrio esaltati dalla sapidità finale del vino con quella mordenza data dalla macerazione e la morbidezza della vendemmia in surmaturazione.

Si può essere ottimi profeti in patria, basta giocare tra gusto e semplicità.

Ristorante Mediterraneo a Salerno
Via M. Testa, 31
Tel. 089 296 2405
Chiuso il lunedì

Il Nihonshu (Sakè Giapponese) incontra l’arte in cucina di Giuseppe Molaro chef del Contaminazioni Restaurant a Somma Vesuviana

di Gaetano Cataldo

Ci sono indubbiamente artigiani della cucina che la fermentazione ce l’hanno nel sangue. Giuseppe Molaro, chef e titolare del Contaminazioni Restaurant di Somma Vesuviana, è uno di loro, tanto più che è tra le espressioni campane dell’avanguardismo culinario e delle fusioni di sapori.

L’impiego della fermentazione lattica in cucina, per quanto anticamente la sua conoscenza fosse già nota e praticata nel Mediterraneo ai fini di accrescere la durabilità dei cibi, ha il dono di imprimere una marcia in più dal punto di vista gustativo e una spiccata raffinatezza alle pietanze, per non parlare della biodisponibilità, componente indispensabile a rendere gli alimenti più assimilabili dal nostro organismo.

Nel panorama della ristorazione gourmet tra gli interpreti più giovani e di maggiore rilevanza vi è proprio Giuseppe Molaro: classe 1986, originario di Somma Vesuviana, un piccolo borgo della provincia di Napoli alle pendici del Vesuvio. Terra rigogliosa e dai sapori intensi, quasi vulcanici, nella quale è tornato dopo oltre un decennio di vita professionale spesa in giro per mezzo mondo… vita in cui non sono mancati i sacrifici e neanche il successo.

Il sorriso genuino e sincero, la sua modestia e la delicatezza nei modi celano in realtà una personalità della gastronomia del tutto singolare e dalle spalle decisamente larghe in quanto a profondità di studio, di pratica e di esperienza: diplomatosi presso l’Istituto Alberghiero “Lorenzo De’ Medici” di Ottaviano, dopo aver mosso i primi passi nell’attività familiare in Campania ed in diverse aree in Italia, ha viaggiato e lavorato in strutture di altissimo livello tra Irlanda, Portogallo, negli Emirati Arabi ed, in maniera particolarmente significativa, in Giappone. Ha collaborato col maestro Heinz Beck, partendo naturalmente proprio dal ristorante La Pergola a Roma, tre Stelle Michelin, nel settembre del 2010 e, via via, in tutti gli altri stellati del gruppo. Dopo innumerevoli riconoscimenti sarà proprio all’Heinz Beck Restaurant di Ōtemachi, nel distretto di Chiyoda a Tokyo, che Giuseppe maturerà l’ambitissima stella nel ruolo di Executive Chef.

Una vita in viaggio attraverso culture gastronomiche diverse, ritmi di lavoro impegnativi in ambienti ad altissima competitività che diventano, se possibile, ancora più estenuanti quando si vive lontano da casa. Ma i tratti della personalità di Giuseppe sono fatti anche di resilienza, audacia e sensibilità, quei tratti tipici del giocatore leale che coniuga il sorriso allo sforzo della partita e che alla fine vince col garbo e la gentilezza.

Non di meno la sua cucina è audace per sperimentazione, razionale nel paring di accostamenti desueti, delicata nella fusione dei sapori ed elegante nel food deisgn.

Rientrato in Italia con sua moglie Yuki Mitsuishi crea Contaminazioni Restaurant nella città che lo ha visto crescere, location di appena 20 coperti con una cucina a vista ubicata proprio all’ingresso, che costituisce l’anima del locale. Un’anima da cui traspare ogni singolo movimento e passaggio atto a creare estetica e sostanza, proprio dinanzi agli occhi degli ospiti che si riservano di ammirare Giuseppe in pieno svolgimento del servizio, da una postazione davvero speciale: lo chef’s table.

L’intuito, la creatività, la sperimentazione ponderata, il forte legame di Giuseppe con la sua terra di origine e il Giappone, Paese di adozione, sono stati i presupposti perché si instaurasse un piacevole dialogo sul nihonshu con una ricetta inedita abbinata specificamente allo Houraisen Junmai Ginjo Wa della Sekiya Brewery nella prefettura di Aichi, una delle aree che, durante i suoi viaggi più gli è rimasta impressa.

Con le variazioni cromatiche del colore arancio della salsa di carote in odore di timo, olio alla cipolla ed aceto di ciliegie, unitamente al rubino intenso della salsa di mirtilli latto-fermentati, si presenta la sua indivia cotta sottovuoto con sale e maggiorana, poi saltata ed arricchita con crumble di pane raffermo, arricchito da brodo di pesce e poi tostato in soffritto di cipolle, acciughe sott’olio, timo, con foglie di mizuna a guarnire il tutto. Elementi che da soli sarebbero potenti, in questo piatto si fondono in un delicato abbraccio gustativo e trovano nell’Houraisen Junmai Ginjo.

Ricercato e armonico, grazie alle suadenti note fruttate di pesca e banana, il floreale del gelsomino e la sensazione cerealicola di riso stagionato, che al sorso rivelano freschezza e rotondità con un pizzico di umami ed una persistenza che non prevarica affatto quella del piatto proposto.