A Milano si parla dell’Oro verde della Puglia, in collaborazione con Gambero Rosso ed il Consorzio Igp Olio di Puglia

Abbiamo inviato i nostri cronisti Carolina Leonetti e Andrea Russetti a raccontare un evento importante nel panorama della produzione italiana dell’Olio Extravergine d’Oliva. Leggiamone il loro interessante resoconto.

Nella splendida cornice dell’Osteria del Treno, lo scorso 4 Marzo, Gambero Rosso e il Consorzio IGP Olio di Puglia hanno acceso i fari sull’Oro Verde di Puglia, l’Olio Extravergine d’Oliva. Un appellativo pregiato quanto la storia millenaria della coltivazione dell’ulivo in questa regione. Una tradizione produttiva che si tramanda di generazione in generazione.

Grande l’affluenza per le degustazioni, accompagnate da alcune eccellenze gastronomiche del territorio delle aziende: Le 4 Contrade, Il Quadrato Delle Rose, Masseria Cusmai e Masseria Miscioscia, oltre che da alcuni assaggi iconici dell’Osteria e da una bella selezione di vini del territorio del Consorzio Primitivo di Manduria DOP, Salice Salentino DOP e Brindisi DOP.

Un percorso di valorizzazione di questa eccellenza che Maria Francesca Di Martino, Presidente del Consorzio IGP Olio di Puglia, descrive così: “Il nostro Consorzio, in sinergia con Gambero Rosso, sta realizzando, in Italia ed all’estero, una serie di iniziative volte a promuovere il prodotto cardine della nostra regione, l’olio extra vergine di oliva. Il nostro obiettivo è quello di far conoscere e riconoscere anche e soprattutto ai non addetti al settore che più del 40% dell’olio evo di qualità prodotto in Italia è in realtà made in Puglia”.

Una bella carrellata delle tante tipicità varietali: l’oliva Leccino, la Coratina, la Cellina di Nardò, la Paranzana e l’Ogliarola. La presidentessa del Consorzio precisa che la nascita dello stesso avviene nel 2020 subito dopo l’ottenimento della certificazione IGP olio di Puglia del dicembre2019. Il Disciplinare prevede che tutte le fasi di produzione dell’olio siano effettuate in Puglia: le olive sono pugliesi, i frantoi hanno gli stabilimenti nella regione così come gli imbottigliatori. Il logo del Consorzio ha come simbolo una moneta traiana (una donna con in mano un trancio di olivo) riferimento alla strada traiana che fa da trait d’union tra le province pugliesi.

Un numero importante: in Puglia ci sono più di sessanta milioni di piante d’olivo, la regione rappresenta, da sola, circa la metà del prodotto oleario nazionale. Tanti i riconoscimenti: qui risiedono alcune delle aziende più iconiche del settore, sintomo di un prodotto che sta sempre più dimostrando che qualità e quantità possono andare di pari passo

Si dice che “Ogni Puglia ha il suo albero” perché gli ulivi secolari pugliesi sono dei monumenti viventi, un manifesto regionale. Queste piante influenzano l’ecosistema locale circostante, ma anche l’economia e la cultura da tante ere, basta guardare lo Stemma Regionale in cui campeggia un florido ulivo.

I marcatori più indicativi sono l’amaro leggero e un retrogusto che rimanda a erbe e/o ortaggi. I profumi ricordano mandorla, erba tagliata, carciofo, all’interno di un corredo aromatico mediamente intenso. Il colore dell’olio non dovrebbe influenzarci, d’altronde le degustazioni nelle commissioni tecniche prevedono calici che non lo lascino trapelare (al fine di non condizionare l’analisi organolettica), comunque le nuance possono andare dall’oro intenso al verde scuro. La torbidità è naturalmente dovuta a una voluta assenza di filtraggio al fine di conservare ancora di più le qualità del frutto.

Le qualità nutritive sono di ottimo livello, l’acidità è dello 0.4%, vi è ricchezza di acido oleico, antiossidanti (tocoferolo), vitamina E e caroteni. La raccolta avviene quasi esclusivamente a mano, garantendo selezione fin dall’inizio al fine di evitare malattie, fermentazioni o muffe.

La Xylella e il futuro

Non poteva mancare un accenno al male che ha falcidiato l’olivicoltura negli ultimi anni. Il Batterio Xylella Fastidiosa è giunto in Puglia nel 2008 presumibilmente da piante di Caffè Costaricane e in pochi anni ha ridotto la popolazione degli uliveti di quasi il 90%. Circa 21 milioni di ulivi morti, in alcuni casi espiantandoli preventivamente per tentare di arginare il male. Sebbene sia rallentata è ancora presente nel territorio e i produttori stanno rispondendo alla battaglia adottando cultivar resistenti come il Leccino, che vedremo sempre di più in futuro.

La degustazione tenuta da Indra Galbo, della guida Oli d’Italia di Gambero Rosso

Taurino – IGP Olio di Puglia monocultivar Leccino

Siamo nella zona del Salento, dove i fratelli Donato e Rosaria conducono l’Azienda Agricola. Tutte le fasi del processo produttivo, dalla produzione delle olive, all’estrazione, all’imbottigliamento avvengono nell’azienda stessa. Assaggiamo un olio delicato, equilibrato e leggermente fruttato che bene si abbina a piatti a base di pesce e ad insalate delicate.

Pantaleo – IGP Olio di Puglia monocultivar Coratina

Oltre cento anni di tradizione e quattro generazioni di imprenditori che creano prodotti di alta qualità. La varietà Coratina è la regina di gran parte della Puglia, è la varietà che contiene più polifenoli. L’olio degustato presenta un amaro e piccante importanti con sentori di rucola ed erba tagliata.

Olearia Clemente – IGP Olio di Puglia (blend di Coratina e Ogliarola)

Siamo a Manfredonia dove da oltre 120 anni la famiglia produce olio di oliva direttamente dai loro uliveti che si estendono nel cuore del Parco Nazionale del Gargano. Il prodotto in degustazione si presenta delicato con note di mandorla dolce ed erbacee.

Olio Guglielmi – IGP Olio di Puglia monocultivar Coratina

Azienda molto estesa e celebre di Andria. Naso erbaceo, vegetale, ricordi di mandorla, sensazioni di zenzero. L’assaggio è deciso, molto amaro ma anche piccante, coerentemente vegetale.

Frantoio Oleario Congedi – IGP Olio di Puglia (blend di Favolosa e Coratina)

Altra azienda salentina che unisce la qualità a un grande impegno nella sostenibilità. Sentori al naso di foglia di pomodoro, carciofo, mandorla amara e vegetale, corpo medio.

Frantoio Bitetti – IGP Olio di Puglia monocultivar Coratina

Siamo a Ginosa: l’azienda racconta una passione tramandata di padre in figlio. Di grande equilibrio, al naso emergono sensazioni di valeriana, verdure, piccantezza media e ben amalgamata.

De Carlo – IGP Olio di Puglia (blend di Coratina, Ogliarola Barese, Leccino, Peranzana)

Azienda storica del barese. Naso ricco di note vegetali, di vario genere, dalla cicoria al caco, passando per erbe di campo e mandorle. Equilibrio gustativo puntuale, lascia una lunga e piacevole scia al suo passaggio.

Le Ferre – IGP Olio di Puglia monocultivar Coratina

In provincia di Taranto, produce, confeziona e commercializza olio extravergine d’oliva. Posta in una vallata tra mare e collina con un microclima ideale per coltivazione delle olive. In assaggio un olio dalla spiccata piccantezza, sentori vegetali e mandorla amara.

Di Martino – IGP Olio di Puglia monocultivar Coratina

Da oltre trecento anni produce olio. Innovazione e tradizione si fondono per dare vita a prodotti di qualità espressione evidente del territorio. Verticale e tagliente in degustazione, dove il vegetale e la mandorla amara sono bene evidenti.

Le vigne di città

Sì, avete letto bene, le vigne in città esistono, si insediano nel caos cittadino regalando scorci verdi e grappoli urbani che osservano silenziosi la metropoli. Un patrimonio testimonianza di vita e storia, oggetto di conservazione e valorizzazione che contribuisce alla sostenibilità delle città.

Passeggiare tra i filari vi catapulterà in un’altra dimensione, silenzio, profumi e colori che fanno da contraltare al traffico e all’inquinamento.

Io ne ho visitate alcune, in Italia e all’estero, venite con me in questo racconto che unisce storia, tradizioni, cultura e VINO.

MILANO – La vigna di Leonardo

Il trentenne Leonardo da Vinci arriva a Milano nel 1482, abbandona la corte di Lorenzo de’ Medici per spostarsi in quella di Ludovico Maria Sforza, detto il Moro. Ad accogliere il Genio una città che nulla ha da invidiare a Firenze, si respira un grande fermento culturale ed artistico che gli consente di stringere amicizia con gli artisti e gli artigiani milanesi e riceve le prime commissioni per opere e scenografie.

Solo diversi anni più tardi, nel 1495, dopo che l’artista si è fatto le ossa, Ludovico il Moro gli assegna l’incarico di dipingere un’Ultima Cena nel refettorio dei frati Domenicani e nel 1498 concede a Leonardo la proprietà di una vigna di 16 pertiche (circa un ettaro di terreno).

Possiamo immaginare Leonardo che dopo una giornata di lavoro al cantiere del Cenacolo, attraversa il Borgo delle Grazie e la casa degli Atellani, per passeggiare tra i filari della sua vigna.

In seguito, quando le truppe francesi sconfiggono Ludovico il Moro, Leonardo lascia Milano ma continuerà ad occuparsi della sua vigna anche da lontano e la citerà nel suo testamento nel 1519 lasciandone una parte al suo allievo prediletto Gian Giacomo Caprotti, il Salaì.

Arrivando ai giorni nostri, grazie agli studi portati avanti dalla genetista Serena Imazio e dal professor Attilio Scienza, massimo esperto di DNA della vite, è stato individuato quale fosse il vitigno coltivato nel Rinascimento: Malvasia di Candia aromatica. Nel 2015 gli esperti dell’Università hanno reimpiantato proprio le barbatelle di Malvasia.  A settembre del 2018 è avvenuta la prima vendemmia, solo 330 bottiglie.

Il 15 settembre 2021, il Comitato Maria Letizia Verga, Fondazione che raccoglie fondi per la lotta contro la leucemia, ha organizzato la prima asta e le prime 3 bottiglie di 330 sono state battute in anteprima mondiale. L’intero ricavato dell’asta è stato destinato al progetto di ricerca sul passaporto genetico che mira ad individuare il profilo genetico di ogni bambino malato di leucemia e linfomi.

Una storia affascinante che lega Leonardo da Vinci al vino, e non poteva essere altrimenti visto che il padre Pietro, il nonno e lo zio avevano vigne a Vinci, visto che nei sui codici disegnava il modo con cui si doveva appendere l’uva per conservarla in inverno oltre ad altri particolari riferiti alla viticoltura.

Purtroppo attualmente la vigna di Leonardo è chiusa al pubblico.

PARIGI – Clos Montmartre

Il legame tra Parigi e il vino si perde nella notte dei tempi, la coltivazione della vite sulla collina di Montmartre risale al XI secolo quando il quartiere bohémien non era altro che un insieme di piccole case e mulini.

Nel 1500 l’attività vinicola si ampia con un maggior numero di filari che si estendono lungo tutto il pendio, sino alle pianure circostanti. Dai documenti storici compaiono vini bianchi, rossi, una piccola produzione locale.

Segue il periodo della forte urbanizzazione e il vigneto viene lasciato a sé stesso e pian piano abbandonato, fino agli anni Trenta quando pochi uomini di buona volontà decidono di recuperare quell’area verde reimpiantando vari vitigni: dal Pinot Noir al Beaujolais tra gli altri, mantenendo con cura il vigneto grazie anche all’aiuto di un enologo che monitora la qualità del prodotto.

La vigna è conosciuta con il nome di Clos Montmartre, è situata sul pendio di Montmartre, nei pressi della basilica del Sacre Coeur. Di proprietà della città di Parigi, la gestione della vigna è invece affidata al Comité des Fêtes et d’Actions Sociales de Montmartre – Paris 18ième.

Riunisce diverse denominazioni di vino, “Le Clos Berthaud”, “La Goutte d’Or” o ancora “Il Piccolo”. All’inizio la produzione di vino del Clos Montmartre era riservata solo al consumo locale, ora la vigna può contare su 1800 vigneti, con 30 diverse tipologie di vite.

Ogni anno in ottobre è organizzata “La Fête des Vendanges” per celebrare la raccolta annuale. La festa si svolge nell’arco di un fine settimana lungo (3 giorni), intorno al 7 di ottobre, e conta la presenza di numerose confraternite gastronomiche, sfilate in costumi d’epoca ed espositori provenienti dalle maggiori cantine di tutta la Francia. La produzione si attesta intorno alle 1500 bottiglie da 50cl che vengono fatte affinare nelle cantine del Municipio. Le bottiglie vengono dipinte da artisti famosi, anche Modigliani partecipò all’iniziativa, e poi battute all’asta. Il ricavato viene destinato alle opere sociali dell’Associazione di Montmartre.

Un vero tuffo nell’atmosfera bohémien dove si respira aria di altri tempi.

VIENNA – Il vino dell’Imperatore

Se avete in programma un viaggio nella capitale austriaca e se siete alla scoperta di qualcosa di particolare, mettete in agenda una mezza giornata, ma anche una giornata intera se avete tempo, per un’escursione sulle colline che si trovano a pochi Km dalla città e che regalano un incantevole panorama sulla città stessa e sul Danubio.

L’area vitata di Vienna ha una superficie di circa 700 ettari, una cosa più unica che rara per una metropoli, qui giocano un ruolo fondamentale il Danubio e il Bosco viennese che creano un microclima ideale alla coltivazione della vite.

I vigneti sono sparsi sulle colline di Kahlenberg, Nussberg, Bisamberg e nel sobborgo di Mauer, dove 230 viticoltori sono dediti a quest’arte che risale ai Celti e alle legioni romane, anche se notizie documentate si hanno dal XII secolo.

Una tradizione che risale al Medioevo quando però la qualità del vino era diversa. Ai tempi dell’imperatore Federico III il vino era così acido che lo stesso ne proibì il consumo perché temeva che potesse nuocere alle persone. Questo vino veniva chiamato “mangiabotti” perché era talmente acido da sciogliere i cerchi della botte. Veniva venduto in numerose cantine, chiamate “buchi”, e nei bar. Per migliorarne la qualità, spesso il veniva mescolato con sostanze come miele o zafferano. Successivamente le osterie furono trasferite nei vigneti, che ancora oggi sono i luoghi tradizionali in cui servire il vino.

Un regolamento dell’imperatore Giuseppe II, in vigore ancora oggi, prevedeva la distribuzione del vino nelle osterie. Così il 1784 fu l’anno in cui nacquero le tipiche osterie viennesi, Heurigen.

Alcune sono immerse nei vigneti e regalano un paesaggio bucolico dove poter trascorrere un po’ di tempo tra vino, piatti tipici e musica. Il periodo migliore per recarvisi è l’autunno durante la tradizionale Giornata escursionistica del vino viennese. Quattro percorsi permettono di esplorare il panorama enologico e nelle varie tappe i viticoltori della zona offrono degustazioni di prelibatezze provenienti sia dalla cantina che dalla cucina.

Per quanto riguarda la produzione questa è costituita per 80% da vini bianchi fruttati: Riesling, Weissburgunder, Gruner Veltliner, Sauvignon Blanc, Muskateller. I vini rossi sono invece il Zweigelt, St-Laurent, Merlot, Pinot Noir e Syrah.

Una specialità viennese con una lunga tradizione è il Gemischte Satz, un vino prodotto con diversi vitigni. Nulla a che vedere con la cuvée, per il Gemischte Satz si allevano nello stesso vigneto fino a 20 vitigni diversi; le uve vengono poi pressate e vinificate insieme per ottenere un vino del tutto particolare. Originariamente l’intenzione era quella di ridurre al minimo il rischio di annate con scarsa produzione, poiché, potendo contare su diversi livelli di maturazione e differenti tenori di acidità, era garantita una qualità stabile. Un vino che oggi è sotto il presidio Slow Food.

PRAGA – I vigneti divini

La storia della viticoltura a Praga risale al Medioevo, quando i vigneti circondavano la capitale, fu Carlo IV che favorì la coltivazione della vite grazie a degli editti che esentavano dal pagamento delle tasse i vignaioli. Oggi sono angoli per ritemprarsi dalla confusione della città. Poca produzione, sei vigneti per un totale di quasi 12 ettari, posti in posizioni panoramiche regalano viste indimenticabili.

Durante il mio viaggio nella capitale ceca ho avuto l’occasione di visitare il vigneto di San Venceslao proprio sotto il castello di Praga, recuperato alcuni anni fa è oggi accessibile al pubblico. Il principe Venceslao piantò le viti per avere il vino sacramentale. Viene considerato come il più vecchio vigneto fondato da San Venceslao all’inizio del X secolo, lo scopo era quello di avere il vino per le cerimonie religiose.  Qui si coltivano due uve, il Ryzlink del Reno (Riesling) e il Pinot Nero, ma lungo il sentiero panoramico sono state piantate altre decine di vigne. I vini del vigneto sono un’edizione limitata ed è possibile degustarli solo nell’adiacente e lussuoso ristorante Villa Richter.

Nel centro di Praga si trova un vigneto, Villa Grobe, con cantina sotterranea. Nel vigneto sono coltivate 8 varietà di uve, 4 bianche e 4 rosse. La vendemmia è fatta direttamente nell’annessa cantina che produce e vende vino dal 2009, anche a bicchiere. Ottimi il Müller Thurgau e il Pinot Grigio.

Nell’orto botanico della città si trova il vigneto di Santa Chiara con una storia di quasi 800 anni.

Non si sa con esattezza quando sia stato fondato il vigneto, ma il caldo pendio fu certamente utilizzato dall’imperatore Carlo IV, che fondò il ponte Carlo a Praga, quando la piantò con le viti. La viticoltura fiorì maggiormente durante il regno dell’imperatore Rodolfo II. Praga era allora chiamata la ‘città del vino”.

La parte produttiva è costituita da varietà di vitigni bianchi come Riesling, Müller-Thurgau, Sauvignon, Moscato di Moravia, Tramín Rosso e Pinot Nero. Tra le varietà di vitigni rossi, ci sono il Blue Portugal e il Pinot Nero. Recentemente, il vigneto produce vino spumante e vino di tipo Porto Fortis Magna. I vini rossi sono invecchiati in botti di rovere per un minimo di due anni.

Le feste del vino a Praga sono eventi molto popolari e tanto attesi tra i locali e gli appassionati di vino, vengono organizzate ogni anno dopo la fine della stagione della vendemmia. Le feste autunnali tradizionali includono in genere concerti, spettacoli, bancarelle di cibo con specialità regionali, nonché la degustazione di vino novello e vino parzialmente fermentato chiamato “burčák”

E se siete curiosi, di vigne urbane ce ne sono molte altre, dislocate nel vecchio continente e non solo.

Solo per citarne alcune possiamo trovarle ad Avignone; Barcellona; Bergamo; Siena; Palermo; Venezia e… a New York.

Sono sotto l’egida de La Urban Vineyards Association (U.V.A.) che nasce con l’intento di tutelare il patrimonio rurale, storico e paesaggistico rappresentato dalle vigne urbane e di valorizzarlo sotto il profilo culturale e turistico, rendendolo produttivo per la collettività e per il futuro nel rispetto dell’ambiente, attraverso politiche vitivinicole e sociali di integrazione e sostenibilità. Prosit!

Gambero Rosso e Osteria Fernanda insieme per il Mandrarossa on tour

Osteria Fernanda e Gambero Rosso: degustazione esclusiva con “Mandrarossa on Tour” a Roma.

L’Osteria Fernanda a Roma ha aperto le porte a un’esperienza culinaria unica, grazie al progetto Mandrarossa on Tour, frutto della collaborazione con il Gambero Rosso. Tre le cene-degustazione, due delle quali si svolgeranno a Roma e una a Milano. Per 20italie ho avuto l’opportunità di degustare una selezione dei vini più distintivi della cantina di Menfi, abilmente abbinati ai piatti creati dallo Chef Davide Del Duca.

Filosofia culinaria raffinata e sempre sorprendente. Abilità nel bilanciare sapientemente i sapori e nel presentare piatti freschi e creativi. L’ambiente del ristorante è già invitante, con un’estetica moderna, dal taglio minimalista, che richiama la tradizione avvolgendo gli ospiti con discreta cura. I tavoli posizionati di fronte alla luminosa e ampia vetrata della cucina offrono una vista coinvolgente sul lavoro della brigata, durante la preparazione delle portate.

Gambero Rosso è riuscito nell’intento ad esaltare in modo appropriato i punti di forza sia del menù che dei vini. Insieme a Lorenzo Ruggeri e Giuseppe Bonocore, ci siamo confrontati sugli abbinamenti, giudicati in sintonia per la serata. Roberta Urso, responsabile pubbliche relazioni e comunicazione di Mandrarossa, racconta la storia della cantina, una Cooperativa vitivinicola di qualità che raccoglie 160 conferitori selezionati tra i 2000 della famiglia maggiore Cantine Settesoli, con i suoi 500 ettari vitati. Studio approfondito dei terreni, basse rese e tutto il meglio della Sicilia raccolto vinificato con cura nelle bottiglie che avevo già provato in occasione dello scorso Vinitaly. Non mi resta che andare a Menfi e visitare di persona questa interessante cantina siciliana, da raccontare ancora su 20italie.

MENU E VINI IN ABBINAMENTO

  • Entrée
Selezione di finger food: Cioccolato bianco ripieno di arachidi con gel di crodino, sedano rapa con anacardi e fegatino di pollo.
  • Spuma di burro di Normandia e pane a lievitazione naturale appena sfornato.

Piccole esplosioni di sapore che stimolano l’acquolina in bocca.

Vini in abbinamento:

Calamossa Bianco Mandrarossa 2023

Metodo Charmat floreale fresco e piacevole, nota aromatica data dallo Zibibbo che bilancia

  • Antipasto
: Ostrica, topinambur fermentato olio di Perrillo e limone nero

Le note vegetali dell’olio e delle parti verdi coprivano un pochino l’ostrica

  • Calamaro, beurre blanc, cime di rapa, colatura e yuzu

Un piatto molto interessante con un trionfino di sapori giustamente dosati e bilanciati.

Vino in abbinamento:

Sicilia Urra di Mare Mandrarossa 2023 – Floreale gelsomino nella freschezza con finale sapido

  • Primo piatto: 
Tagliolino di spirulina, bottarga di tonno, finocchio e cerfoglio.

Vino in abbinamento:

Sicilia Bertolino Soprano Mandrarossa 2022


  • Secondo piatto: 
Manzo, mela cotogna, succo di pepe Sancho e olio al carbone d’erbe

Un piatto meraviglioso.

Vino in abbinamento:
 Sicilia Mandrarossa Cartagho 2020

Bella struttura, morbidezza e terziari. Forse troppo percepibile la nuance del legno.

  • Dolce: Cremino ai tre cioccolati Valrhona, latte salato e caffè.
  • Piccola pasticceria

Dolcezza bilanciata, non eccessiva ma di gran gusto. La giusta conclusione di una cena che ha sorpreso per qualità e la finezza.

Vino in abbinamento:
 Passito di Pantelleria Serapias Mandrarossa 2020.

Un passito che non stanca e invoglia alla beva, grazie alla spinta acida.

Il Vermentino Solosole di Poggio al Tesoro: una splendida “verticale in bianco”

Bolgheri è un anfiteatro di storie d’amore, una di queste è nascosta nel Vermentino Solosole di Poggio al Tesoro, lo scopriamo in una splendida verticale di 6 annate differenti, in compagnia del Responsabile di produzione Christian Coco.

“I cipressi che a Bolgheri alti e schietti Van da San Guido in duplice filar, Quasi in corsa giganti giovinetti, Mi balzarono incontro e mi guardar.”

Bolgheri è un luogo di cui ci si innamora. Ce lo dimostra Carducci, con la sua celebre ode “Davanti a San Guido”, che decanta quel fantastico “Red Carpet” di Cipressi con il quale i Romani molti anni prima incorniciarono la celebre via e prima ancora gli Etruschi che per primi si insediarono qui. Il Marchese Incisa della Rocchetta trovò qui l’amore di Clarice della Gherardesca, decise di lasciare il Piemonte e dedicarsi qui alla Tenuta San Guido che la moglie portava in dote.

Questo sentimento colpisce Marilisa Allegrini e suo fratello Walter, già grandi produttori in Valpolicella, che mossi alla ricerca di qualcosa di straordinario, nel 2001 è proprio qui che lo trovano fondando Poggio al Tesoro.

È anche la storia di Christian Coco, Londinese di Nascita, studi classici, che navigando per Mari sbarca in questa terra e rimane folgorato dalla cultura della vite. Si Laurea in Enologia a Pisa e, dopo importanti esperienze avviene il sodalizio enologico con l’azienda Poggio Al Tesoro, per la quale è Enologo e Responsabile di produzione.

LE TERRE DI BOLGHERI

Bolgheri è un teatro naturale, adornato a Est da Colline Metallifere ricoperte da boschi di macchia mediterranea che salvaguardano l’ecosistema e che si stendono dolcemente fino a Ovest, dove lasciano spazio a Pinete, spiagge e quindi al mare. La via Aurelia, antica strada romana, fissa il confine tra la denominazione e la costa, seguendo la strada verso nord invece, incroceremo il Viale dei Cipressi che segna il confine più alto.

L’Enosistema è complesso. La luce abbonda costantemente e nel pomeriggio si rifrange sul Mare Tirreno, continuando a scaldare fino al tardo crepuscolo. I Venti, panacea per ogni malattia della vite, sono frequenti e presenti tutto l’anno, tirano dal mare e dalla Collina Metallifera, polmone naturale e filtro per gli agenti atmosferici. Il Maestrale porta sentori sapidi e salmastri, nei pomeriggi estivi il suo tepore è ancor più potente di quello del sole.

LA FILOSOFIA DI POGGIO AL TESORO

I terreni su cui l’azienda poggia le sue radici sono di origine alluvionale, la terra brucia, è di colore rosso che svela la matrice ferrosa e calcarea. Siamo in pianura, dove il drenaggio è maggiore e la radice va più a fondo, 250 s.l.m.

Il Vermentino è un vitigno tipico delle coste Ovest del Mediterraneo. Ritenuto, pare erroneamente visti i recenti studi scientifici, originario della Spagna, ha preso piede dapprima in Francia in Languedoc-Roussillon col nome di Malvoisie à gros Grains poi in Corsica, quindi in Liguria, Toscana e Sardegna. A Bolgheri il calore fa la differenza e le uve prendono uno splendido colore ottone in maturazione.

Nella loro visione Marilisa e Walter vogliono la corposità e la grassezza di un Vermentino Sardo unita alla freschezza e mineralità di quello Ligure, il risultato li porta ad una selezione clonale Corsa, scrupolosamente clonata in azienda.

Quattro poderi formano la tavolozza delle vigne: Via Bolgherese, Chiesina di San Giuseppe, Le Sondraie, Valle di Cerbaia. I primi due sono collocati nella zona Soprastrada che dona al vino eleganza e complessità, mentre negli altri avremo più potenza e rotondità.

Tutto questo è il Solosole, Vermentino in purezza, in una parola S.A.L.E., acronimo di Struttura, Acidità, Longevità, Espressione aromatica marcata (ma anche Eleganza). La Vendemmia è rigorosamente al chiaro di luna per preservare la freschezza, i grappoli sono turgidi e ambrati. In cantina viene effettuata una sapiente macerazione sulle bucce, una stabulazione a freddo. L’uso di lieviti non fermentanti inoltre contribuisce all’esaltazione delle proprietà aromatiche e del profilo organolettico complessivo.

Le masse vengono vinificate separatamente per ottenere “Scale diverse di una diversa nota”, citando Christian Coco.

La degustazione

Vermentino Bolgheri DOC Solosole 2022

Colori giallo paglierino dalle sfumature oro chiaro, di spiccata lucentezza, gira sinuosamente. Al naso ci accoglie una nota iodata suadente, fiori freschi, frutta gialla fresca e toni agrumati che ricordano il lime, contornati da salvia fresca e gelsomino. In bocca è una carezza, l’ottimo corpo si slancia su una sapidità tonda e ricca, il ricordo di frutto giallo, di mela è qui più maturo. La sapidità è ricca e unita ad una vibrante freschezza dai rimandi citrini crea una succosa atmosfera. È un vino scalpitante, che col tempo si racconterà ancor di più e ancor meglio.

Vermentino Bolgheri DOC Solosole 2019 14%

Eccelsa annata, si presenta vestita di colori un po’ più caldi e un dorato ancor più luminescente nell’orlo. Il naso si apre su note di erba aromatica infusa, sta iniziando una virata verso altre nuance. Sbuffi di frutta, pesca sciroppata, ananas, mela cotogna e agrumi impreziositi da infusioni ai sentori di ginestra e macchia mediterranea, in un sottofondo iodato. È un naso metronomico, che a ogni olfazione ci scandisce una nota diversa della sinfonia. L’assaggio è notevole e colpisce la percezione di sale più maturo, più avvolgente, che si lega perfettamente all’agrumata freschezza lasciandoci il bellissimo ricordo di uno spicchio di pompelmo. Tanta stoffa e ancora tanti anni davanti per sorprendere ancor di più.

Vermentino Bolgheri DOC Solosole 2017

Annata bizzarra e a tratti calda, è in queste annate che la differenza la fa l’uomo e la sua sapienza. Ci accoglie un calice giallo paglierino dalle decise sfumature dorate. Naso che ammicca verso note idrocarburiche, protagoniste sono le sensazioni di frutta gialla succosa, pepe bianco, infuso al rosmarino, miele di tiglio. Al sorso troviamo ad accoglierci un vino che ha preso il suo tempo, ha un sorso succoso, è lungo, persistente e lascia ricordi di frutta sotto spirito. La sapidità è sempre ben presente ma di diversa fattura, palatale, granulosa.

Vermentino Bolgheri DOC Solosole 2015

Un suadente dorato intenso illumina il calice. Appoggiando il naso sale subito un sentore di scorzettina di cedro che fa da anticamera a note di miele al rododendro, pepe bianco, ancora agrume e poi ancora iodio e macchia mediterranea. Il sorso è burroso e carezzevole, impreziosito da sale e sentori di spezie, eccelso equilibrio, sorretto da basi solide della freschezza e del buon calore. Ottima persistenza.

Vermentino Bolgheri DOC Solosole 2012

Bellissima nuance dorata di ottima quantità colorifera. Il naso si delinea su trame “non zuccherine”, mango, albicocca matura cui seguono fiori di sambuco, ricordi di the giallo e di infuso e ancora spezie e note iodate. L’assaggio è verticale, dritto, il sale levigato, si spalma e aromatizza il palato. Eccellente equilibrio e persistenza, la massa è ormai armonizzata in tutte le sue componenti.

Vermentino Bolgheri DOC Solosole 2010

Nuance dorata dalle delicate sfumature ambra. Il naso è evoluto, si apre nelle note agrumate di limoni di sorrento, spezie dolci, burro nocciola. Ricordi di creme brulee, torta della nonna, ma anche the darjeeling, un naso esteso e sensuale. All’assaggio è un vino rotondo, morbido, ci accarezza velatamente posandosi come seta sul palato per poi lasciarsi ripulire dal sale, scioglievole ma al contempo palatale, completo. Notevole e fruttata persistenza.

Ringrazio Christian Coco per avermi svelato un po’ del suo mondo e il Miglior Sommelier di Lombardia Federico Bovarini col quale ho condiviso l’assaggio di queste splendide etichette. “Il vino è l’unico modo per toccare fisicamente il tempo”.

Bollicine protagoniste a Wine&Siena 2024

Bollicine protagoniste di una masterclass durante la manifestazione Wine&Siena 2024: tradizioni consolidate e interpretazioni innovative.

Wine&Siena conferma il gradimento del pubblico per le eccellenze selezionate da TheWineHunter: una nona edizione che ha inaugurato il calendario degli appuntamenti enoici in Italia e che ha registrato un record di presenze, ben 2500 e la giornata di sabato con ticket sold out.

Nelle giornate di sabato 27 e domenica 28 le sale del Grand Hotel Continental Siena – Starhotels Collezione sono state animate dalle interessanti masterclass, tra cui quella dedicata ai vini fatti in anfora magistralmente condotta da Helmuth Köcher.

Le sessioni del sabato si sono aperte nella mattinata con Bolle d’Italia: un viaggio sensoriale tra le eccellenze delle bollicine italiane. In apertura un Franciacorta Docg Extra Brut Arcadia 2019 Lantieri, 36 mesi sui lieviti, prevalenza Chardonnay con 15% di Pinot Nero e 5% di Pinot Bianco. Profilo olfattivo che regala note di agrumi, di panificazione, di zagara e di erbe di campo. La bollicina è fine e di media persistenza.

Franciacorta Docg dosaggio zero Dom riserva 2016 Mirabella è uno spumante Metodo Classico da 72 mesi sui lieviti; le basi fermentano in contenitori di cemento e si utilizza solitamente un 55% di Chardonnay mentre la parte restante è ugualmente divisa tra Pinot Bianco e Pinot Nero. Al naso si apprezza la frutta a polpa gialla, la nespola, il cedro, salvia e cera d’api, con sbuffi quasi sulfurei. Bollicina setosa e grande finezza. Il sorso denota una buona persistenza e l’abbinamento con il cibo un richiamo immediato.

VSQ Pinot Nero Metodo Classico pas dosè Monsupello: azienda che conduce circa 50 ettari vitati su terreni calcareo-gessosi in Oltrepò Pavese. Il vino affina in acciaio e non svolge la malolattica; in primavera vengono assemblati i vini ottenuti dalle diverse parcelle, segue la seconda fermentazione e una sosta di 40 mesi sui lieviti. Il colore di questo spumante è sempre luminoso ma sicuramente di intensità cromatica maggiore, i profumi ricordano la mela cotogna, la frutta candita, la renetta, il pan brioche e la pietra focaia. Vivace freschezza, che rende l’assaggio di squisita piacevolezza.

VSQ Metodo Classico Dosaggio Zero Montemercurio 2016 è ottenuto da sangiovese proveniente da una vigna di circa 60 anni. La sboccatura viene riportata a maggio 2023. Una piacevole nota di ossidazione lascia il passo alla scorza d’arancia candita, alla frutta, alla grafite. Preciso equilibrio gustativo, chiusura sapida.

VSQ Metodo Classico Astra 2020 UvaMatris ha affascinato la platea per il suo naso floreale, i sentori di acacia e biancospino, di crema pasticcera, erbe officinali, ceralacca; in bocca una freschezza guizzante e una lunga persistenza. L’enologo Gabriele Ronchi ottiene questa bollicina utilizzando il Nebbiolo, a dimora su suoli calcareo-argillosi ricchi di marna.

La masterclass si è conclusa con la degustazione di Oltrepò Pavese Docg Metodo Classico Brut Collezione 2008 La Versa, una bollicina  ottenuta da Pinot Nero, che fermenta in acciaio, e da un saldo di Chardonnay in botti di legno di primo passaggio non tostate. Rimane ben 12 anni e mezzo sui lieviti. Terre d’Oltrepò è l’azienda che ha raccolto l’eredità di La Versa e che raccoglie il 45 % delle uve prodotte in questo territorio, rinomato nel mondo per la produzione di Pinot Nero. Il calice offre profumi di ananas, cedro, nocciola, una dolce speziatura, miele di acacia, zafferano, pasta frolla. Bollicine finissime, che salgono numerose in catenelle luminescenti, che al palato regalano sensazioni seriche. Infinita persistenza e una nota iodata sul finale.

Un viaggio attraverso le eccellenze italiane, proprio secondo i principi ispiratori di Merano Wine Festival, che ha affascinato il pubblico presente e lo ha stimolato al confronto, alla discussione e all’approfondimento di questi territori.

Campania: “‘A capa è ‘na sfoglia ‘e cipolla” ramata di Montoro

L’abbiamo sempre vista come il cibo dei poveri, quel “pane e cipolla” che mangiavano le persone quando non potevano permettersi altro. Lo stesso compositore Giacomo Puccini, ai tempi della povertà più nera, quando le sue opere liriche erano solo un abbozzo nella mente, ne faceva uso smodato per sfamarsi. Le popolazioni dei piccoli borghi e delle campagne si nutrivano da sempre con i bulbi di questa pianta ancestrale, che ha un ciclo vegetativo biennale, fragile e generosa al contempo.

In Campania esiste un piccolo polo produttivo che è riuscito a selezionare, con abilità e sacrificio, una forma particolare di ortaggio: la cipolla ramata di Montoro. L’aggettivo lo si deve al particolare colore della sfoglia, che presuppone la presenza di quercitina e flavonoidi, utili nella nutraceutica come antiossidanti naturali. Non soltanto: l’Università di Salerno – Dipartimento di Ingegneria Alimentare – in collaborazione con il CNR, ne ha dimostrato la maggior dolcezza rispetto alle altre tipologie, pur con un basso indice glicemico e un ridotto contenuto di solfuri.

I catafilli carnosi e succulenti consentono la cottura della cipolla ramata di Montoro “nella propria acqua” (parafrasando un proverbio locale), come nella lunga stufatura della Genovese napoletana. La Gb Agricola di Nicola Barbato ha creduto fortemente nel prodotto e nella sua duttilità d’uso. Tante le preparazioni ideate dalla famiglia e dallo chef Rinaldo Ippolito, pensate per essere degustate sia seduti comodi tra i tavoli dell’agriturismo, sia tra i fornelli di casa in confezioni facili da impiegare.

Ciò che trovate nel piatto nasce però 2 anni prima, dai fiori impollinati e dal bulbo che cresce sottostante. Il fiore è importante per dare origine ai semi, senza i quali non si potrebbe replicare l’intero processo produttivo. La successiva raccolta ed essiccatura delle cipolle in celle frigo richiede tempi biblici, utili ad addolcire le note odorose più pungenti e rendere il sapore equilibrato. La selezione viene fatta rigorosamente a mano da personale esperto, formatosi sulle antiche tradizioni contadine delle donne anziane del paese. Tutto si recupera e ricicla, comprese le tuniche per l’estrazione dei colori da utilizzare come inchiostro industriale.

La tracciabilità, infine, è l’elemento essenziale di qualità e garanzia: ogni passaggio viene registrato e sottoposto a verifiche quotidiane per offrire al consumatore finale il meglio di Natura. Quanto dovrebbe costare un prodotto che necessita di una catena operaia coordinata, con tecnologie all’avanguardia e controllo costante delle procedure? In realtà il discorso è identico per tante realtà d’eccellenza dell’enogastronomia italiana. Il riconoscimento economico, infatti, non segue sempre lo sforzo realizzativo.

L’immaginario collettivo non è ancora pronto ad accettare ciò che è veramente buono e salutistico da ciò che è semplicemente “fuffa artefatta”. I passi in avanti ci sono grazie anche all’impegno dei Barbato e di tanti come loro che portano alto il vessillo del km zero. Mille gli utilizzi possibili, dalla parmigiana, alla frittura, per passare ai sughi ed alle conserve e, perché no, concepire un dessert a base di cipolla ramata di Montoro.

Per chi voglia saperne di più, qui il Disciplinare di Produzione.

La nostra intervista al produttore 👇🏻

Personalità, sapore, basso impatto calorico e facile digeribilità, la ricetta perfetta per vivere bene.

Gb Agricola – casa Barbato Agriturismo e Agripizzeria

Via Padula – Montoro Inferiore (AV)
Telefono  0825 1728592
Whatsapp 349 860 0929
e-mail: info@gbagricola.it

La “Reginella” antico vitigno autoctono del golfo di Policastro

Uno degli aspetti più̀ singolari della viticoltura e dell’enologia della Campania sta nella sua ricchezza di varietà̀ di viti, di modi di coltivazione, di vini differenti sebbene prodotti in aree geografiche vicinissime. Un patrimonio ampelografico straordinario, formatosi e conservatosi in quasi tre millenni grazie, prima di tutto, alla posizione strategica della regione nel bacino mediterraneo.

In ogni zona del territorio campano è possibile imbattersi in decine di varietà, cloni, biotipi, diffusi solo localmente e magari conosciuti con termini dialettali. I vignaioli da sempre credono fermamente nel valore storico e qualitativo delle loro cultivar tradizionali, mantenendo decisamente marginale l’impianto degli “internazionali”.

Il Cilento, il territorio più a sud della Regione, di origine diversa rispetto ai più noti distretti campani, non si discosta da questa ricchezza ampelografica. Terra di contadini e patria della dieta mediterranea, ospita vari vitigni autoctoni da tempi remoti, sia a bacca bianca (Bianca A Cuore, Rodiana Bianca, Iuvina, Santa Sofia, Vesparedda, Chiapparone) che a bacca nera (Aglianichello, Aglianicone, Arenaccia, Armonera, Mangiaguerra, Moscatello, Nera Lasca, Primitivo, Rodiana Nera, Tintore, Uva Puzo).

Il suo suolo è noto come Flysch cilentano, alcalino e forte, perfetto per l’allevamento della vite. Si è formato dal mare, con rocce sedimentarie di limo e sabbia spesso venate da una rete di formazione minerale. Il terreno in superficie, uno strato sottile di argilla, assorbe la pioggia primaverile e la restituisce alle viti nelle estati secche. Il suolo cilentano integra l’acidità con una grande presenza salina, conferendo alle uve una personalità unica. Il clima mediterraneo poi mitiga il rigore dell’inverno ma anche le torride estati con una costante brezza marina favorendo maturazioni omogenee e anticipate. Queste caratteristiche uniche del suolo cilentano e del clima contribuiscono a creare vini di alta qualità con una personalità distintiva.

Ogni vino del Cilento racconta la propria storia, la storia di chi l’ha reso tale, una storia che rimanda a tradizioni antiche, tramandate da generazioni in generazioni. A questa tradizione, nel golfo di Policastro, appartiene un vitigno antichissimo, la “Reginella”, di recente tornato alla ribalta in quanto assieme alla “Racina Piccola” è stato finalmente iscritto al registro nazionale delle varietà̀ e dei cloni di vite dal Ministro dell’Agricoltura (GU n° 273 del 22 novembre 2023). Nella categoria dei vitigni ad uve da vino, la Reginella (o Buxentum) è registrato con il codice 996 (la Racina Piccola con il numero 997).

Le origini sono antichissime, si perdono nel tempo: risalgono a circa 2500 anni fa quando la vite vinifera chiamata “Aminea” fu introdotta la prima volta nel Golfo di Policastro dal popolo proveniente dall’Eolia (odierna Tessaglia). I custodi di tale vitigno, stabilitisi nei pressi del fiume Sele, si divisero: una parte di essi risalì verso Salerno, Benevento ed il Monte Massico, e un’altra andò a Sud del fiume, dando vita alla civiltà della Magna Grecia. I due gruppi portarono con loro costumi, usi e piante da coltivazione ed i loro vitigni: la Vitis Aminea. Alcune varietà di questi vitigni hanno dato poi origine nell’Ager Falernus, in epoca romana, al “vinum Falernum” già molto amato dagli antichi. A sud del Sele, gli Aminei trovarono il territorio dell’Enotria, terra di vino e dei piantatori di pali (per sostenere i tralci delle viti). Quì la vitis aminea fu ben ospitata e si diffuse fino all’agro bussentino, tramandata nei secoli, per propaggine o per talea, man mano adattandosi alle nuove condizioni pedoclimatiche. Nacque così il nuovo vitigno della Reginella.

Per dovere di cronaca occorre dire che esiste anche una teoria più recente, basata su studi di biologia molecolare, che abbraccia l’ipotesi dell’origine selvatica della pianta. La pianta, nei secoli, già nell’VIII secolo a.C. ai tempi dell’Enotria, sarebbe stata sottoposta dalle popolazioni indigene a fenomeni di domesticazione che hanno poi portato alla nascita di diversi vitigni, tra cui la Reginella che per le sue caratteristiche di vino forte e aspro era particolarmente apprezzato. E così il vitigno sarebbe sbarcato sulle coste greche, espandendosi poi verso il Medio Oriente e il Caucaso, compiendo storicamente il viaggio inverso di quello descritto dalla via classica del vino. In entrambi i casi, parliamo di un percorso lungo 2500 anni o più.

Sono molte le testimoniane della presenza di un vino bussentino in epoche antiche. Nel II-III sec., nei suoi scritti Ateneo racconta del vino del Buxentum (l’odierna Policastro Bussentino) come di “un vino aspro e digestivo simile al vino Albano”. Al tempo dei Romani, i nobili solevano pasteggiare con il “Vinum Buxentinum”.

Nel IV-V secolo Il cilentano Flavio Libio Severo, imperatore dell’impero Romano d’Occidente,ne era un accanito consumatore: la leggenda narra che sia stato avvelenato da una massiccia dose di veleno introdotta in una coppa del suo amato vino. Nel 1478, Ferdinando I d’Aragona diede ordine di acquistare 100 botti di vino di Policastro. Inoltre, sembra che, il papa Paolo IV Carafa, il papa irpino che perseguitò nel 1500 ebrei ed eretici, negli ultimi mesi di vita, vagasse per S. Pietro in preda al suo rimorso bevendo gran quantità di Reginella.

Nel luglio del 1843 la Chiesa estraeva dal Cilento e quindi anche da Policastro 100 botti di vino. A quei tempi, il vino cilentano era un vino aristocratico. A seguito dell’avvento della fillossera, il vitigno del golfo di Policastro divenne invece un vitigno del popolo.

E così è arrivato ai nostri giorni. Il Cilento più volte nella storia enologica ha giocato un ruolo da protagonista. A Moio della Civitella, un piccolo comune dell’interno, è ancora presente oggi una forma di allevamento della vite l’alberello cilentano a tutore secco, assimilata alla vitis pedata descritta da Plinio il Vecchio.

È noto che il Cilento, a partire dall’VIII secolo, è stato percorso da monaci basiliani di origine greco-bizantina ai quali si attribuisce la fondazione di monasteri, divenuti centri di ripopolamento e di messa a coltura di vaste aeree.

In una relazione sulla provincia di Salerno “La Statistica del Regno di Napoli del 1811” viene riportato un giudizio sul vino molto lusinghiero: “in generale la qualità dei vini è si buona, ma quelli del Cilento e con precisione quelli di Pisciotta e San Nicola sono gli ottimi della provincia…”. L’autore conclude con una riflessione, sul “miracolo” di produrre buoni vini, nonostante la mancanza di cure: “[…] È portentoso come vengano buoni mentre non si usa a migliorarli”. Una storia che affascina chiunque ne venga a conoscenza e che fa apprezzare ancora di più il gusto esemplare di un vino tipico cilentano.

Ad oggi, il vitigno è presente maggiormente nel territorio di Policastro dove ha trovato le migliori condizioni pedoclimatiche. Non è molto diffuso. Si ritiene che probabilmente lo stesso clone è impiantato in altri territori cilentani come a Marina di Camerota. E’ opportuno procedere alla sua identificazione nei vari areali.

La pianta della Reginella (nota anche come Buxentinum) non è mai stata innestata su portainnesto americano. È un vitigno piccolo dai tralci esili e flessibili adatti all’allevamento a Guyot (semplice, doppio o a cordone speronato) con gemme non troppo fitte ed un apparato fogliare modesto.

Predilige suoli limosi-sabbiosi leggermente alcalini, ricchi di macronutrienti (azoto, fosforo e potassio). Le radici, non troppo profonde, sembrano non soffrire l’abbondanza di acqua, specialmente nelle stagioni piovose, anzi traggono vantaggio da leggeri allagamenti. La fillossera non ha attecchito le radici del vitigno, che è rimasto a piede franco grazie al ristagno d’acqua di cui la pianta necessita e a cui l’insetto non resiste e grazie alla granulosità presente nei terreni. Il grappolo è spargolo, ramificato e a forma conica. Gli acini sono piccoli e tondi, non troppo distanziati tra loro; ciò consente il passaggio di luce e aria prevenendo la formazione di muffe e miosi e anticipando la maturazione.

La buccia è poco spessa, quasi setosa e ricca di pruina; la polpa non è abbondante ma è molto zuccherina con due vinaccioli responsabili della quota tannica, buona e non molto astringente. La resa in vino è circa del 55% del peso dell’uva. Le gemme germogliano verso fine marzo/inizio aprile; la fioritura avviene nella seconda/terza decade di maggio e l’invaiatura verso fine luglio. La maturazione si completa a settembre inoltrato, momento più adatto alla vendemmia e alla vinificazione.

La cromaticità del succo d’uva Reginella fermentato è un vivace rosso rubino grazie all’abbondante presenza di antociani quali Malvidina, Peonidina, Cianidina, che dopo un periodo di maturazione di almeno 3 anni, vira sulle tonalità del granato. La buccia inoltre ospita un’abbondante varietà di sostanze odorose che regalano al vino sensazioni floreali, minerali e di spezie che si liberano in fase fermentativa. Ha nel suo corredo aromatico il Geraniolo con profumo di rosa e l’Eugeniolo con profumo di chiodi di garofano, e molti altri che riportano anche note fruttate e ad erbe aromatiche.

Un biologo per professione, Vincenzo Latriglia, ma contadino per nascita e passione come lui si definisce, figlio del territorio regno dell’uva regina, per vocazione, per una promessa fatta al padre, per un dovere verso le future generazioni ha intrapreso un lavoro di impianto, moltiplicazione e diffusione delle barbatelle di Reginella. “A rriginella”, come la chiamava il papà di Vincenzo, potrà così essere maggiormente diffusa, impiantata, coltivata e vinificata. È un micromondo di storie, di vigne e di pensieri. È una terra di testarde attese e di cuori resilienti.

L’incontro nel calice della grande Reginella è un momento che difficilmente si dimentica. La degustazione, organizzata dal brigante contadino Mario Notaroberto, che sta aiutando Vincenzo Latriglia nell’individuare la migliore via di maturazione ed affinamento, ha previsto 3 assaggi diversi:

  • Vendemmia 2023 – Blend di Reginella e Malvasia unite ad un blend di Aglianico con Merlot.
    • Un vivace e limpido rosso rubino anticipa il sentore di piccoli frutti rossi, come il lampone, e di rosa canina. Un secondo vortice del bicchiere porta al naso la prugna, la mineralità e un ricordo di pietra bagnata, sentori ulteriormente presenti nelle vie retronasali. Al palato l’impatto del vino è equilibrato, grazie al calore e alla morbidezza che bilanciano verticalità e sapidità elementi essenziali per una lunga maturazione.
  • Vendemmia 2019 – Blend di Reginella maturata per due anni in acciaio mescolata nel 2022 ad un Aglianico del 2021: il Blend è rimasto per 12 mesi in barrique.
    • Il bicchiere accoglie un vino limpido dal bel colore granato con riflessi violacei, i cui sentori di prugna, viola, mora e miele si manifestano alle prime olfazioni. Le vie retronasali amplificano il corredo aromatico con note di caffè, cuoio e tabacco. Al palato il sorso è caldo e morbido, fresco e sapido, ma nel finale denota un tannino che deve ulteriormente levigarsi. L’aglianico sembra emergere sulla Reginella.
  • Vendemmia 2022 – Reginella in purezza:
    • Vitalità è la prima percezione che si manifesta alla vista a cui segue l’incantevole rosso rubino con affascinanti riflessi della luce ogni qualvolta si compie la rotazione del bicchiere. Un’importante consistenza anticipa la struttura complessa del vino.

Dal complesso bouquet si sprigiona un ventaglio di fragranti profumi di frutta di prugna, arancia sanguinella, pesca rossa, amarena sotto spirito, fusi a note di rosa e piccoli fiori rossi, con delicate presenze di pepe nero, cuoio e miele di acacia che lasciano spazio nel finale ad un aroma ematico retronasale.

Appagante al palato, il sorso è pieno, avvolgente e strutturato, quasi masticabile. Si sviluppa un equilibrio perfetto con freschezza e mineralità ben supportate dalla voce calorica e dalla morbidezza. Il tannino presente accompagna il sorso con eleganza verso un finale che ricorda la brezza marina e macchia mediterranea.

Il vino Reginella ha carattere, è attraente, è espressione del territorio. Si distingue nella qualità complessiva e merita di essere tutelato e portato alla conoscenza degli appassionati bevitori. Qualcuno azzarda a definirlo “l’Amarone del Cilento”. Sarebbe un peccato, dopo il riconoscimento ministeriale, interrompere questa tradizione e questo lungo lavoro. Il Cilento, nella veste dei suoi amministratori e del Parco Nazionale, dovrebbe avere maggiormente a cuore il futuro di questo vitigno e giocare un ruolo più incisivo nell’impegno per la sua salvaguardia e diffusione. Intanto si attende nell’immediatezza l’ulteriore passaggio burocratico che prevede l’inserimento di quest’uva nelle liste dei vitigni autoctoni approvati dalla provincia di Salerno.

Questo porterebbe all’inclusione del vitigno nella DOC Cilento ed una sua maggiore tutela. E chissà, le strade potrebbero aprirsi verso l’identificazione di una DOC oppure di una sottozona all’interno della DOC Cilento già presente.

Chianti Classico Collection 2024: “3 C scritte a 4 mani”

Abbiamo ancora nella mente le splendide emozioni suscitate dalle Anteprime di Toscana 2024 e dalla due giorni di Chianti Classico Collection alla Stazione Leopolda di Firenze. La culla del Rinascimento italiano per una settimana nell’anno diventa anche la culla del vino nel mondo. Pronunciare Chianti Classico significa raccontare territori incantevoli, dove la fatica dell’uomo è riuscita ad abbellire ciò che è già magnifico di per sé.

Un universo di meraviglie, un racconto diverso ogni volta. Tantissime le aziende presenti ai banchi di assaggio. Oltre 500 le referenze messe in degustazione per la stampa di settore, tra cui c’eravamo anche noi di 20Italie, con il direttore Luca Matarazzo ed i redattori Alberto Chiarenza, Adriano Guerri e Ombretta Ferretto. A loro il compito bellissimo e arduo di selezionare i migliori assaggi tra Chianti Classico Annata, Riserva e Gran Selezione, per poi intervistare alcuni tra i rappresentati di prestigio dell’areale.

Un ringraziamento particolare va alla Regione Toscana per l’organizzazione semplicemente perfetta della settimana di Anteprime di Toscana ed alle referenti Silvia Fiorentini e Caterina Mori del Consorzio Vino Chianti Classico per averci dato piena assistenza durante la kermesse.

Ma adesso è giunto davvero il momento di lasciare spazio e voce alle emozioni dei nostri autori, che sapranno trasmettere certamente lo spirito di gruppo e le vibrazioni dell’aver preso posto in un luogo dove si fa la storia del vino.

Alberto Chiarenza

La recente edizione del Chianti Classico Collection 2024 ha segnato un vero trionfo, con la partecipazione di rinomati giornalisti ed esperti del settore provenienti da buona parte del mondo. Le mie aspettative erano alte e la manifestazione non mi ha certamente deluso, con le degustazioni in anteprima che confermano un trend verso vini di altissima qualità. Un cambiamento significativo è stato notato nell’approccio alla vinificazione, con una diminuzione dell’uso del legno a favore di vini più freschi e verticali. Tuttavia, la tradizione non è stata abbandonata, ma rielaborata in modo da mantenere l’autenticità senza appesantire il palato con sentori eccessivi di legno. Bellissima esperienza condivisa con amici e colleghi di 20Italie come Adriano, Ombretta e il direttore Luca Matarazzo.

Ombretta Ferretto

Chianti Classico Collection 2024 è stata un’occasione avvincente per abbracciare in un unico colpo una denominazione complessa e apprezzarne le numerose sfaccettature del territorio. Grazie all’ottimo lavoro di squadra con il direttore Luca Matarazzo e i colleghi Alberto Chiarenza e Adriano Guerri, in due giorni sono stati passati al vaglio circa cinquecento campioni tra Annata, Riserva e Gran Selezione. Non mi è mancata occasione di approfondire in verticale specifici territori e la storia della denominazione attraverso importanti realtà produttive: Gaiole, con Ricasoli e Castello di Ama, entrambe impegnate in accurate zonazioni espressive degli specifici areali,  San Donato in Poggio, con Castello di Monsanto e il primo cru di Chianti.

Adriano Guerri

La Chianti Classico Collection suscita molto interesse da parte di noi amanti di Bacco. Questa edizione è stata ricca ed appassionante con amici di viaggio molto preparati e affabili. Momenti di confronto in degustazione molto costruttivi, senza lasciare nulla al caso. Ringrazierò sempre il direttore Luca Matarazzo per la possibilità, Ombretta Ferretto e Alberto Chiarenza per aver trascorso assieme due giornate emozionanti. La citazione musicale “Tu chiamale se vuoi emozioni”, del duo Battisti-Mogol, calza a pennello.

Luca Matarazzo (direttore)

Indubbiamente questo è “l’evento degli eventi”. Sono giunto all’ottava partecipazione e ogni volta è un’emozione diversa. Tanti colleghi ed amici da tutto il mondo pronti a confrontarsi con un mito del Made in Italy, che ha vissuto anche momenti delicati e cruciali. Dalla ripresa post scandalo al metanolo di metà anni ’80, il trend in positivo non ha mai smesso di arrestarsi. Adesso non si discute più di qualità, ma di sostenibilità ed i dilemmi imposti dal climate change rappresentano la vera sfida per il futuro. Per intanto però, godiamoci con un sorriso i primi 100 anni del Consorzio Vino Chianti Classico e del suo Gallo Nero, emblema di un vino unico e inimitabile.

Tutte le interviste le troverete cliccando sul seguente link di youtube.

Leggi anche le nostre impressioni 👇🏻

Lazio: è sempre tempo di Cesanese

Le feste sono finite da un pezzo ormai, eppure non si è mai troppo stanchi per parlare di Cesanese declinazione Docg Del Piglio

“La befana viene di notte con le scarpe tutte rotte” recitava un canto popolare, ma per gli appassionati del vino è venuta di giorno (anche se in realtà ne sono arrivate due). Il 6 gennaio 2024, il Consorzio del Cesanese del Piglio DOCG, in collaborazione con AIS Lazio, ha organizzato un evento per appassionati, operatori, stampa e Sommelier.

Il Cesanese all’Acquario Romano presentato da AIS Lazio, con la presenza del Presidente Regionale Francesco Guercilena, Angelo Petracci, Docente e Responsabile Guida Vitae Lazio, Umberto Trombelli Delegato AIS Latina,  e poi Ilaria  De Donato, Delegata AIS Fiumicino e Ostia, insieme a Sonia Scala si sono mascherate da befane aggiungendo allegria alla manifestazione.

Una manifestazione improntata sull’autoctono del Lazio che, dopo trascorsi umili, ora sta salendo alla ribalta dei vini che contano. La festa dell’Epifania è stata festeggiata dal Consorzio del Cesanese del Piglio con 13 aziende in un evento in cui il focus è stato la varietà locale tipica della Ciociaria, areale del Lazio meridionale.

Ingresso gratuito e una Masterclass tenuta da Angelo Petracci e Francesco Guercilena con la partecipazione di Pina Terenzi, Presidente del Consorzio Cesanese del Piglio, oltre che dell’Associazione Donne in Campo. Tanti gli appassionati e operatori del vino che hanno partecipato e provato i vini eleganti e serbevoli allo stesso tempo.

Le cantine partecipanti

Cantina Giovanni Terenzi

Casale della Ioria

L’Avventura

Petrucci e Vela

Pileum

Casal San Marco

Cerciole

Sbardella

Federici

Azienda Agricola Rapillo

Corte dei Papi

Marletta Teresa Maria Elena Sinibaldi

Salute & Sake Giapponese, binomio tangibile

Il sake giapponese, ossia il nihonshu, è un fermentato fatto col riso, l’acqua, il Saccharomyces cerevisiae e il koji, un fermentato che nei millenni è diventato un vero e proprio culto, esattamente come il vino, incontrando il consenso e il gradimento di intere generazioni di giapponesi nei secoli, indipendentemente dall’età, dall’estrazione sociale e dal livello culturale, che da almeno una decina d’anni sta spopolando anche nel mondo occidentale.

La società giapponese, costantemente con un piede nel passato ed uno nel futuro, vede nel millenario fermentato un centro di gravità permanente su cui soffermarsi ad osservare, commemorare, celebrare e tramandare la sua origine e la sua storia: infatti il nihonshu, come un grandissimo e sinuoso fiume, ha attraversato il tempo ed ha permeato tutti i campi dell’umana conoscenza,diffusa in Giappone attraverso i settori di applicazione più disparati, come architettura navale, artigianato, letteratura, religione e arte ad esempio, consentendo a questo popolo straordinario e laborioso di progredire ed evolversi, giungendo persino a praticare la pastorizzazione con 300 anni di anticipo rispetto a Pasteur.

Conversare sul Sake dunque, magari versandone in un in un sakazuki, in un guinomi, in un masu, in un ochoko, oppure in un calice da vino, è di certo una forma di accrescimento culturale, proprio grazie a quel che riesce a rievocare anche solo la gestualità col quale lo si offre, per rituale o informale che sia. Inequivocabilmente un sorso di nihonshu può catapultarci idealmente nel passato, facendoci rivivere gesta di personaggi storici e leggendari: ecco perché questa bevanda millenaria è cultura, emozione ed edonismo allo stato puro… oltretutto la componente edonistica, la capacità del sake di disinibire, è evidente, innegabile: convivialità a tavola, degustazioni ed abbinamenti, relegano piacere di stare assieme, piacere nell’assaporare, piacere di scoprire, piacere di emozionarsi, piacere di celebrare, piacere di imparare tutto ciò che attiene al mondo del nihonshu e quindi al suo consumo.

Ma il sake, oltre che dare gioia e piacere, giova anche alla salute: intanto è bene considerare sempre il fatto che il sake è un alcolico, pertanto l’abuso non porta mai a conseguenze positive ma, bevuto responsabilmente, ha degli effetti benefici riconosciuti e non si tratta semplicemente di rendere un po’ più allegri e disinvolti in pubblico, quanto di veri e propri effetti positivi sull’organismo, sostenuti da ricerche scientifiche. Quindi, bevuto nelle giuste quantità, il sake apporta effetti benefici tangibili alla nostra salute.

Riduce la tossicità dell’etanolo, il senso di affaticamento e favorisce il sonno

Un team di ricercatori dell’Istituto di Scienza e Tecnologia di Nara ha scoperto un ceppo di lievito mutante per la produzione del nihonshu: l’obiettivo di base era quello di isolare i ceppi che avessero più tolleranza rispetto all’etanolo, arrivando a scoprire dall’inizio quelli maggiormente capaci ad accumulare la prolina, sostanza capace di ridurre la tossicità dell’etanolo stesso. In effetti, durante la sperimentazione sono stati isolati anche dei lieviti in grado di produrre una quantità di ornitina, un amminoacido che ha un ruolo importante nel ciclo dell’urea, 10 volte superiore rispetto ad un lievito normale. Inoltre l’ornitina svolge diverse funzioni fisiologiche molto importanti tra cui la riduzione della fatica, un ritrovato effetto rilassante e il miglioramento qualitativo del sonno.

Riduce il rischio di cancro

Il Centro Nazionale dei Tumori in Giappone ha condotto un sondaggio durato 17 anni su 265.000 volontari giapponesi per scoprire che coloro che bevono ogni giorno sake hanno un minor rischio di sviluppare un cancro rispetto ai non bevitori di sake. Il dott. Okuda, responsabile del Dipartimento medico dell’Università di Aichi, ha dichiarato che i risultati della ricerca hanno evidenziato che alcuni elementi del sake inibiscono la proliferazione delle cellule del cancro della vescica, della prostata e dell’utero. La glucosamina nel sake attiva anche le cellule anti-tumorali, i cosiddetti linfociti Natural Killer. Inoltre, il sake ha dimostrato di causare un tasso di mortalità più basso da cirrosi e cancro del polmone rispetto ad altre bevande alcoliche come birra, whisky e shochu.

Previene cardiopatie, malattie cerebrovascolari ed il morbo di Alzheimer

Si è già detto che bere responsabilmente e con moderazione il sake aiuta a prevenire malattie cardiache e cerebrovascolari, disinnescando la formazione di coaguli sanguigni e riducendo il colesterolo: infatti L’assunzione di sake aumenta l’urochinasi, una sostanza con effetto trombolitico, ossia disgregante dei coaguli di sangue. Il sake kasu, quindi i sedimenti del sake, hanno un ulteriore effetto di riduzione del livello di colesterolo; inoltre è stato scoperto che i 3 tipi di peptidi specifici del nihonshu, di cui si faceva precedentemente cenno, aiutano a prevenire l’insorgere del morbo di Alzheimer e la demenza vascolare, grazie appunto al loro effetto inibitorio sul PEP (Postencephalitic Parkinsonism), principale colpevole della malattia.

Previene l’osteoporosi

Gli amminoacidi nel sake, come ad esempio valina, leucina e isoleucina, aiutano a recuperare e costruire i muscoli scheletrici, prevenendo l’osteoporosi. Inoltre il koji, uno degli ingredienti principali del sake, ha 5 tipi di inibitori catepsina-L che aiutano a prevenire l’osteoporosi.

Previene il diabete e la pressione alta

Anche in questo caso grazie agli studi condotti è stato possibile trovare un attivatore simile all’insulina nel namzake e nei sedimenti del sake. Infatti il diabete si verifica a causa di una carenza di insulina e l’attivatore di insulina nel sake può aiutare a risolvere questo problema, prevenendo così l’insorgenza del diabete. Inoltre previene l’ipertensione, tra le primissime cause di malattie cerebrovascolari come ictus, piuttosto che angina pectoris ed attacchi di cuore. Il sake ha nello specifico ben 9 tipi di peptidi: 3 tipi nel fermentato ed altri 6 tipi nei suoi sedimenti, i quali inibiscono talune attività enzimatiche che, se in eccesso, causerebbero appunto la pressione alta.

Previene il sovrappeso e riduce il tasso di mortalità

Per quanto si possa pensare che il sake faccia ingrassare a causa dei carboidrati contenuti anche in forma zuccherina, le calorie di questo fermentato non sono così alte come si potrebbe suppore e, a parità di quantità ingerita, risultano inferiori a quelle della birra ad esempio. Si consideri inoltre che il nihonshu ed i sedimenti ivi contenuti sono veicoli di sostanze che inibiscono l’assorbimento dell’amido e promuovono quello delle proteine. Dunque il sake può prevenire problemi di sovrappeso a patto che sia bevuto con moderazione e addirittura ridurre il tasso di mortalità: sono molti gli studi che affermano che i bevitori occasionali o moderati sono meno soggetti ai rischi di mortalità rispetto agli astemi ed agli alcolisti assidui, lo confermano anche le ricerche condotte dall’American Council on Science and Health. Il consumo moderato è sempre alla base di tutto, a prescindere dagli effetti positivi o meno del sake, da considerarsi una bevanda salubre ed alla base di un ottimo stile di vita, mai una medicina miracolosa!

Favorisce la salute del derma

Il sake viene impiegato da secoli in Giappone come tonico per la pelle, consuetudine praticata tutt’oggi con effetti benefici evidenti sull’aspetto e la salute dermatologica e ciò grazie al suo contenuto in saccaridi ed amminoacidi, sostanze che una volta estratte diventano i principi attivi di cosmetici specifici. Il sake contiene anche α-Ethyl Glucoside (α-EG), sostanza che generalmente conferisce in termini gustativi un senso di amarezza al gusto del sake, quasi di mandorla amara; nell’ambito dermatologico questo α-EG favorisce la corneificazione delle cellule epidermiche e quindi aiuta a prevenire il fenomeno della secchezza della pelle, ecco perché in Giappone il sake viene impiegato sia nei bagni termali che nei centri estetici. In realtà questo non è l’unico estratto del sake a favorire il benessere e la cura del derma poiché, rispetto ad altre bevande alcoliche, il nihonshu ha elementi molto più idratanti come il glicerolo, o la glicerina, e gli amminoacidi, elementi che pure trovano impiego nei cosmetici. Basterebbe aggiungere un po’ di sake nell’acqua della vasca da bagno per migliorare gli effetti idratanti e di ritenzione del calore rispetto al bagno, anche grazie alle numerose interazioni tra le centinaia di sostanze nutritive disciolte nel sake, quindi non soltanto gli aminoacidi ed i saccaridi, bensì gli acidi organici, gli acidi nucleici, gli esteri e le vitamine. Il sake, i sedimenti di sake e il koji hanno oltretutto una varietà di sostanze che inibiscono l’attività della melanina, principale colpevole di macchie solari, macchie senili e lentiggini, pertanto non c’è da stupirsi se i kurabito abbiano mani lisce ed immacolate.

Previene le allergie ed è un potente anti età

Il sake aiuta a prevenire le allergie sia applicandolo sul corpo che bevendolo. Infatti alcuni studi riportano che l’eczema atopico può essere alleviato applicando il sake alla parte interessata. Il merito di questo effetto è attribuito all’azione idratante del sake. Per quanto attiene al consumo sappiamo che il sake e il koji contengono 5 tipi di sostanze che inibiscono l’enzima chiamato catepsina B, causa principale dell’insorgenza di alcune allergie. L’assunzione moderata di sake può prevenire allergie da pollini, cibo e acari della polvere di casa, inoltre il sake contiene antiossidanti chiamati acidi ferulici, che possono avere un effetto anti-age: costituiscono un potente assorbitore di luce UV, prevenendo l’invecchiamento della pelle, oltre ad essere un validissimo antiossidante, favorendo la perossidazione lipidica, aiutando quindi a mantenere la pelle giovane. Da non tralasciare un fattore altrettanto determinante: il sake non contiene solfiti. Insomma il nihonshu è quella bevanda biodisponibile per l’organismo che non litiga mai col cibo, arricchisce culturalmente e professionalmente, coadiuvando al benessere ed alla bellezza della persona.