Letture per l’estate: Tra Ghiaccio e Bicchieri di Gabriele Palumbo

Durante la manifestazione Aperitivo Festival svoltosi a Milano dal 26 al 28 maggio al NhOW in via Tortona ho avuto il piacere di conoscere un bar tender d’eccezione, Gabriele Palumbo. Sono rimasta affascinata dai suoi gesti, dalla sua affabilità e della passione, mentre con il bicchiere miscelava per me qualcosa di veramente nuovo e interessante!

Ho avuto la possibilità di scambiare due parole con lui e di venire a conoscenza del libro che ha pubblicato, intitolato “Tra Ghiaccio e Bicchieri”: una lettura che ho gradito particolarmente, sia per il tema trattato, sia per lo stile con cui è stato scritto.

Gabriele è ligure, di Albenga, e ha circa trent’anni: sin da ragazzo ha lavorato nei bar e ha iniziato il suo percorso con gli studi presso l’istituto alberghiero, aprendo la possibilità di numerose esperienze in giro per l’Italia. Le sue capacità e la sua sensibilità lo hanno portato a svolgere il ruolo di bartender in prestigiosi locali, nonché formatore ai corsi specializzati e Brand Ambassador, sempre nel mondo della miscelazione.

Il libro apre con una affermazione: il gusto è memoria dell’uomo, una memoria storica e di costume.

Un concetto che viene motivato dall’evidenza che il gusto ci riporta a un preciso momento storico ma anche alle abitudini di un’epoca, come per esempio le pennette panna e salmone ci fa immediatamente scivolare con la macchina del tempo negli anni Ottanta.

Nelle duecento pagine che seguono i ringraziamenti e la prefazione vengono raccontati 21 cocktails internazionali: si parte dalla Caipirinha e si arriva al mitico Gin Tonic.

La narrazione in forma di romanzata riporta inoltre  la data di nascita e le dosi necessarie per la realizzazione del drink: un viaggio affascinante in cui incontriamo Henrique, Juliana , Rubens e don Rafael Gomes in Brasile, Jerry Thomas e il suo Whiskey Sour a New York,  i fratelli Barbieri, Leonardo e lo spritz a Venezia…

Un libro che si divora perché riesce ad avvolgere il lettore nell’atmosfere e nell’epoche in cui  ogni cocktail viene ambientato: un regalo sicuramente azzeccato per un amico curioso e un compagno per l’estate davvero perfetto.

Tra Ghiaccio e Bicchieri – Storie parzialmente scremate di varia umanità, di “spiriti” che miscelarono e di spiriti miscelati.

Autore: Gabriele Palumbo Book Sprint Edizioni

L’affinamento subacqueo dei vini: solo una “bolla” di profondità o c’è del vero? Ne parliamo con Marco Bacci ed il suo Talamo a Mare

Non ci nascondiamo mai e non lo faremo neanche stavolta parlando di un argomento alquanto delicato degli ultimi tempi: l’affinamento subacqueo dei vini.

Lo facciamo con un imprenditore dalla visione a dir poco lungimirante, Marco Bacci, le cui prodezze in campo vitivinicolo (dopo quelle dell’alta moda), hanno raggiunto vertici assoluti di eccellenza e qualità. Di lui, e del sogno nato in una delle cantine del Gruppo, quella di Terre di Talamo, ce ne ha già parlato la collega Augusta Boes nell’articolo Toscana: “Talamo a Mare” il bordolese di profondità.

Ciò che invece cercheremo di affrontare quest’oggi con il Direttore di 20Italie Luca Matarazzo e l’autore Alberto Chiarenza, è il tema scottante dello sdoganamento di una pratica divenuta ormai materia d’uso comune.

La sosta del vino in bottiglia, a profondità e condizioni determinate, può influire realmente sulla sua maturazione o resta confinata nei canoni di una semplice pratica commerciale?

Bene o male purché se ne parli dicevano ai tempi della Prima Repubblica; non vogliamo limitarci a un ostracismo incondizionato, ma anzi cercare di aprire gli occhi su un movimento in crescita e in totale fermento (mai termine fu più azzeccato).

Si attendono i risultati imminenti del lavoro pionieristico compiuto da una giovane start-up siciliana, grazie all’appoggio incondizionato dei brand Benanti e Passopisciaro, con il progetto Orygini in collaborazione con l’Università di Catania. Un controllo meticoloso e costante suddiviso in 14 parametri effettuato per durate variabili dai 6 ai 24 mesi su un campione di bottiglie immerse a 48 metri di profondità nei pressi dell’Area Marina Protetta Isole dei Ciclopi, tra Aci Trezza e Aci Castello. Per intanto dobbiamo accontentarci di uno studio già pubblicato dalla società Lyfe Cicle engineering sull’importante riduzione di CO2 (per 1000 bottiglie circa 680 kg) e sul risparmio di risorse energetiche e logistiche.

Al resto manca una nostra valutazione empirica per comprendere le effettive potenzialità, contando sulla correttezza e buona fede degli attori in gioco, elemento essenziale per scrivere un articolo. Lo faremo nel confronto di due annate, la 2018 e 2019, degustate in parallelo tra affinamento classico e affinamento marino.

Il vino di punta di Terre di Talamo, è un blend di quattro vitigni in pari percentuale di Merlot, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon e Syrah. Il desiderio era quello di realizzare un Supertuscan, riuscito davvero bene. I quattro vitigni risultano integrati e si percepiscono, di ognuno, le sue peculiarità. Ma Marco Bacci è anche amante del mare, navigante e sommozzatore con esperienze in ogni angolo del mondo, e in una occasione, dopo aver lasciato alcune bottiglie di Talamo nella sentina della sua barca, decide di stapparne una accorgendosi della differenza nell’evoluzione del vino. Si chiede, esattamente come noi, cosa farà migliorare la qualità del prodotto e, andando per tentativi, trova la quadra giusta a 35 metri sotto il livello del mare.

L’annata 2018 ritornerà alla luce dopo due anni, insieme alla 2019 che è rimasta tra le creature marine per la metà del tempo. E’ così che da una linea, ne sono state create due. Stesso vino, ma affinamenti completamente diversi. Talamo matura in cantina e Talamo a Mare, appunto, sul fondale marino in una zona che si trova tra il Monte Argentario e l’Isola di Giannutri.

Le nostre valutazioni finali

Diciamo subito che il prodotto è di una qualità straordinaria già prima di scegliere il suo percorso finale in bottiglia. Si percepiscono lievi differenze solo nella tonalità del colore, più scuro e intenso quello da affinamento subacqueo.

Per il resto, nella 2018 non segnaliamo altre particolarità: i vini sembrano quasi identici nelle loro espressioni organolettiche. Forse più verde e tagliente il Talamo a Mare, che denota, in prospettiva, maggior possibilità di resistere al tempo.

Nella 2019 le diversità si acuiscono, con la versione classica declinata su sensazioni boisée e quella proveniente dai fondali marini molto verticale e sanguigna. Annotiamo, infine, che nel calice le sfumature diventano sottili con il passare dei minuti, andandosi a riequilibrare pian piano con la giusta attesa. Sintomo che le basi solide emergono sempre, come i cavalli di razza. Nella verve iniziale probabilmente conta la variazione di maturazione, ma nella lunghezza di bocca dei due prodotti, in entrambe le annate, tutto sembra coincidere. L’unica cosa è il prezzo, triplicato nella versione da affinamento subacqueo, anche per l’esiguo numero di bottiglie.

Ringraziamo il padrone di casa Marco Bacci per essersi sottoposto al vaglio della stampa con la stessa voglia di apprendere e di trovare risposte. Speriamo di confrontarci con lui nuovamente in futuro, magari con i primi dati scientifici disponibili al mondo, per sdoganare finalmente la filosofia degli underwater wines.

Degustazione presso Les Grands Crus: un format innovativo in questo settore

Con amici e colleghi con i quali condivido la passione per il nettare di Bacco e dietro gentile invito di Simone Tabani, agente di Les Grands Crus per l’area di Siena e provincia, ho partecipato ad una degustazione di vini presso la sede di Magione (PG), piccolo  borgo posto a poca distanza da Perugia e dal Lago Trasimeno. 

Ha guidato la degustazione il dinamico Andrea Forestiero, titolare di Les Grands Crus, società che propone un nuovo format nel mondo della distribuzione, con l’obiettivo di rappresentare aziende di nicchia, talvolta di piccole dimensioni. Tradotto in termini pratici, si segue il concetto di bevibilità, sapidità e piacevolezza. I vini selezionati, per poi essere commercializzati in Italia, provengono da ogni regione del Belpaese e dalle migliori aree vitivinicole del mondo.

Otto gli assaggi che mi hanno maggiormente colpito

Falkenstein Pinot  Bianco  Riserva  2021 Duernberg – veste dorata dalle note di fiori di campo, nocciola, pere mature, ananas, arancia, cremoso e corposo. Piacevolmente fresco con lungo finale minerale.

Cima Vigneto Alto Vermentino Candia dei Colli Apuani Doc 2021 – Giallo paglierino luminoso, subito si percepiscono note di fiori di camomilla, pesca, ananas e agrumi. Sorso vibrante e sapido. 

Gavi La Meirana 2022 Broglia – Paglierino dalle sfumature verdoline, rimanda a note di tiglio, zagara, mela, melone e nuances agrumate sul finale. Gusto sapido, rinfrescante e ammaliante

Scarpe  Toste Unplugged Vino Bianco Cantina Le Macchie – Ottenuto da uve Gewürztraminer dal riverbero color ambra, sprigiona al naso sbuffi di fiori d’arancio, rosa rossa, datteri e spezie dolci. Equilibrio tra freschezza e sapidità, dura a lungo.

Vigneto del Balluccio Verdicchio dei Castelli di Jesi Doc Classico Superiore 2020 – Tenuta dell’Ugolino – Tenue su riflessi verdolini, si esalta tra pesca matura, susina, camomilla, tiglio e arancia tarocca. Vibra su finale di mandorla dolce.

Chianti Classico 2020 Podere Castellinuzza – Rubino lucente, all’olfatto emana note di marasca, viola mammola, scorza d’arancia e rabarbaro, Bocca avvolgente e fine.

Carmione Carmignano DOCG  2021 Fabrizio Pratesi (Sangiovese 70% Cabernet Sauvignon 15% Cabernet Franc 5% Merlot 10%) – Granato scuro, dai sentori di crème de cassis, more selvatiche, amarene e spezie dolci. Struttura potente ed equilibrata, tannini di corpo e ben integrati, dalla chiusura gradevole.

Hocheck Pinot Nero Riserva 2020 Duernberg – Rubino esuberante, al naso declina note di gelsomino, lampone, amarena, scorza d’arancia e sottobosco. Carezzevole e setoso, leggiadro e incredibilmente durevole.

Les Grands Crus Srl
Sede operativa:
Via L. Ariosto, 45/47
06063 Magione (Perugia)
Italia
Tel. +39 075.8241834

Kasanna a Sala Consilina (SA): il Vallo di Diano conosce un maestro dell’affinamento formaggi

Nicola Memoli, professione affinatore di formaggi a pasta molle e crosta fiorita con la sua azienda Kasanna a Sala Consilina (SA).

Nicola Memoli che di anni ne ha 48, pur sembrando ancora un giovane virgulto, ha ormai collezionato un’esperienza nel settore che lo vede protagonista sulle tavole d’Italia e di molti Paesi europei. Essere affinatore di formaggi richiede voglia continua di sperimentare, adottando lavorazioni e materie prime che non alterino eccessivamente i sapori d’origine. Il nome dell’azienda a conduzione familiare è dedicato alle sue 3 figlie, utilizzando l’acronimo dei nomi Karol, Sara e Annalisa.

Nicola Memoli – Kasanna

Non basta una grotta a fare un eremita, e neppure basta per ricreare quel mistero nel quale i maestri italiani primeggiano. All’estero è praticamente una rarità l’esercizio di tale professione, ma lungo lo stivale della nostra Penisola siamo autentici fuoriclasse. L’Affinatore fa il possibile per continuare a mantenere il profilo originale del formaggio, facendo attenzione ad abbinare le spezie, gli aromi o le erbe, con lo scopo di esaltare la materia prima quando il processo sarà terminato, sperimentando idee nuove, ma rispettose.

Nicola era partito, 10 anni orsono, dalla stagionatura del caciocavallo, per tentativi, fino a giungere al suo piccolo capolavoro: un caciocavallo al tartufo con riposo in botte di rovere contenente fieno per una durata media dai 4 ai 6 mesi di cantina. Non si sentiva soddisfatto del livello ormai raggiunto e, sconvolgendo ogni suo proposito, decise nel 2015 di selezionare latte di pecora e capra per affinare i formaggi a pasta molle e crosta fiorita.

E adesso? Memoli è arrivato alla cifra di ben 22 prodotti diversi, alcuni premiati dalla critica gastronomica, come l’elisir di fragole al rosmarino, oppure un formaggio a crosta fiorita con colatura di alici e scorzette di limone o, infine, vari tipi di affinamento nel vino, utilizzando l’Aglianico possente e tannico, sulla scorta dell’antica ricetta romana del mulsum.

A proposito di territorio, Kasanna propone, principalmente tra i comuni del Vallo di Diano, (estendendosi a volte lungo l’intero areale del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano e Alburni), una sorta di “aperitivo itinerante”, fruibile da chi ne segue i canali social, entrando a far parte del gruppo di watsapp. Una sorta di flash mob organizzato all’improvviso sulla base di un certo numero di adesioni con indicazione di una data papabile.

Il luogo dell’evento viene scelto all’ultimo momento tra una lista di strutture disponibili. L’idea è quella di far da punto di ritrovo per persone di diversa estrazione e cultura e parlare delle bellezze artistiche ed enogastronomiche del luogo, con la partecipazione di altri caseifici e produttori di vino, companatico ideale per le nostre migliori espressioni casearie.

Kasanna

Salita Guerrazzi, 5

84036 Sala Consilina Italia

“A cena con l’enologo”: Sergio Pappalardo ci racconta il suo Fiano Pelós al Ristorante Mediterraneo a Salerno

di Luca Matarazzo

Nemo profeta in patria. Lo so, a volte mi rendo conto di essere ripetitivo col passare degli anni. Eppure credo sempre di più nella verità storica di questo motto latino: nessuno è profeta in patria, ovvero pochi sanno esaltare le bellezze che abbiamo a due passi dai nostri occhi.

Una di queste è il Ristorante Mediterraneo a Salerno di Carla D’Acunto, giunto ormai alla prima decade dal giorno dell’apertura, motivo dell’incontro a cena con l’enologo (e produttore) Sergio Pappalardo per la presentazione, in esclusiva per 20Italie, del suo Pelós 2021 da uve varietà Fiano.

L’affabile Carla ci accoglie con quel sorriso che solo i grandi del mestiere sanno esprimere. Non un gesto di semplice cortesia, quanto il modo migliore per dirti “benvenuto a casa mia”. Dimentichiamo spesso l’importanza di ricevere un simile trattamento nell’avvicinarci a un esercizio pubblico o comunque vogliate chiamarlo. Ma dalla forma bisognerà poi passare alla sostanza e di questo ne parleremo a breve.

Cominciamo, invece, con raccontare il progetto di Sergio Pappalardo, esperto enologo che ha deciso di cimentarsi in prima persona nel duro mestiere di vigneron. Nel 2018 prende in gestione una vigna a Sorbo Serpico a 500 metri d’altitudine, in Contrada Pascone. Il materiale d’inizio era buono, piante di Fiano del 1994 che però necessitavano di giusta cura e attenzione.

Anche perché Sergio è da solo e deve occuparsi di ogni aspetto produttivo, persino l’etichetta per il suo vino. I suoli sono argillosi, puntati a forte pendenze con rischio continuo di dilavamento a valle durante le piogge. Motivo ulteriore per dover seguire la vigna come un bambino ai primi passi con la mano del buon padre di famiglia.

Ma cosa farne, esattamente, dei grappoli splendidi e luminosi vendemmiati da tale appezzamento? Pappalardo non esita un secondo, seguendo la propria filosofia produttiva improntata sulla ricerca delle pratiche rispettose dell’ambiente e della natura.

Permettetemi, dunque, un lieve brivido pensando ad altre esperienze fallimentari o alla grande confusione esistente attorno al concetto di vino naturale. Tralasciando il termine in sé, bisogna provare per credere, tastare nel calice il prodotto nato da tanta selezione e sacrificio e capire che non possiamo mai avere preconcetti, ma solo verifiche tecniche di chi lavora bene… e chi no.

Le uve scelte per il Pelós 2021 sono state raccolte tardivamente tra il 30 ottobre e il 13 novembre e hanno seguito diraspatura e successiva macerazione in 7 lune di anfora di gres e uova di cemento, durante le quali si sono svolte le principali fermentazioni spontanee alcolica e malolattica. Zero aiuto da anidride solforosa o altre componenti chimiche: alla svinatura e torchiatura di maggio il vino è ritornato negli stessi vasi vinari per 9 mesi e imbottigliato senza nessuna filtrazione, presentato in commercio a giugno 2023 per sole 583 bottiglie numerate.

Quando si crede (sbagliando) sulla stranezza di simili espressioni, alla fine sei costretto a fare ammenda ritornando sui tuoi passi. Non affrontiamo minimamente la tematica del colore, un mix tra ambra lucente e topazio lievemente velato che poco importa ai fini della degustazione. La bellezza del Pelós 2021 sta tutta nella bocca! Possente, fruttata, con quegli aromi tipici di chi sa cosa sia lavorare una delle varietà a bacca bianca più interessanti e avvincenti del mondo enologico.

Le naunce da pesca matura e albicocca, seguite da una vena mediterranea goduriosa tra salvia e tiglio, che chiosa verso mandorla disidratata e nocciola tostata raccontano la completezza del quadro dipinto dal Fiano. Tra mille lo si riconoscerebbe senza esitazioni.

E per un degno re della tavola, non potevano mancare altrettante proposte culinarie dello staff di Carla D’Acunto, come il calamaretto cotto alla piastra con cipolla fresca o gli gnocchetti fatti in casa al sugo di molluschi e pecorino grattuggiato.

Due esempi di perfetto abbinamento, di armonia e di equilibrio esaltati dalla sapidità finale del vino con quella mordenza data dalla macerazione e la morbidezza della vendemmia in surmaturazione.

Si può essere ottimi profeti in patria, basta giocare tra gusto e semplicità.

Ristorante Mediterraneo a Salerno
Via M. Testa, 31
Tel. 089 296 2405
Chiuso il lunedì

Il Nihonshu (Sakè Giapponese) incontra l’arte in cucina di Giuseppe Molaro chef del Contaminazioni Restaurant a Somma Vesuviana

di Gaetano Cataldo

Ci sono indubbiamente artigiani della cucina che la fermentazione ce l’hanno nel sangue. Giuseppe Molaro, chef e titolare del Contaminazioni Restaurant di Somma Vesuviana, è uno di loro, tanto più che è tra le espressioni campane dell’avanguardismo culinario e delle fusioni di sapori.

L’impiego della fermentazione lattica in cucina, per quanto anticamente la sua conoscenza fosse già nota e praticata nel Mediterraneo ai fini di accrescere la durabilità dei cibi, ha il dono di imprimere una marcia in più dal punto di vista gustativo e una spiccata raffinatezza alle pietanze, per non parlare della biodisponibilità, componente indispensabile a rendere gli alimenti più assimilabili dal nostro organismo.

Nel panorama della ristorazione gourmet tra gli interpreti più giovani e di maggiore rilevanza vi è proprio Giuseppe Molaro: classe 1986, originario di Somma Vesuviana, un piccolo borgo della provincia di Napoli alle pendici del Vesuvio. Terra rigogliosa e dai sapori intensi, quasi vulcanici, nella quale è tornato dopo oltre un decennio di vita professionale spesa in giro per mezzo mondo… vita in cui non sono mancati i sacrifici e neanche il successo.

Il sorriso genuino e sincero, la sua modestia e la delicatezza nei modi celano in realtà una personalità della gastronomia del tutto singolare e dalle spalle decisamente larghe in quanto a profondità di studio, di pratica e di esperienza: diplomatosi presso l’Istituto Alberghiero “Lorenzo De’ Medici” di Ottaviano, dopo aver mosso i primi passi nell’attività familiare in Campania ed in diverse aree in Italia, ha viaggiato e lavorato in strutture di altissimo livello tra Irlanda, Portogallo, negli Emirati Arabi ed, in maniera particolarmente significativa, in Giappone. Ha collaborato col maestro Heinz Beck, partendo naturalmente proprio dal ristorante La Pergola a Roma, tre Stelle Michelin, nel settembre del 2010 e, via via, in tutti gli altri stellati del gruppo. Dopo innumerevoli riconoscimenti sarà proprio all’Heinz Beck Restaurant di Ōtemachi, nel distretto di Chiyoda a Tokyo, che Giuseppe maturerà l’ambitissima stella nel ruolo di Executive Chef.

Una vita in viaggio attraverso culture gastronomiche diverse, ritmi di lavoro impegnativi in ambienti ad altissima competitività che diventano, se possibile, ancora più estenuanti quando si vive lontano da casa. Ma i tratti della personalità di Giuseppe sono fatti anche di resilienza, audacia e sensibilità, quei tratti tipici del giocatore leale che coniuga il sorriso allo sforzo della partita e che alla fine vince col garbo e la gentilezza.

Non di meno la sua cucina è audace per sperimentazione, razionale nel paring di accostamenti desueti, delicata nella fusione dei sapori ed elegante nel food deisgn.

Rientrato in Italia con sua moglie Yuki Mitsuishi crea Contaminazioni Restaurant nella città che lo ha visto crescere, location di appena 20 coperti con una cucina a vista ubicata proprio all’ingresso, che costituisce l’anima del locale. Un’anima da cui traspare ogni singolo movimento e passaggio atto a creare estetica e sostanza, proprio dinanzi agli occhi degli ospiti che si riservano di ammirare Giuseppe in pieno svolgimento del servizio, da una postazione davvero speciale: lo chef’s table.

L’intuito, la creatività, la sperimentazione ponderata, il forte legame di Giuseppe con la sua terra di origine e il Giappone, Paese di adozione, sono stati i presupposti perché si instaurasse un piacevole dialogo sul nihonshu con una ricetta inedita abbinata specificamente allo Houraisen Junmai Ginjo Wa della Sekiya Brewery nella prefettura di Aichi, una delle aree che, durante i suoi viaggi più gli è rimasta impressa.

Con le variazioni cromatiche del colore arancio della salsa di carote in odore di timo, olio alla cipolla ed aceto di ciliegie, unitamente al rubino intenso della salsa di mirtilli latto-fermentati, si presenta la sua indivia cotta sottovuoto con sale e maggiorana, poi saltata ed arricchita con crumble di pane raffermo, arricchito da brodo di pesce e poi tostato in soffritto di cipolle, acciughe sott’olio, timo, con foglie di mizuna a guarnire il tutto. Elementi che da soli sarebbero potenti, in questo piatto si fondono in un delicato abbraccio gustativo e trovano nell’Houraisen Junmai Ginjo.

Ricercato e armonico, grazie alle suadenti note fruttate di pesca e banana, il floreale del gelsomino e la sensazione cerealicola di riso stagionato, che al sorso rivelano freschezza e rotondità con un pizzico di umami ed una persistenza che non prevarica affatto quella del piatto proposto.

MALVASIA un diario mediterraneo – presentazione del libro di Paolo Tegoni

di Maura Gigatti

Presentazione del libro dedicato al frutto a bacca bianca del docente di enogastronomia Paolo Tegoni a Ozzano Taro (PR) presso la cantina Monte delle Vigne, azienda rappresentante e portavoce della Malvasia, un vitigno di origine greca che per la grande qualità fu presto commercializzato dai veneziani durante la Serenissima.

Ed è proprio il viaggio verso la Grecia (e non solo) che intraprende Paolo Tegoni, attraverso i racconti e le realtà di piccoli produttori a cui si rivolge andandoli a trovare, pronti a introdurre le loro malvasie nel libro che odorano di mare, sole e calore. 

Il pubblico giornalistico applaude alla passione trasmessa, pronti a conoscere le varie interpretazioni della Malvasia, frizzante, ferma, dolce abbinare ai piatti dello chef Mariano Chiarelli patron dell’Antico Casale situato sulla piccola collina sopra l’azienda. 

Il sipario si alza con la verticale di Callas, Malvasia di Candia aromatica ottenuta dalla selezione dei migliori grappoli dal vecchio vigneto Montebianco e vinificata in acciaio (dalla vendemmia 2020 una parte  sarà dedicata all’anfora). 

La degustazione prende vita con la 2005, l’annata più vecchia della serie sino alla 2017.

Annate dalla propria grande personalità di espressione e di longevità, mostrando ai più scettici che il tempo regala evoluzione, ma sopratutto l’anima e la vitalità della Malvasia. Un vino che per tradizione si beve nella versione frizzante ma la grande polivalenza è il suo punto di forza, rendendolo un vino eclettico. 

“Parlare e far parlare della Malvasia” soprattutto comunicare e far comunicare agli addetti al settore  Horeca l’eccellenza del vitigno abbinato al caratteristico territorio parmense, sono le parole di Lorenzo Numanti amministratore delegato di Monte delle Vigne, mentre Andrea Bonini, agronomo, spiega che è molto importante lavorare in campagna, portare uve sane in cantina che avranno macerazioni lunghe, ricche di estrazione. Uve che diventeranno Callas, in onore della più importante soprano italiana di origine greca come la Malvasia. 

Callas 2005 

Materico e gastronomico, note terziarie di caffè e tartufo. Ampio e suadente il palato, agile al sorso, cremoso il finale con rintocchi di uva sultanina, fieno secco in buono stato complessivo. 

Callas 2008

La star assoluta introdotta da un naso complesso e variegato. Elegantemente… elegante!!

Callas 2011

Riconduce verso idrocarburi, sviluppi balsamici, miele. Giusto l’equilibrio. 

Callas 2015

Articolato nel porsi al calice. Iris, miele, poi di nuovo sbuffi timidi e socchiusi di fiori bianchi. 

Callas 2017

Solare e raggiante, mostra la verve accattivante dell’essere Malvasia. Finale su nuance erbacee.

Romagna: Raffaella Bissoni la “fata” delle vigne

di Matteo Paganelli

È sempre un piacere andare a trovare Raffaella in quel di Casticciano (piccola frazione ai piedi di Bertinoro), ma forse in questa occasione è ancora più piacevole poterla riabbracciare dopo i recenti disagi causati dalle alluvioni in Romagna.

Raffaella, infatti, aveva da poco finito di liberare la strada sterrata che separa quella principale dalla sua proprietà. Sono 4 in tutto le frane che l’hanno colpita spiega, indicandoci una parte smottata, tipologia di frane generate perché la terra nel sottosuolo non riesce ad assorbire l’acqua con la stessa velocità di quella in superficie. Si viene quindi a creare una sorta di cuscino d’acqua che spinge verso l’alto e causa lo scivolamento del terreno.

Raffaella Bissoni

Raffaella non esita un istante e inizia a raccontarci di natura. Ci fa notare ad esempio, che alle sue spalle c’è una tipologia di pianta da siepe (Viburnum Tinus) che fiorisce a fine febbraio e quindi molto utile sia per gli insetti che trovano già i fiori che è praticamente ancora inverno, sia per gli uccelli, i quali mangiando le bacche poi le digeriscono portando le sementi ovunque. “Io ne ho a decine e decine ovunque” dice Raffaella, mentre indica con la mano i vari punti in cui la siepe si è propagata tutt’intorno.

Quando la Bissoni arrivò a Bertinoro non aveva mai praticato la scienza agronomica prima di allora. Venne da una storia di paese, di quelle come ce ne sono tante. Si è letteralmente innamorata delle colline che le permettevano una visione allargata del paesaggio a dir poco rassicurante. Un paesaggio privo di illuminazione artificiale notturna, perché “la natura ha bisogno di avere la luce di giorno e il buio di notte”, il che permette anche una catena alimentare nel mondo animale e degli insetti più equilibrata (la tignola, ad esempio, si moltiplica a dismisura nei territori con un eccessivo inquinamento luminoso).

Sono tante le filosofie che Raffaella ha fatto sue e mette in campo: la permacultura, l’agricoltura rigenerativa, l’agromeopatia, la biodiversità: tutto ciò che possa permetterle di capire meglio come funziona la natura e quindi anche di rispettarla maggiormente. Quest’ultima, la biodiversità, ovvero la perfetta convivenza fra animali, insetti, piante e persone, va a influire sui vini. Le piante, convivendo in modo integrato con gli altri fattori, aumentano la loro resilienza e sono in grado di dare prodotti con maggiori complessità. Tutto ciò che vediamo in Raffaella è spontaneo, senza che ci sia stato un intervento umano di integrazione.

Ma veniamo alla degustazione: Raffaella ci ha preparato una memorabile verticale di Girapoggio, il suo Romagna DOC Sangiovese Superiore, nelle annate dalla 2020 alla 2010.

Batteria 1: Annate 2020, 2019, 2018, 2017, 2016

2020

Materico, dal colore trasparente e riflessi rubino. Al naso colpisce un’impronta fresca di menta nepitella, mentre il frutto è agrumato su note di pompelmo rosa e il floreale richiama i petali di rosa rossa. In bocca è agile con un tannino veramente piacevole frutto di una maturazione fenologica ben centrata.

2019

La rotazione del calice rivela una consistenza maggiore rispetto al campione precedente e l’olfatto è quasi ematico con richiami di sottobosco e corteccia. Riconoscibili ciliegia scura e fiore di papavero. In bocca domina la freschezza invitante e la struttura conferma il tutto.

2018

In quest’annata ritornano le note di menta miste a terra e sottobosco. Ciliegia rossa e fragrante, e un frutto che vira su lampone e fragoline di bosco. La rosa canina completa il bouquet floreale. Rispetto ai precedenti l’acidità scende andando a perdurare in un notevole equilibrio, merito anche del tannino delicato e appena percettibile.

2017

Naso polveroso e austero. Il vegetale passa al secco così come il floreale che diventa appassito. L’annata calda la si percepisce dalla nota calorica ben avvertibile che ci ricorda il tipico “mon chéry”. Si rivela comunque il più interessante della batteria, con sentori di crema di caffè, balsamico, tostatura, foglia di tabacco. Intrigante.

2016

Annata è sinonimo di grande evoluzione. Colore che inizia a virare su note granate. Frutta matura riconducibile come l’amarena, finalmente la viola mammola identificativa del Sangiovese. Completano il corredo aromatico timo, rosmarino, caffè e cioccolato. In bocca è integro e perfettamente bilanciato. Colpisce per lunghezza.

Batteria 2: Annate 2015, 2014, 2013, 2012

2015

Per questa seconda batteria i colori iniziano a virare sul granato non perdendo però in trasparenza. Ciliegia sotto spirito, fiori rosa appassiti, caramello, torrefazione e nota fungina. Entra al palato deciso e teso: nonostante l’invecchiamento la freschezza è invidiabile.

2014

Questo non sembra neppure un Sangiovese. Alla cieca, qualsiasi esperto potrebbe affermare di trovarsi di fronte a un Borgogna compassato. Pesca melba, artemisia a tratti da vermouth rosso. Sapidità che colpisce.

2013

Al traguardo dei 10 anni, torna la freschezza a farla da padrona. Naso immerso in infusione di erbe aromatiche e speziature accattivanti. Tannino palpabile, essenziale per controbilanciare una notevole rotondità data dalle morbidezze.

2012

Superlativo. Naso elegante e fine, recuperiamo le note di mentuccia che sentiamo anche nelle annate più recenti e le andiamo a completare con agglomerati di spezie. In bocca avvolge come un liquore al cioccolato.

Batteria 3: Annate 2011, 2010

2011

Sugli ultimi esemplari in degustazione i colori diventano granato intenso. Altra annata calda simile alla 2017, che trova riscontro in aromi di frutti rossi in confettura, finocchietto selvatico, cera e caramella mou. In bocca resta timido, non confermando ciò che aveva rivelato il naso. Tannino scontroso.

2010

Sentori nitidi, franchi, puri che toccano tutte le famiglie passando fra marasca, pot-pourri, resina, catrame e liquore di caffè. Sorso vibrante ed energico. Vino complesso. Questa interessante verticale non può far altro che confermare l’encomiabile lavoro di Raffaella dimostrata nell’ottima serbevolezza dei suoi prodotti.

Liguria: l’inaugurazione della nuova Cantina Lunae di Bosoni.

di Olga Sofia Schiaffino

Sabato 10 giugno a Luni (SP) in via Madonnetta 97 la nuova cantina della famiglia Bosoni ha aperto le porte ai giornalisti per la presentazione ufficiale.

Un cielo incerto mi accoglie a Luni; le nuvole grigie creano uno scenografico contrasto con il verde rigoglioso dell’erba e i colori della nuova, bellissima costruzione che ospita la cantina di Bosoni, una vera opera d’arte voluta da Diego Bosoni e progettata insieme al designer fiorentino Andrea Del Sere.

Il viale oltre al cancello mi guida attraverso i filari che presentano i vitigni nativi della zona e mi conduce fino a raggiungere un cortile racchiuso tra muri alti in pietra, ordinati secondo la tradizione ligure: vedo Diego, è molto emozionato ma felice.

L’impatto iniziale evoca una immagine di sacralità del luogo e l’ampia sala dove si entra è stata pensata e realizzata con materiali che richiamano la terra, il lavoro dell’uomo, l’avvicendarsi del tempo, le luci che illuminano in modo diffuso creano una atmosfera di solennità.

Si è voluto realizzare “un progetto urbanistico che si basa su principi sociologici: sono spazi che generano altri spazi, che possono essere ampliati, in cui non esistono barriere tra area di lavoro e di rappresentanza”, come raccontano Diego e Andrea.

Nei locali sotterranei si accede attraverso un corridoio dove si odono i suoni dei lavori nei campi e su di una parte di essi passano le immagini dei collaboratori della famiglia Bosoni dediti alla cura delle vigne e della cantina.

Un trionfo della bellezza, la celebrazione del connubio tra il contadino e la vite in questa terra di Liguria di confine: Paolo Bosoni, il padre di Diego e di Debora, iniziò negli anni Settanta a puntare sul Vermentino e contribuì alla nascita della Doc avvenuta nel 1989.

Al termine della visita abbiamo brindato tutti insieme con il metodo classico Lunae, ottenuto da vermentino e albarola in parti uguali alla intraprendenza e lungimiranza di Diego e della famiglia Bosoni, con l’augurio di un radioso futuro per questa cantina e per il vino ligure.

L e visite saranno aperte al pubblico  a partire dal 1 luglio 2023

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Vini d’Abbazia: una lunga storia dal Medioevo ad oggi

di Silvia De Vita

Per chi ama andare alla scoperta di tradizioni, culture e popoli, il vino consente di intraprendere facilmente viaggi attraverso il tempo, i costumi e i patrimoni intellettuali radicati nella nostra Penisola, (e non solo). L’Italia e l’Europa hanno una lunga storia legata ad abbazie e monasteri e al contributo che essi hanno dato alla salvaguardia della viticoltura tradizionale.

Sin dal Medioevo, le abbazie hanno avuto un ruolo cardinale non soltanto nella produzione di vino per messe e autoconsumo, ma anche nella preservazione dei “cépages” (le varietà d’uva) che altrimenti sarebbero andati persi come ha spiegato Rocco Tolfa, giornalista del Tg2, uno degli ideatori della manifestazione

E’ una storia questa che merita sempre di essere raccontata… ed è successo con la seconda edizione di “Vini d’Abbazia” nella splendida cornice dell’Abbazia di Fossanova – il più antico esempio d’arte gotico-cistercense in Italia, risalente al XII secolo.
Protagoniste dell’evento sono state proprio le abbazie, assieme a monasteri e conventi dislocati su tutto il territorio italiano e francese. Banchi di assaggio di oltre 30 cantine produttrici hanno accompagnato i visitatori, appassionati di vino e operatori del settore, in un viaggio senza confini. Tante etichette provenienti da selezioni curate da religiosi e enologi esperti.

“La scelta delle aziende, come ribadisce Marco De Cave della cooperativa Taste Roots, si è basata sul prestigio e sulla ricerca estenuante. Molte di queste sono tuttora attive, gestite da monaci e suore di diversi Ordini. Altre, lavorano in simbiosi con le abbazie stesse, avendone acquisito le competenze o la gestione diretta. Altre hanno proprio rilevato tali cantine, riprendendo le tradizioni e i progetti locali”.

Ben rappresentato il Lazio, con i vini artigianali del Monastero delle suore Trappiste di Vitorchiano, dell’Abbazia di Valvisciolo di Sermoneta e dell’Abbazia di Casamari a Veroli che domina il torrente Amaseno, e dai vini prodotti nel territorio pontino con le Cantine che aderiscono alla Strada del Vino di Latina: Sant’Andrea, Marco Carpineti, Casale del Giglio, Cincinnato, Pietra Pinta, La Valle dell’Usignolo, Villa Gianna, Donato Giangirolami.

In Campania, la Cantina Feudi di San Gregorio ha voluto dedicare uno dei loro vini più importanti all’Abbazia del Goleto che, fondata nel 1133 a Sant’Angelo dei Lombardi, ha salvato i vitigni autoctoni campani Greco di Tufo, Fiano e Aglianico dalla scomparsa; presente anche Abbazia di Crapolla di Vico Equense.

In Alto Adige, Abbazia di Novacella, quella di Muri-Gries e della Cantina Valle Isarco che cura i vigneti del Monastero di Sabiona; Abbazia di Praglia – Monastero Benedettino della provincia di Padova – e l’Abbazia di Busco del Veneto; l’Abbazia di Rosazzo del Friuli Venezia Giulia, i cui vigneti millenari sono affidati alla Cantina Livio Felluga.

La Toscana è stata rappresentata dalla Badia di Passignano (Abbazia di Vallombrosa), le cui storiche cantine sono in uso da parte della Famiglia Antinori, dall’Abbazia di S. Maria di Monte Oliveto nel Senese, La Pieve di Pievasciata, una delle più antiche del territorio chiantigiano, dal Monastero dei Frati Bianchi di Fivizzano (Massa Carrara), ; mentre l’Umbria e il suo legame tra vino e religione verrà raccontato dall’Azienda Agricola Arnaldo Caprai e dal Monastero di Bose, con le uve coltivate nelle terre del Monastero di San Masseo ai piedi del centro storico di Assisi.

”Le novità di quest’anno sono state diverse, continua Marco De Cave: La presenza delle cantine di abbazie francesi con le quali è nato un gemellaggio proficuo; la collaborazione con Slow Food, con la presenza dei suoi presidi e del suo presidente Carlo Petrini; e la vicinanza al territorio grazie alle diverse iniziative ed experiences connesse in zona”…

Ad arricchire l’evento, inoltre, le diverse Masterclass che si sono susseguite nei 3 giorni.  Di particolare rilievo è stata quella de “I vini autoctoni della provincia di Latina”, alla scoperta di Nero Buono, Bellone, Malvasia Puntinata e Moscato di Terracina condotta magistralmente da Umberto Trombelli, delegato di AIS Lazio- Sez. di Latina.  Marco Caprai, della Cantina Arnaldo Caprai, e Antonio Capaldo, di Feudi di San Gregorio,  esempi di eccellenza italiana nel mondo, per la prima volta insieme, moderati da Isabella Perugini (della Rai), hanno raccontato i loro vini e il legame con le abbazie.

Un’occasione unica per scoprire i “Vini d’Abbazia francesi” è stato l’incontro con l’Associazione Les Vins D’Abbayes.  Inoltre, gli approfondimenti su “La strada del Cesanese”, il vino dei Papi, e su “la cantina Valle Isarco” hanno permesso di conoscere meglio questi territori e le cantine che li rappresentano. Il Consorzio Atina Cabernet DOP ha raccontato l’esperienza della rinascita di un territorio nel cuore della Ciociaria, dove il Cabernet Sauvignon ha trovato il suo habitat già dall’800. Un’opportunità rara è stata la degustazione dei vini naturali del Monastero Trappiste di Vitorchiano, descritti da Giampiero Bea.

Vini d’Abbazia è stata organizzata dall’Associazione Passione di Vino, Taste Roots Soc. Coop., con il Comune di Priverno e la Regione Lazio, ARSIAL, in collaborazione con la Strada del Vino di Latina, Slow Food Lazio, e Slow Wine e Associazione Italiana Sommelier.

Alla prossima edizione!