Cortona: intervista alla produttrice di vini Chiara Vinciarelli

di Adriano Guerri

Lo scorso 18 marzo ho partecipato all’evento dedicato alla Syrah, nella suggestiva cittadina di Cortona. La kermesse Chianina & Syrah è giunta alla sesta edizione ed oltre a dare risalto alla denominazione Cortona Doc, valorizza anche un’altra importante eccellenza del territorio, come la carne della razza chianina, binomio perfetto tra cibo e vino.

Ho partecipato all’evento per la prima volta degustando vari esemplari ottenuti rigorosamente da uve Syrah. Mi sono avvicinato con curiosità e piacere al banco d’assaggio della produttrice Chiara Vinciarelli ed oltre a degustare i suoi tre vini, presenti appositamente per l’occasione, mi ha descritto l’azienda che porta il suo nome, attraverso alcune domande rilasciate per i lettori di 20Italie.

A sinistra la produttrice Chiara Vinciarelli

Chiara Vinciarelli racconta:

<<La mia azienda si trova in località Valiano del comune di Montepulciano (SI) e possiede terreni e vigneti estesi su una superficie  di 5 ettari sia nel comune di Montepulciano in provincia di Siena sia nel comune di Cortona in provincia d’Arezzo. Nei miei vigneti coltivo, Syrah, Sangiovese e Chardonnay. La scelta della Syrah è dovuta al territorio, quando alcuni produttori agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso hanno scoperto che nelle loro vigne si trovavano alcune piante di questo vitigno. Da un’indagine condotta e vari approfondimenti hanno constatato che dava origine a vini di eccellente qualità. L’ intero areale di Cortona era vocato per la coltivazione della Syrah e si è diffuso, da allora in maniera esponenziale. Sino ad allora, erano conosciuti i vini della Côtes du Rhône e pochi di altri areali del nuovo mondo. Anch’io ho voluto coltivare questo vitigno all’interno della Cortona Doc. Le vigne si trovano a 10 km dal centro abitato di Cortona, nella mia azienda svolgiamo anche attività agrituristica ed organizziamo visite in cantina e degustazioni guidate, accompagnate ad assaggi di prodotti locali. Per il primo vino che degusterà, il Castore, ho utilizzato una bottiglia borgognotta come  prevede il disciplinare,  mentre per il Polluce utilizzo ancora la bottiglia bordolese, perché è la mia preferita. In azienda produciamo altri due vini: Alcyone ottenuto interamente  con  Sangiovese e Stella Bianca, un bianco ottenuto con uve di Chardonnay>>.

Concludendo la mia  degustazione, Chiara oltre a ringraziarmi, mi invita a recarmi in azienda… e sinceramente non vedrò l’ora di farlo!

I vini da me degustati :

Castore Igt Toscana Syrah 2021– veste rosso rubino intenso e luminoso, emana sentori di ciclamino, ribes, mirtillo, mora e amarena, dal sapore fresco, immediato e gustoso.

Pollùce Cortona Doc Syrah 2020 – rubino vivace, sprigiona al naso essenze di pepe nero, prugna e frutti di bosco, unite a nuances di vaniglia, tabacco e liquirizia. Finale di bocca pervaso dal tannino nobile e avvolgente.

Pollùce Cortona Doc Syrah 2019 – Rubino intenso e quasi impenetrabile, rivela sfumature olfattive di mirtilli, more selvatiche, felce, bacche di ginepro e pepe bianco. Sorso ricco, rotondo e appagante, sorretto da una buona spalla acida e da trame tanniche setose e armoniose.

Chapeau!

Il Nihonshu: il Sakè giapponese rapportato alla Dieta Mediterranea

di Gaetano Cataldo

Le tre principali religioni monoteiste del bere fermentato sono inequivocabilmente il vino, la birra e il sake giapponese, a dimostrazione del fatto che il dio Bacco non è mai stato né monotono né monofago, approdando persino nelle terre del Sol Levante per insegnare all’uomo cosa estrarre dal riso (e con cosa) e per brindare al miracolo dell’esistenza.

Esattamente come per sorella birra e fratello vino anche il sake giapponese ha una storia millenaria, da bevanda sia popolare che elitaria: il suo racconto è intriso di cultura, arte, storia e letteratura e riesce ad abbracciare tutte le umane attività, nondimeno religione, bellezza e salute. Insomma il sake non è certo una moda, ma fa decisamente tendenza, se così si può dire, ed accompagna l’uomo nel lungo corso del fluire del tempo, testimoniandone l’evoluzione e contribuendo alla nascita della Civiltà Nipponica.

Il fermentato più famoso del Giappone è diffuso in tutto il mondo. Si pensi che ebbe il suo esordio ufficiale dinanzi al grande pubblico occidentale proprio durante la prima Weltausstellung (Esposizione Universale) del 1873, nell’allora capitale dell’impero austro-ungarico; non soltanto famoso, ma anche prodotto in tutto il mondo, anzi imitato in tutto il mondo! Il sake è entrato di fatto nella quotidianità, ricoprendo un ruolo tanto alimentare quanto edonistico, sulle tavole dei Paesi Orientali e diventando un ottimo pairing per pietanze raffinate d’ogni sorta, persino come ingrediente principale in moltissimi cocktails, come il saketini, capostipite della miscelazione a base del fermentato di riso, inventato nel Queens dallo chef Matsuda nel 1964.

Ma facciamo subito chiarezza: ciò di cui si vorrebbe disquisire nel corso di questo pezzo in realtà si chiama Nihonshu!

Infatti con il termine sake viene indicatomolto genericamente l’alcool, mentre con la parola nihonshu, scritta allo stesso modo e probabilmente inventato dai samurai per diversificare la loro bevanda nazionale dalle altre importate nell’arcipelago, tendiamo a definire un prodotto che deriva dalla fermentazione del riso con aggiunta di acqua e koji, una sorta di spora fungina o muffa. Inoltre, perché lo si possa denominare nihonshu, occorre venga sottoposto a filtraggio, fatti salvi diversi stili di lavorazione e, al di sopra di ogni cosa, deve essere prodotto e imbottigliato integralmente ed esclusivamente in Giappone.

Un po’ di storia…

Con buona probabilità, il casuale processo di fermentazione del riso ha avuto origine in Cina attorno al V millennio a.C. nei pressi del Fiume Azzurro, per quanto altre fonti sostengano  sia avvenuto in prossimità del Fiume Giallo, durante il periodo della dinastia Shang, tra il XVII ed il XI secolo a.C. Nella grande Cina, tre secoli prima della nascita di Gesù Cristo, viene fatta menzione di una particolare muffa per la prima volta nello Zhouli, libro dei riti della dinastia Zhou, che in seguito verrà classificata come Aspergillus Oryzae, ossia quel fungo filamentoso cui si accennava prima e di estrema importanza per l’alimentazione in tutto l’Estremo Oriente.

Ciò non significa che il sake abbia realmente avuto origine in Cina, per quanto la bevanda più prossima ad esso sia il cosiddetto huang-jiu. Solo grazie al know-how cinese sulla coltivazione del riso il Popolo Giapponese ha imparato a sostenersi sulle proprie gambe, diventando una civiltà autonoma, e inventando il fermentato tra il 300 a.C. e il 300 d.C. nella versione ancestrale del kuchikami no zake, fino ad arrivare ai nostri giorni, ai processi innovativi ed alle attuali espressioni di questa iconica bevanda.

Ovviamente è facile immaginare certi abbinamenti col nihonshu: sushi, ostriche e sashimi ne sono un esempio piuttosto lampante e diffuso. E se invece vi suggerissero di sorseggiarlo con la nostra amatissima Dieta Mediterranea?

Statene certi perché lo dico dal 2017: il nihonshu, ed il modello nutrizionale mediterraneo per il quale l’Italia è indiscussa capitale, vanno a nozze!

Intanto cominciamo col rilevare che l’Italia, per gran parte, e il Giappone sono circondati dal mare, hanno uno sviluppo territoriale che si estende in lunghezza e non in ampiezza, oltre ad essere Paesi vulcanici e sismici imbrigliati nella stessa fascia di latitudine.

Va rammentato che tra i Paesi le cui osservazioni hanno dato vita allo studio epidemiologico condotto dal celebre Ancel Keys a partire dal 1957, colui che coniò il termine “Dieta Mediterranea” e ne enunciò i dettami, v’era anche il Giappone. Infatti il Seven Countries Study, ideato, coordinato e condotto per molti anni dal prof. Keys, è stato uno studio epidemiologico di monitoraggio eseguito su oltre 12 mila persone di età compresa tra 40 e 59 anni, appartenenti a 16 aree situate in sette Paesi dislocati in tre continenti. Le analisi ottenute dalle osservazioni fanno riferimento alle relazioni intercorrenti tra abitudini alimentari e malattie del sistema cardiocircolatorio: in via generale, l’incidenza e la mortalità coronarica risultavano decisamente più elevate nelle aree del Nord Europa e del Nord America e più basse nelle coorti del Sud Europa e del Giappone.

Ebbene le assonanze tra la Dieta Mediterranea e la Cucina Giapponese sono evidenti almeno dagli anni ’70 del secolo scorso e sottolineano quanto un consumo di alimenti variegati, privilegiando materie prime di origine vegetale, incluso un sano stile di vita, siano tratti comuni dei centenari del Cilento e del Giappone, seppur con ingredienti differenti ma dallo stesso valore nutraceutico e, talvolta, dal simil profilo organolettico.

Piaccia osservare che, per quanto con sfumature e costumanze diverse, il Popolo Giapponese e quello Italiano amano dare il benvenuto a tavola, proprio perché come nella Dieta l’ospitalità, la condivisione del buon cibo e del buon bere sono elementi inscindibili di un grande, genuino senso di convivialità.

Per quanto si possa giustamente ritenere che natto, salsa di soia, miso e tofu siano elementi “alieni” alla nostra idea locale di gastronomia, è bene ribadire che i Paesi del Mare Nostrum non sono assolutamente estranei ai cibi fermentati: ne sono esempio il kefir, la colatura di alici e le olive in salamoia. Inoltre non è recentissima la diffusione di modelli di ristorazione che fondano la loro filosofia su piacevoli contaminazioni e tecniche come la latto-fermentazione Katsuobushi? Rispondo: bottarga, acciughe sotto sale e la stessa colatura di alici appunto! Tofu? mozzarella o parmigiano reggiano, a seconda del grado di stagionatura della cagliata di soia. Alga Wakame? Puntarelle ed agretti con i condimenti a noi più cari, pomodori secchi e chi più ne ha più ne metta!

La chiave di volta dell’abbinamento è nel fattore umami e nella considerazione che, grazie ad un quinto in meno dell’acidità contenuta mediamente in un vino, il nihonshu non litiga mai col cibo. Insomma crudità sia di mare che di terra, risotti, formaggi, funghi e tartufi, verdure grigliate, salumi, frittate e carni pregiate si offrono piacevolmente al pairing con il nihonshu.

Dunque buon nihonshu a tutti e… kampai!

La Liguria al Vinitaly 2023: emozioni liquide nel calice

di Olga Sofia Schiaffino

Si è appena conclusa la 55esima edizione di Vinitaly e tra gli assaggi più interessanti menzioniamo sicuramente i vini liguri, che brillano per espressione di territorialità e per capacità di stupire il wine lover appassionato. (n.d.r. vogliamo iniziare proprio dalla Liguria il nostro lungo spazio dedicato alla Fiera vitivinicola più importante d’Italia. Seguiranno ulteriori approfondimenti dei redattori di 20Italie).

Ca du Ferrà, al Padiglione 8 Fivi, ha presentato il passito Diciassettemaggio da un antico vitigno autoctono denominato “Ruzzese”. Il progetto di recupero, in collaborazione con il CNR – Istituto per la protezione sostenibile delle piante – Coldiretti di La Spezia e Regione Liguria, è iniziato nel 2007, quando Davide Zoppi e Giuseppe Luciano Aieta hanno messo a dimora le prime 77 barbatelle: attualmente le piante sono circa 1500, distribuite su cinque terrazze che guardano il mare, e la prima vendemmia è avvenuta nel 2020.

Le uve raccolte sono state messe in cassette ad appassire, i grappoli sgranati a mano dopo due mesi. Il vino si offre con un manto dorato scintillante, un corredo olfattivo che si articola sui sentori di macchia mediterranea e sulle note fruttate di fico maturo. La dolcezza è ben compensata dalla acidità, il finale lungo e la chiusura sapida.

Il passito da Ruzzese, selezionato persino da Sante Lancerio, era molto amato nel XVI secolo da Papa Paolo III Farnese e ritorna oggi a regalare a chi lo assaggia emozioni autentiche. Il vino è dedicato a Giuseppe, perché celebra la data del suo compleanno e la bottiglia è elegantemente vestita con i colori turchesi dell’azienda.

Sempre al Padiglione Fivi  la Signora del Rossese di Dolceacqua Giovanna Maccario, azienda Maccario Dringenberg, ha presentato un’anteprima non ancora in bottiglia che raccoglie le uve delle nomeranze Posaù, Luvaira, Berna, Nouvilla, Sette Cammini vendemmia 2022; la siccità e la scarsa produzione hanno fatto optare Giovanna per realizzare un vino unico, che vuole celebrare il nonno e il prozio, premiati durante il Regno d’Italia per il Rossese di Dolceacqua.

Fratelli Maccario 1922″ (campione di botte) si presenta con l’eleganza caratteristica dei vini di questa cantina: lo aspetteremo, per tutto il tempo che Giovanna vorrà regalargli prima di imbottigliarlo.

La Pietra del Focolare, con il sorriso e la simpatia di Laura Angelini, Linda e Stefano Salvetti hanno presentato la nuova produzione che vede il vermentino quale protagonista indiscusso; da segnalare “Anfora”, le cui uve vengono macerate in acciaio da settembre a maggio e poi passano in anfora Tava di terracotta non vetrificata.

Azienda Agricola Linero propone Il Colli di Luni Superiore “Del Generale”, blend di Vermentino 90%, Malvasia 5% e Trebbiano 5% che provengono dalla famosa vigna del generale Tognoni, eroe decorato della Prima Guerra Mondiale e grande amico di Luigi Veronelli.

Tenuta Maffone riesce sempre a stupire, uscendo con un “Superligurian” dal nome dialettale Vuscià (appellattivo con il quale ci si rivolge con rispetto a una persona, dando del “voi”) che ha conquistato un posto tra i 5Star Wines – the Book 2023. Si tratta di un vino ottenuto da Ormeasco, vendemmia 2016, affinato in legno e in anfora. Tiratura davvero limitata, 1720 bottiglie e 120 magnum.

Baia del Sole della famiglia Federici a Luni ha effettuato la sperimentazione della cantina subacquea con la partnership di Jamin Underwater Wines per il suo pregiato metodo classico Giulio F56: risultati molto promettenti da una tecnica sotto fase di studio da parte di numerose Università ed esperti di settore.

Rocca Vinealis nello stand di Vite In Riviera ha presentato la sua produzione di Granaccia: una giovane azienda che ha ripreso la viticoltura in un territorio di montagna, al confine con il Piemonte.

Paolo Bosoni della cantina Lunae ha ricevuto il premio Angelo Betti, riconoscimento intitolato alla persona che ebbe l’intuizione del progetto Vinitaly, che viene assegnato dal 1973 ai benemeriti della viticoltura italiana, Meritassimo, per la presenza sul territorio lunense da oltre 4 generazioni, per la conservazione delle tradizioni e della cultura contadina nel Museo della Culturale Materiale del Vino e per i vini che hanno raccontato la Liguria in tutto il globo.

Presso lo stand del distributore Bolis abbiamo incontrato la cantina Giacomelli, con Roberto Petacchi ed il Vermentino delle etichette “Boboli” e “Pianacce”, premiati anche quest’anno da The Wine Hunter. La presenza di Regione Liguria con il vice presidente assessore Alessandro Piana ha testimoniato l’importanza di promuovere la viticoltura ligure, chi lo produce e chi la comunica. Agricoltura sempre eroica e che sa accogliere le sfide del cambiamento climatico e dei nuovi trend del mercato.

I vini dell’azienda JOAQUIN: la “stella” del firmamento irpino

di Carmela Scarano e Ombretta Ferretto

Il 27 marzo, per la prima volta in Irpinia, il Gruppo Meregalli ha presentato il suo catalogo vini “VISCONTI 43” presso Palazzo Filangieri, monumento storico sito in Lapio (AV).

L’evento intitolato 100 vini in cantina ha richiamato l’attenzione di numerosi operatori del settore ed esperti del mondo “wine” da varie regioni del sud Italia. Unica etichetta irpina presente nel catalogo è quella di Joaquin, cantina che ha fatto da patron dell’evento con una masterclass di 4 vini in degustazione presentata da Francesca Auricchio, Sales & Export Manager di Joaquin, dal Wine Hunter Mattia Tabacco (un vero e proprio cacciatore di vini che ha tramutato la sua passione in professione), e dal Master of Wine, nonché Director of Wine di Oenogroup, Justin Knock.

A farmi compagnia durante l’intero arco temporale dell’evento la collega degustatrice Ombretta Ferretto, che ha raccolto e tramutato in forma scritta alcune impressioni salienti della giornata.

Justin Knock ha introdotto la platea sostenendo che la grande complessità di molti vini campani risiede invece nella capacità intrinseca di esprimere il suolo vulcanico da cui provengono. Questo fattore, unito alla responsabilità intrinseca del produttore di immettere il vino sul mercato soltanto nel
momento perfetto per essere goduto appieno, pone la cantina Joaquin ad un livello di eccellenza.

I 4 vini degustati durante la Masterclass sono stati:

  • Vino della stella 2020
  • Piante a Lapio 2018
  • Piante a Lapio no vintage
  • Taurasi riserva della società 2015

Il primo campione, Fiano di Avellino Riserva 2020Vino della Stella”, è un Fiano in purezza da mezzo ettaro circa di vigne poste a Montefalcione, a 550 metri di altitudine, su terreni calcareo–argillosi. Raccolta delle uve nell’ultima settimana di ottobre, al raggiungimento della piena maturità tecnologica e fenologica. Fermentazione e affinamento in acciaio. Esce in commercio non prima di trenta mesi dalla vendemmia. Si presenta di una delicata veste color paglierino dai riflessi dorati, ed un corredo odoroso di fiori bianchi, leggermente agrumati con tostature finali. Sorso fresco, di grande impatto e sapidità.

Il Piante a Lapio 2018 prende il nome dal bosco che si trova davanti al vigneto, acquistato da Raffaele Pagano, proprietario di Joaquin. Si estende su 0,34 ettari con viti centenarie prefillossera. Esce sul mercato dopo 5 anni di affinamento. A differenza del Vino della Stella che fa solo acciaio, il Piante a Lapio dopo un primo affinamento in acciaio passa in botti scolme quasi esauste di castagno e acacia per poi terminare l’affinamento in bottiglia. Più intensi i riverberi dorati nel calice, con profumi di spezie ed erbe aromatiche. Avvolgente al palato, ricco di morbidezze fruttate. Vino signature dell’azienda.

Piante a Lapio No Vintage è invece un blend di due annate in percentuali diverse e precisamente il 14% annata 2014 (solo legno) e il 60 % annata 2020 (solo acciaio).  Il naso vira subito verso frutta gialla matura e poi succo di agrumi per indulgere in sentori tostati accompagnati da sbuffi eterei e minerali. Tanta albicocca, maracujá, nocciola.

Last but not least, l’etichetta definita da Francesca Auricchio “da momenti speciali”: il Taurasi Riserva 2015, proveniente da un appezzamento 1,2 ettari a Paternopoli. Anche queste sono viti a piede franco prefillossera.

Esce in commercio dopo 7 anni, ben oltre i canoni previsti dal disciplinare di produzione, sempre in linea con lo stile della cantina il cui pensiero è quello di attendere il vino. Al calice si presenta rosso granato, con profumi lunghi e complessi che spaziano dal cioccolato al tabacco, con note speziate di cannella, vaniglia e noce moscata. Di carattere, pieno ed avvolgente, con un tannino disteso e vibrante, che ci lascia presagire una lunga vita.

Cambia-Menti di Ciccio Vitiello

Cambia-Menti di Ciccio Vitiello
È attuale! Cross-generazionale, ma non trasversale.

Un concept studiato per essere riconoscibile, in un momento di socialità prettamente digitale.
Aumentare il racconto, fare rete, magari crearla.
Il mood è quello informale della pizzeria, rumori di fondo, grande operatività.

Ma da lì in poi, cambia la luce.
Arte e artigianalità, capacità e talento, sintetizzano il progetto.
Quando la cultura trova terreno fertile attecchisce, germoglia e si evolve: da forma e vita all’anima.

Un quadro, un’opera.
Li tutti i giorni, su quella parete.
Incrociata con lo sguardo, ripetutamente, una routine inconsapevole.
Poi la rivelazione! “I colori della tela sono diventati materia, li ho tirati fuori dal quadro” (C.V), portati in una dimensione, che coinvolge anche gli altri sensi, per amplificare la sensazione del piacere.
Olfatto e gusto, narratore ed attore : il cerchio, quello del gesto manuale, si chiude.
Il racconto, quasi evocativo, della trasformazione di ogni singolo prodotto, tecnica o temperatura, è lo switch off, quello che spegne ogni distrazione e ti catapulta in un mondo, il suo, quello di Ciccio Vitiello.
Il buono va oltre le etichette, le denominazioni.

La pizza tonda classica c’è. la margherita è buonissima.
Ma c’è anche qualcosa in più, un’esperienza, quella che lui chiama “il salto nel vuoto”.

E’ li che trovi Ciccio, la sua Anima.
Quel fuoco che spinge dentro, che vorrebbe espolodere, ma che deve essere distribuito con parsimonia, affinche non si disperda il valore.
I creativi non possono essere ingabbiati, neanche in una definizione. La loro visione è nella direzione.
È lì, che il seme genera Cambiamenti.

Salto nel vuoto, così ha definito il menu degustazione. Non ci sono posate. Mangiare una pizza è un gesto che inizia le mani , il calore, la consistenza sono sensazioni tattili.
Tovagliolo e tovagliette umidificate, cambiate igienicamente di continuo, confermano l’attenzione al servizio: sempre presente ma con decisa discrezione.

Al massimo per 10 persone ogni sera. Un viaggio tra tecniche di cottura, elettrica, vapore, forno; sperimentazione ma anche recupero. Spunti creativi.

Piatto di recupero ottenuto dal cornicione della pizza in teglia, che tagliato perpendicolarmente e farcito con un filetto di alici salata, dà l’idea del cannolicchio

Frittatina cacio e pepe, con soffritto di maiale e nocciole tostate

Parmigiana di melanzane- prima farcita e poi cotta in forno, coperta con una cialda di parmigiano 24 mesi e pesto di basilico, senza sale aggiunto.

Pizza in teglia con chutney di zucca, julienne di carota, pecorino all’aglio orsino tocchetti di Alaccia

Marinara a tre pomodori, ovvero il sorbetto. Pulizia del palato per cambiare consistenze e andare su abbinamenti più spinti.

Prosciutto di pecora con Blue Sthilton, Bufala, ambrosia al Pallagrello e nocciole tostate

Padellino al burro aromatizzato al rosmarino- cotta prima al vapore per poi andare in forno statico.

Un percorso “tapas” piacevole ed articolato che trova il culmine con che la proposta, considerata “miglior pizza 2022” da 50top: recensione negativa. Provocatoria al limite dell’irriverente per i social/heater di professione, ma universalmente apprezzata.

Crub: sotto i portici del Borgo, una finestra sul mare

Se usi una materia prima eccellente, meno la tocchi meglio fai.” Questo mi dice Gioacchino Attianese, chef del Crub dal 2019.

Quando è cominciato il sodalizio professionale con Francesco Palumbo, è stato chiaro ad entrambi un concetto: il cliente al centro dell’offerta.
Creare una connessione di fiducia con gli ospiti: mostrare e dimostrare.

Borgo scacciaventi è la via del commercio di Cava de’Tirreni, la ristorazione ha avuto sempre dei riferimenti importanti, ma quasi sempre legati alla carne.
Ma siamo a poche curve dalla Costiera, proprio lì, dove chi vuole sentire l’odore del mare a tavola deve rifugiarsi.
Si intuisce quindi, perché un professionista della medicina del lavoro, decida di aprire un ristorante, in una città, che pur avendolo benevolmente adottato, non è la sua.

Locale bello, distinto, elegante, nel quale trascorrere piacevolmente il proprio tempo. La luce è giusta, l’arredamento è curato, la ceramica d’autore riempie ogni spazio libero. Il pescato in bella mostra e la cucina a vista, completano la lista delle cosa da fare, quando si ha un’idea chiara, un progetto definito, identitario.

Una proposta non banale, mai.
La qualità della materia: prioritaria.
Il mare.
Quello più mondano delle ostriche, dei crostacei, del crudo in generale è eccellente.
L’aspetto più interessante, però è quello in cui lo chef e la sua brigata trasformano, enfatizzando il prodotto.

Con la Ceviche di spigola, si apre il gas, per accendere il palato. Freschezza con il gazpacho, aromaticità tendente al dolce con l’aglio nero per un finale lungo ma non ridondante di liquirizia : figo

Minestra di mare gustosa e succulenta, peccato per la polpetta fritta immersa: less is more

Polpo scottato, patate, carciofi e spuma alla menta.
Tenace la consistenza, l’amarostico si sposa bene con la tendenza dolce delle patate con una bella chiusura fresca della spuma: un classico ben eseguito

Tataki di tonno, broccoli scoppiettati, cipolla rossa agrodolce, katsuobushi
Qui la scena è tutta per Alba, con il suo servizio al tavolo: perfetta in ogni suo gesto.

Cozze alla brace agli odori mediterranei

la presentazione nella Tajine è suggestiva ma non solo, perchè consente di conservare e preservare a lungo l’affumicatura che poi si sprigiona una volta scoperchiata: piatto della serata

Pescato Pezzogna freschissima, cucinata in maniera esemplare: mare, estate, felicità.

Oeil de Pedrix – Jean Vessel
Ingresso migliore non avrei potuto chiedere, il mio preferito in assoluto per partire.
Nè Blanc, né rosè: nulla di convenzionale. Una peculiarità di Jean Vessel, che a Bouzy (montagne di reims) unico o tra pochissimi, che tiene in vita questa tradizione. Solo pinot nero (vista la zona). Breve macerazione diretta. Il colore ambrato è la firma di garanzia.

Guido Marsella 2020, forse un infanticidio. Il riposo che fa sui lieviti gli consente una lunga vita, ma non significa che berlo giovane sia sconsigliato. Una delle massime espressione della docg. Frutta, erbe aromatiche, agrumi ed una piacevolissima e persistente nota affumicata.

Ferrari perle nero riserva 2010
Blanc de noirs – 72 mesi sui lieviti. Un bel giallo dorato. Al naso, frutti tropicali e agrumi, crosta di pane, spezie e leggero finale fumè. Ancora piacevolmente fresco. Armonico.

Terra di Lavoro Wines 2023 – le nostre considerazioni finali

Redazione

Parlare di eventi come Terra di Lavoro Wines 2023 rappresenta uno dei presupposti pensati sin dagli inizi dalla Redazione di 20Italie.

Venti, come le nostre magnifiche Regioni ricche di storia, cultura e coscienza enogastronomica. Tra di esse la prima da cui siamo partiti è stata la Campania, non sempre attenzionata persino dai suoi abitanti.

Nulla di nuovo all’orizzonte, in perfetta coerenza con il motto latino “nemo propheta in patria”. Eppure ci sarebbe parecchio da dire, in particolare della voglia di coesione ricercata dai produttori vitivinicoli del Consorzio Tutela Vini Caserta “VITICA”.

Il Presidente Cesare Avenia è un vero vulcano di iniziative, proprio come il territorio di appartenenza caratterizzato dai ricordi lavici delle eruzioni, sotto forma di sabbie, ceneri e pomici.

L’aggregazione è composta da ben 3 Doc e 2 Igt, ciascuna caratterizzata da differenze pur all’interno di un unico schema, unito dal classico filo rosso di Arianna. Il Mar Tirreno a poca distanza con i suoi zefiri miti che garantiscono buone escursioni nelle calure estreme delle ultime stagioni ed il vulcano spento di Roccamonfina, con il lontananza l’ancor vivo Vesuvio, sono la testimonianza delle complessità naturale di queste terre.

Per far sì che possano essere conosciute vieppiù al grande pubblico di appassionati ed operatori del settore, verrà istituito, a fine aprile, il “sabato casertano” con cantine aperte e possibilità di visita delle stesse previa prenotazione sul sito del Consorzio Vitica.

Ma veniamo alle fasi cruciali di Terra di Lavoro Wines II Edizione, svoltasi nella magnifica cornice del Real Sito Belvedere di San Leucio (CE) nei giorni 18 e 19 marzo 2023.

Dopo i saluti di rito delle Autorità presenti Carlo Marino sindaco di Caserta, Tommaso De Simone Presidente CCIAA di Caserta e Salvatore Schiavone Direttore Ufficio Italia Meridionale ICQRF – il giornalista enogastronomico Luciano Pignataro ha aperto i lavori con le relazioni del professore Attilio Scienza e di Elisa Frasnetti, assegnista di ricerca presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza.

Tema delicatissimo: la sostenibilità e le nuove sfide per il futuro. A seguire, in collegamento video, la docente universitaria Roberta Garibaldi ha terminato la prima fase del simposio parlando di turismo enogastronomico.

Gradita presenza, a conclusione lavori e prima di cominciare le degustazioni tra i banchi d’assaggio, dell’Assessore all’Agricoltura per la Regione Campania Nicola Caputo.

Ottimo il supporto della squadra di sommelier di A.I.S. Campania nel gestire al meglio le richieste dei presenti anche durante le Masterclass, con interventi del Presidente dell’Associazione Italiana Sommelier Campania Tommaso Luongo e del Delegato di Caserta Pietro Iadicicco.

Le degustazioni guidate, con vini assaggiati rigorosamente alla cieca, sono servite ad evidenziare pregi e limiti delle varie Denominazioni, creando quell’identità fondamentale per porsi dinanzi al giudizio dei critici e dei mercati di riferimento.

La nostra reporter Maurizia Albano ha potuto constatare con mano la qualità dei prodotti con pochissimi rilievi in negativo, indice di un percorso di crescita per tutto il comparto. Stuzzicanti le acidità delle versioni Asprinio di Aversa e gustose quelle delle altre Denominazioni compresa la piccolissima Doc Galluccio.

Le varietà d’uva principali sono: Falanghina, Asprinio Bianco, Aglianico, Piedirosso, Pallagrello e Primitivo, tutte considerate autoctone, accompagnate da tante altre di minor produzione. La bellezza autentica della nostra Campania!

Il giorno 19, invece, è stato il momento per la commozione, dapprima nel vedere la rinascita della Vigna Borbonica di San Silvestro della Reggia di Caserta, che Tenuta Fontana ha ricevuto in affidamento in concessione. Scopo del progetto “Vigna di San Silvestro” è la valorizzazione enologica della produzione di una varietà tradizionale come il Pallagrello Bianco e Nero.

A seguire l’attribuzione al Consorzio Vitica del Marchio di Autenticità Culturale (M.A.C.) ed il Premio dedicato alla memoria di Maria Felicia Brini (Masseria Felicia), imprenditrice eclettica e grande innovatrice, troppo prematuramente scomparsa.

A ricevere il premio è stato il ristorante Il Frantoio Ducale per la migliore carta dei vini del territorio.

L’ottimismo è il profumo della vita: su questa basi non possiamo che attendere, fiduciosi, la prossima edizione di Terra di Lavoro Wines.

Placito Risano – la cucina istriana ha trovato il suo “centro di gravità”

di Carolina Leonetti

“Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione”. Da questa frase tratta da Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline ha inizio, metaforicamente, il mio viaggio gastronomico al ristorante Placito Risano.

Ho avuto il piacere di cenare qui in occasione del Amber Wine Press Tour, evento dedicato ai particolari Orange Wine che tanto attirano l’attenzione degli appassionati, con un focus specifico su prodotti e cantine del Carso.

Sono rimasta incantata da un locale posto quasi fuori dal tempo, dove arte, storia e cucina creano un connubio perfetto, e non vedevo l’ora di raccontare le emozioni vissute.

Gli arredi e gli affreschi si ispirano all’Alto Medioevo, il periodo diviso tra momenti di luce e buio intellettuale, per ricordare proprio un evento che, si presume, abbia ivi avuto luogo: Il Placito del Risano, primo accordo arbitrale nella storia di queste terre, che segnò il passaggio dall’ordinamento bizantino a quello feudale.

Il giovane chef Jure Dretnik e la sua brigata riescono a creare vere e proprie opere d’arte con ricchezza e varietà dei sapori che accompagnano l’avventore in un viaggio enogastronomico, immersi nelle atmosfere dal periodo storico, fino ai tempi moderni.

La cucina è ricercata, sempre legata al territorio e alla stagionalità; un vero e proprio viaggio in Istria, con la particolarità del menu che non menziona i nomi dei piatti, ma solo gli ingredienti usati per la loro realizzazione.

I dettagli della sala curati nei minimi particolari e la grande professionalità del personale lo rendono un luogo ideale dove ritemprarsi per trascorrere una serata romantica o per organizzare meeting aziendali e momenti sereni in compagnia di amici.

Ottima, infine, la proposta degustativa e la selezione vini in abbinamento.

Placito Risano

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L’abbinamento vino cioccolato è possibile? Ne parliamo con Giovanni Battista Mantelli di Venchi 1878

di Serena Leo

Il pairing tra vino e cioccolato esiste ed è unconventional. A dirlo su 20Italie è Giovanni Battista Mantelli di Venchi artisti del cioccolato dal 1878.

L’Italia del buon vivere ha sempre il suo fascino e, così come il vino, anche il cioccolato sa farsi notare. Nei corsi di perfezionamento per operatori del settore e sulle nostre tavole, però, ci siamo sempre chiesti se vino e cioccolato possano essere compagni di merende.

Per rispondere a questo e molti altri interrogativi, abbiamo chiesto a “quelli bravi” di guidarci. Con Giovanni Battista (per tutti “GB”) Mantelli, mente creativa della storica azienda piemontese Venchi, esploreremo i meandri dell’abbinamento non convenzionale, fuori dagli schemi, scoprendo le potenzialità del cioccolatino del futuro. Sarà davvero perfetto con un calice di vino?

Giovanni Battista Mantelli

Via i pregiudizi anzitutto!

Per analizzare uno spaccato della realtà enogastronomica italiana come quella del cioccolato è necessario sapersi scrollare di dosso ogni pregiudizio, dotandosi di flessibilità, attenzione al gusto quasi maniacale, senza tradire il piacere personale. Insomma, il cioccolato deve farci stare bene proprio come il vino. E per chi è un wine addicted ad ogni costo, dall’antipasto fino al dolce, che si fa? Ci risponde chi sta dalla parte del cioccolato, GB Mantelli.

Prima di tutto occhio alla tecnica: il cioccolato è un alimento ricco di tannini quasi quanto il vino, quindi su questa base si costruisce un incontro di sapori che genera l’abbinamento perfetto. Partendo dal presupposto che l’amante del vino è una mente in purezza è bene munirsi, prima di iniziare, di una grande apertura mentale rivolta alla sperimentazione. La mia tecnica personale sposa sempre la prudenza nell’assaggio, quindi inizio col vino analizzandone il profilo aromatico, successivamente il gusto e poi ci aggiungo il cioccolato, compiendo le stesse operazioni. Il risultato è un bivio che va giudicato solo in base al nostro gusto. Se le sensazioni positive coincidono berrò altro vino e mangerò cioccolato, in cerca della soddisfazione completa in fatto di abbinamento. Non voglio banalizzare il tutto, ma con questa procedura si mette chiunque nelle condizioni di appassionarsi alla degustazione vino e cioccolato”.

Possiamo divertirci aldilà della “tradizione”?

Il cioccolato nel corso del tempo è diventato sempre più pop, versatile, adatto ad appassionare anche le menti meno avvezze al cambiamento. Per chi intende il pairing canonico come intoccabile e quasi estremo – cioccolato con vino rosso – è il momento di aprirsi a nuove prospettive. Combinazioni ancora più fantasiose, che possono riscrivere il concetto di abbinamento, esistono e sono solo da mordere. A questo punto abbiamo chiesto a Mantelli se il cioccolato, nello specifico il cioccolato del futuro firmato Venchi, possa accompagnare un vino bianco o rosati dalle note fruttate più intense come quelle della frutta di bosco? Si può arrivare ad osare così tanto?

La parte più eccitante è proprio questa, scoprire nuove frontiere e toccare universi inesplorati anche con il cioccolato. Con gli abbinamenti per concordanza e contrasto, ormai si può fare di tutto. Ad esempio una ricetta con un profilo aromatico che esalti l’intensità di frutti rossi o di bosco, stimola i nervi del piacere. La combinazione cioccolato bianco salato con semi di cacao tostato, che include patata viola e lamponi croccanti azotati, è perfetta con un vino rosato, specialmente se si parla dei rosati di Puglia”.

E con un vino bianco dalla spiccata acidità e mineralità?

Qui cercherò la dolcezza e sapidità del cioccolato bianco salato, caratteristiche minerali per un effetto quasi da umami. Il cioccolato bianco di questa caratura, ad esempio può reggere anche un formaggio a pasta molle, di conseguenza anche un vino bianco”.

Un ricordo va anche alla sua terra di origine ed al Barolo che si sposa perfettamente con il cioccolato gianduia.

Ad esempio il Barolo, vino difficilmente abbinabile per eccellenza, con un cioccolatino Gianduia ci sta perché rispetta la tradizione, il territorio e quindi piace. Se poi si vuole stravolgere tutto va bene anche azzerare le lunghe distanze, puntando sulla nocciola delle Langhe e i passiti di Puglia”.

L’identikit del cioccolatino del futuro

Viene da pensare che Venchi stia lavorando a un concetto di cioccolato che possa smarcarsi dai canoni della tradizione, combinando fave di cacao provenienti da zone vocate con ingredienti di “casa nostra”. Il risultato è un prodotto in grado di integrare culture e territorio. Allora, GB Mantelli, è proprio questo il futuro che ci aspetta?

Il cioccolato del futuro è intelligente e ci renderà intelligenti, perché sa stimolare tutti i sensi, esaltare l’esperienza gustativa in ogni minima particella. Per mutuare un termine giapponese l’effetto deve essere quello del kokumi, cioè conferire agli alimenti maggiore gradevolezza al palato con elementi mirati e ben studiati. L’obiettivo è aumentare il gusto percepito, pienezza e complessità del sapore. Il cioccolato del futuro sarà così, cercherà di equiparare l’effetto di addentare un piatto unico con diversi gradi di intensità strutturale, ovviamente su tutti non può mancare la croccantezza. Con il brand esaltiamo ricette che esaltano le sensazioni vegetali, proprio come la selezione di nibs che ricorda quasi l’oliva nera, ottima sapidità e l’abbraccio del cacao”.

Insomma, tutti elementi che un calice di vino proprio non sembrano escluderlo. Ma nella nuova collezione primavera-estate c’è un cioccolatino già pronto per accostarsi, in maniera vincente, al vino italiano?

Si, abbiamo l’evoluzione dei nostri best-seller e nuove creazioni, tutto ciò che si può adattare perfettamente anche al vino italiano, se vogliamo”.

Sulla presenza del vino nel cioccolatino che verrà non abbiamo ancora una prova certa; possiamo dire che non esistono confini fino a quando si continuerà a fare ricerca, che sarà da aiuto per esplorare nuovi universi gustativi. E allora perché non pensare a una pralina con un vino sulla scia dei già esistenti cioccolatini liquorosi?

Il vino è talmente ricco d’acqua che non è facile trovare una concentrazione di sapori da intrappolare all’interno di un cioccolatino fondente senza un adeguato supporto. Lascia un’apertura verso scenari ancora inesplorati. Ad ogni modo è possibile sorprendersi sempre se con la materia prima si ragiona solo in termini di alta qualità”.

Puglia: San Severo – un “tesoro” da bere

di Serena Leo

San Severo è davvero un “tesoro” da bere. Su 20Italie le info must have per approcciarsi alla città delle bollicine.

Una Puglia diversa dal solito è possibile, basta virare verso destinazioni meno blasonate per scoprire storie da bere veramente interessanti, proprio come quella di San Severo. Per iniziare questo viaggio fuori dall’ordinario andremo in Capitanata, dove il grano cresce guardando il Gargano, alla scoperta di bollicine insolite.

Per i Wine Lovers sempre a caccia di novità ecco dei must have, informazioni essenziali per arrivare preparati alla scoperta, tappa dopo tappa, del distretto spumantistico a pochi passi da Foggia. Iniziamo, allora questo ideale viaggio, lo promettiamo, spumeggiante.

Sapersi ben definire:

San Severo ha una storia commerciale di lungo corso. Secoli e secoli passati ad essere crocevia per merci di ogni tipo e buone idee, si è sempre distinta come terra vocata per lo scambio di uva e mosto da taglio. Da qui partivano, e partono ancora oggi, cisterne dirette verso terre viticole blasonate. Una vera e propria fortuna, ma anche una piaga diremmo, che per anni ha sacrificato le potenzialità territoriali.

Alcune cantine e cooperative, verso la fine degli anni Sessanta nel clou del commercio “da taglio”, pensarono di iniziare a destinare una parte della produzione all’imbottigliamento e alla definizione di questa terra come realtà vitivinicola. Ecco come nel 1968, per la prima volta in Puglia, arriva la DOC di San Severo per il Bianco e per il Rosso. Un primo passo per attestarsi la qualifica di comunità che sul vino affonda davvero le sue radici.

Le uve destinate a rientrare nella denominazione sono per il bianco il Bombino Bianco e il Trebbiano, mentre per il rosso Montepulciano e Sangiovese. Ovviamente in piccole percentuali sono ammessi gli autoctoni a bacca bianca e rossa, come l’Uva di Troia, gioiello ancora da scoprire come merita. Comincia un nuovo corso storico.

Cosa succede in vigna?

Ma perché San Severo e dintorni genera tanta curiosità? Certamente per il suo terroir. Posizionata a circa 100 metri sul livello del mare, ventilazione importante attenuata dal Gargano, suoli sabbiosi in superficie e calcarei in profondità, mportante scheletro per garantire il prosperare di vitigni dalle grandi potenzialità, spesso sottovalutati. Stiamo parlando del Bombino Bianco che diventa quasi un tratto distintivo insieme al Trebbiano.

Quando si parla di grandi numeri in fatto di vini e, soprattutto, se si parla della Puglia di altri tempi, pensare alla tipica coltivazione a tendone delle vigne sembra inevitabile e certamente a San Severo non si fa eccezione. Gli impianti più antichi, quelli degli ani Sessanta per intenderci, preservano una curiosa struttura tipica della DOC San Severo, quindi troveremo piante di Bombino Bianco alternate al Trebbiano. Un blend che parte dalla terra, il segreto per velocizzare il lavoro massiccio in vigna e in cantina.

Parola d’ordine: sperimentare!

Il Bombino Bianco è generoso per vocazione e questo è un fatto assai noto. Studiato attentamente dai produttori storici di San Severo, che con gli spumanti e champagne ha sempre avuto un certo feeling – perché anche da qui partivano cuvée destinate alle bollicine di Francia – si è cercato un modo per caratterizzare questa terra con un’identità enologica ancora in via di progresso.

La parola d’ordine, che è sperimentazione, ha portato alla ribalta il Bombino Bianco con un’intuizione di Antonio D’Alfonso Del Sordo. Fu lui a sperimentare con il Metodo Charmat la spumantizzazione del Pagadebit (altro termine utilizzato per il Bombino Bianco) per eccellenza. Il risultato? Vincente. Da qui si è aperto un varco pronto per invertire la tendenza estremizzata all’export verso nuove frontiere. Ad oggi la trovata dell’azienda vitivinicola D’Alfonso Del Sordo ha rivoluzionato la concezione del Bombino Bianco sanseverese.

E poi venne il Metodo Classico

Il bello della Puglia è che una buona idea, se realizzata con il giusto entusiasmo e quel pizzico di lungimiranza necessaria, diventa un modo per reinventarsi. Se il Bombino Bianco ha saputo dire la sua come spumante Metodo Charmat (o Martinotti), perché non provare a realizzare un Metodo Classico autoctono? A portare avanti questa mission sono stati tre amici sanseveresi dai destini diversi, il cui nome aziendale nasce da un acronimo: D’Araprì. Con loro è iniziata una vera e propria “rivoluzione dell’autoctono” portando il Bombino Bianco a un mercato inedito, quello del Metodo Classico.

A seguire la tendenza, negli anni, sono stati molti altri produttori che hanno puntato certamente sulle uve di casa, giocando con soste sui lieviti sempre più estreme. Ad aggiungersi al successo del Bombino è la Falanghina, potente, che in Capitanata ha trovato casa. Insomma, oggi San Severo è un vero e proprio hub in cui si sperimenta e produce il vero Metodo Classico di Puglia.

Full immersion nelle cantine ipogee:

A San Severo il vino si è sempre fatto nelle cantine ipogee, dei locali sotterranei che si snodano per tutto il centro storico. L’odore di questi spazi è inconfondibile e ricordano la tradizione, tempi andati, fatiche lontane. Oggi qui non si ospitano più le procedure per la vinificazione, ma resta la testimonianza di ciò che è stato, trasformando ogni angolo quasi in un museo, alternando antiche pupitres che ospitano gli spumanti del futuro. Nel centro storico ci sono diverse cantine ipogee visitabili, ove si possono degustare gioielli d’annata.

I numeri della produzione odierna di bollicine:

Attualmente le bottiglie di spumante prodotte a San Severo e dintorni sono circa 200000 bottiglie annue. Grazie anche a nuovi produttori che desiderano mettersi alla prova, un po’ per curiosità, un po’ per lavoro, cresceranno ancora. Gli spumanti di San Severo sanno farsi apprezzare anche al di fuori del confine regionale, ma con la fatica di strategie non sempre condivise.

A mancare sembrano essere ancora delle direzioni comuni, azioni in grado di tracciare una direzione futura univoca. A tal riguardo i produttori, dai più piccoli ai più grandi, caratterizzano al meglio i loro prodotti per raccontare uno spaccato sociale diverso dal solito, che ha saputo farsi notare dalla cronaca non sempre attenta.