Merano Wine Festival 2023: “c’è chi dice no”…

Noi vi spieghiamo, invece, il perché dei tanti “sì” e le ragioni per essere presenti alla vera “Festa dell’Enogastronomia”

Festa o Festival, il passo è davvero breve. Dopo mesi di duro lavoro, visite, esposizioni e degustazioni di varia natura, arriva il momento per tutti di resettare la mente e ritrovare la serenità persa. Costi quel che costi si intende, e la tematica del “vil denaro” influirà nel merito del discorso.

Merano Wine Festival è il luogo dove, per un giorno, due e finanche una settimana, le lancette dell’orologio cessano di muoversi. Un immenso parco giochi dove sentirsi come Pinocchio nel Paese dei Balocchi. Espositori di vino, Area Gourmet con primizie provenienti da ogni angolo dello Stivale, masterclass e show cooking appetitosi.

Una sezione dedicata al biologico, biodinamico e naturale ed ai prodotti provenienti dai mercati esteri, come in una sorta di infinito gemellaggio itinerante. L’abile mano di Helmuth Köcher – The WineHunter – il visionario uomo immagine e patron della manifestazione, si è fatta sentire in maniera ancora più pressante e articolata. Merano dovrebbe intitolargli vie, piazze e statue d’oro, anche per buon augurio di altri 100 anni al timone della nave.

Helmuth Köcher ai microfoni di 20Italie

L’indotto comportato in queste 32 edizioni è stato tangibile fin da subito per la cittadina dell’Alto Adige. I miei ricordi d’infanzia della Merano fine anni ’80 cozzano decisamente con la versione aperta all’Europa e al mondo intero dei tempi odierni. Servizi, cura e decoro, che si autoalimentano proprio in simili occasioni, quando ogni angolo diventa meta di incontri, dibattiti e persino accordi commerciali.

E veniamo all’altro tema in corso…

Può una fiera del vino e della gastronomia creare anche vantaggi economici per chi partecipa?

La domanda è tendeziosa si direbbe; la pubblicità è l’anima del commercio e Merano Wine Festival rappresenta una vetrina unica nel suo genere. Ma, come altre occasioni della vita, alla fine conta sempre l’abilità dell’imprenditore, compresa la propensione al rischio di esporsi a sonore fregature. Insomma: la partita Iva non è cosa per tutti (per fortuna).

Ci si potrebbe chiedere, dunque, se il gioco valga davvero la candela. Alla fine, però, sono tutti lì, aziende e comunicatori (stampa inclusa) con numeri mostruosamente in crescita da un anno all’altro. Numeri che costringono gli organizzatori a selezioni cruente al momento degli accrediti, con evidente scontento di chi resta fuori lista. Ormai è una macchina così ben collaudata che non ha bisogno neppure di quella bulimia comunicativa per trovare una propria dimensione o il benestare delle firme d’autore. Facciamocene una ragione ora e per l’avvenire.

Alla fine fa parte del mestiere: “a chi tocca non si ingrugna”. Nelle scelte economiche (legittime) di ciascun operatore, restare fuori dal giro significa un atto di coraggio che non è detto dia risultati sperati; basta non pensarci una volta tratto il dado e non denigrare un evento che, nel bene e nel male, raccoglie consensi ovunque da autentico fiore all’occhiello d’Italia. Chi fa parli, gli altri tacciano.

Abbiamo corso freneticamente tra gli stand, scalino dopo scalino, sui red carpet che conducono ai settori caldi del Merano Wine Festival. Le interviste integrali le troverete cliccando sul seguente link di youtube.

Ne pubblichiamo un estratto in particolare, riguardante due attori importanti dietro le barricate: il professor Luigi Moio, presidente di OIV ed enologo di chiara fama, e l’esperto sommelier comunicatore del vino Davide D’Alterio di Enoteca Pinchiorri, lo storico tre stelle Michelin di Firenze.

Il prof. Luigi Moio
Il sommelier e comunicatore del vino Davide D’Alterio

Non vogliamo convincere nessuno, ma offrire solo spunti per una buona riflessione.

Il Sake ritorna a Salerno: “Il Sake Giapponese e la Dieta Mediterranea attraverso i Formaggi”

Quando il famoso fermentato di riso approdò a salerno era il 3 febbraio del 2020 e fu A.I.S. capitanata dal Delegato di Salerno Nevio Toti a scommetterci in anteprima assoluta, tenendo un seminario con Gaetano Cataldo, sommelier professionista formatosi presso la locale delegazione, e con la partecipazione straordinaria di Giovanni Baldini, ideatore del sake Days e fondatore della prima realtà italiana a conferire la cultura del sake giapponese: la scuola Italiana sake.

Il nuovo appuntamento stavolta è fissato a venerdì 1 dicembre alle ore 20:30 al Saint Joseph Resort e porta un titolo che è già tutto un programma: “Il sake Giapponese e la Dieta Mediterranea attraverso i Formaggi”.

Insomma, è pur vero che con tale evento la delegazione salernitana farà il bis con il nihonshu, ma lo farà attraverso una prospettiva rinnovata, più innovativa e ricca; infatti, dopo il primo seminario che ha evidentemente palesato la lungimiranza e un grandissimo senso di apertura, rispetto ad una cultura del bere solo apparentemente distante, da parte dei tastevin salernitani, questa volta si entra in scena con i formaggi e il modello alimentare a noi più familiare: la Dieta Mediterranea.

Sulla scia del grande successo di pubblico del primo appuntamento, avvenuto circa quattro anni fa, ecco la riconferma di un nuovo meeting, atto a dimostrare quanto il sake giapponese sia armonico con la nostra cucina e quanto sia importante oggigiorno il ruolo dell’assaggiatore di sake.

Sarà il relatore Mino Perrotta a introdurre i tre formaggi in abbinamento e constatarne l’armonia, una volta che  Gaetano Cataldo, reduce di attività tenute persino a Firenze e all’A.I.S. Bologna, oltre che di una rinnovata esperienza che lo vede anche docente della  Scuola Italiana Sake, avrà guidato gli ospiti attraverso una disamina inerente alla storia, la cultura, gli ingredienti e la produzione del sake, non priva di aneddoti e curiosità.

Ecco un’anteprima dei premium sake in assaggio: Dewanoyuki Kimoto Junmai e Konishi Aosae Junmai, per una più meditata degustazione che orienti al gusto del fermentato, Konishi Hiyashibori Gold Daiginjo, Amabuki Junmai Daiginjo e lo Shirayuki Edo Genshu Junmai, in abbinamento a un latticino, a un formaggio a pasta dura e ad un erborinato. Tali attività risultano determinanti per l’Associazione Italiana Sommelier in quanto ne caratterizzano il collante e i valori fondamentali: un grande senso della famiglia, un costante team building, accompagnato da un dialogo assiduo ed assertivo, non privo di quella lungimiranza nel guardare anzitutto alle competenze in seno alla associazione stessa, prima che altrove, finalizzata alla crescita ed alla partecipazione appassionata di coloro che ne fanno parte. È proprio questa grande umanità, questa onestà intellettuale e questo preciso intento di incoraggiare, fidelizzare e onorare gli associati, a rendere fiero Gaetano Cataldo, quasi prossimo al ventennio da iscritto, di essere parte di A.I.S. e, sopra ogni cosa, di essere parte della delegazione di Salerno.

Perché diventare sommelier del Sake in Italia

La nostra quotidianità è sempre più inficiata dagli effetti della globalizzazione in processi decisamente così rapidi da sfuggire alla nostra totale comprensione, richiedendo uno sforzo costante al fine di poter restare sempre aggiornati e competitivi nel settore di riferimento. Il complesso campo dell’alimentazione umana interseca tutta una serie di attività umane, quali trasporti aerei, marittimi e terrestri, l’energia e le risorse umane che, nell’insieme, hanno un impatto sulla sostenibilità che, come ben sappiamo, non può che essere ambientale, sociale ed economica, e di conseguenza sull’ecosistema e il clima.

Con tali premesse si potrebbe immaginare la tematica debba vertere sulla transizione nutrizionale e sulla sovranità alimentare, Dio solo sa quanto ce ne sia bisogno di questi tempi, ma in realtà, tornando alla globalizzazione invece c’è da dire che non è un fenomeno moderno e che la stessa Dieta Mediterranea, così come la conosciamo oggi, ne è una risultante.

La Dieta Mediterranea è una stratificazione di tradizioni in costante evoluzione, di ingredienti che da alloctoni diventano autoctoni, di viaggi, invenzioni e scoperte e lo è stata da quando sono sorte le Popolazioni Pelasgiche alle conquiste di Alessandro Magno, dall’affermarsi dell’Impero Romano alla nascita delle Repubbliche Marinare, dal Medioevo al Colonialismo, dalla grande Epopea della Vela alla Rivoluzione Industriale fino ai giorni nostri.

Da dove provengono prodotti agricoli oggi così comuni sulle nostre tavole come le solanacee? Dissertare sull’origine dei prodotti che attualmente consideriamo di uso comune, e che oggi fanno parte del nostro modello alimentare, richiederebbe un tempo lunghissimo, farne appositamente accenno invece lascia intuire che, nella misura in cui gli alimenti varcano i confini stabiliti dall’uomo, cambia l’approccio alla gastronomia e, ve lo assicuro, anche la cultura del bere, anzi si estende.

Proprio sul trend di bevuta in Italia, così come nella maggior parte dei Paesi occidentali, l’attenzione di importatori, distributori, food & beverage managers, ristoratori, sommelier, barmen e persino chef, per non parlare di un pubblico sempre più colto ed evoluto, è altissima.

E non potrebbe essere diversamente: la globalizzazione non si ferma, la marea non attende e i soldi non dormono mai. D’altronde non si finisce mai di imparare.

Perché diventare sommelier del sake in Italia? Semplice: per stare al passo coi tempi, perché occorre aggiornarsi e perché esso costituisce per tutti gli operatori un nuovo strumento e una ulteriore opportunità di vendita, per non parlare di una validissima opportunità di accrescimento culturale e professionale.

Insomma, un enogastronomo e un degustatore di mestiere non possono esimersi dall’apprendere la cultura del sake giapponese, per tutta una serie di fattori che proveremo ad elencare di seguito…

Il sake è una bevanda millenaria al pari del vino e come il vino evoca storia, cultura, arte, religione, leggende, folklore, tradizioni, edonismo, democraticità ed esclusività, pertanto è tendenza consolidata da secoli e non può essere banalizzato ad una semplice moda passeggera.

Ha messo ufficialmente piede in Europa tra il 1872 e il 1873 per la prima Expo Universale di Vienna.

Nell’ultimo ventennio i ristoranti fusion, mediterranean fusion, giapponesi, sushi bar, orientali, mediorientali ed all you can eat, sono aumentati in maniera esponenziale e praticamente nessuno, fatte le debite eccezioni, ha la competenza per proporre e raccontare il sake.

Dal 2015 l’Italia è il primo importatore europeo di sake e il fenomeno è in crescita. Milano è la capitale italiana del sake, il Triveneto, seppur a macchia di leopardo, si difende benissimo, così come Roma e Firenze, che ogni anno consolida benissimo una posizione di rilievo col Sake Days, riconosciuto dall’Ambasciata Giapponese.

Il Sake si sposa appieno col nostro modello alimentare e si addice alla Dieta Mediterranea.

Il sake è tendenza consolidata anche nella miscelazione: il saketini nasce negli States nel 1980. Ciò significa che il sake rientra appieno nel concept di beva colta anche per quanto attiene ai cocktail.

Come diventare sake sommelier in Italia?

La Sake Sommelier Association è stata fondata a Londra nel 2000 dall’esperto di sake Kumiko Ohta e dal sommelier Xavier Chapelau. Tale associazione opera in Italia grazie a Lorenzo Ferraboschi, imprenditore attivo nel commercio del fermentato giapponese con Sake Company, oltre che con altri prodotti con Wagyu Company, ed è il proprietario di Sakeya, bistrot milanese con la carta del sake più profonda d’Europa in termini di referenze. Effettua corsi di avvicinamento al sake, due livelli per accedere all’attestato di Sake Sommelier, più un terzo in Giappone per seguire da vicino le fasi produttive del sake. La SSA ha contribuito a formare la prima generazione di quelli che oggi sono tra i maggiori conoscitori del fermentato giapponese in Italia.

Tutti conosciamo la Wine and Spirits Education Trust e il sistema didattico. Anche la WSET è nata nel Regno Unito, precisamente nel ’69, ed ha lanciato il suo primo corso sul sake nel 2014, arrivando più tardi in Italia. Per quanto attiene alla formazione abbiamo un primo ed un terzo livello nella conoscenza del sake. Nel nostro Paese, tra i relatori di rilievo, abbiamo Marco Massarotto, diventato sake samurai nel 2016, rara onorificenza conseguita presso il santuario di Shimogamo Jinja a Kyoto. La Scuola Italiana Sake nasce a Firenze nel gennaio 2020, fondata da Giovanni Baldini, di cui potete leggere qui, qualora voleste approfondire su di lui. La Scuola Italiana Sake di fatto è di fatto la prima e l’unica associazione italiana ad impegnarsi nella formazione sulla cultura del Nihonshu e, più in generale con Sake News, nella divulgazione di tutto quel che attiene all’enogastronomia del Sol Levante. La Scuola Italiana Sake, grazie ad un team eterogeneo, ha ingegnerizzato un percorso didattico innovativo e multidisciplinare: è il crogiolo delle esperienze di relatori provenienti da WSET, SSA, FISAR e dall’Associazione Italiana Sommelier, tutti certificati Sake Sommelier, in taluni casi anche attraverso più attestazioni da diversi enti e comunque professionisti ad alto riconoscimento nel mondo della degustazione, oltre che food & beverage manager, biologi alimentari e giornalisti enogastronomici. Tra i relatori si annoverano Daniela Cancellara, famoso barmanager del Rasputin, uno dei 3 secret bar italiani, autore su Beverfood e Bargiornale, oltre che conduttore di Whisky for Breakfast, Erica Benucci, docente Fisar ed esperta di birre a livello internazionale, Luca Pedinotti, wine consultant ed f&b proveniente dal mondo Ais, Nina Capecchi, esperta di tè e dei suoi rituali, e Luca Rendina, specialista in distillati storici giapponesi, oltre che founder di Beregiapponese. Per poter avere un ruolo quanto più equanime e trasparente possibile, Giovanni Baldini decide di dismettere la sua attività di importer di sake, la Firenze Sake, diventando così un punto di riferimento determinante e solidale per tutte le istituzioni e gli operatori della cultura nipponica. La Scuola promuove un primo ed un secondo livello per diventare Assaggiatore Tecnico del Nihonshu, dei moduli intermedi di approfondimento, e un terzo livello di Maestro Assaggiatore di Nihonshu in territorio giapponese.

Nove Lune e Costa Jels – Il vino della miniera

In quel di Gorno, piccolo comune della Val del Riso in provincia di Bergamo, si trova il complesso minerario Costa Jels. E’ qui che Alessandro Sala, patron della cantina Nove Lune, ha intrapreso la sfida di produrre il suo metodo classico “Costa Jels”, utilizzando vitigni resistenti (conosciuti anche come PIWI) di Bronner, Johanniter e Souvignier Gris.

La scorsa primavera ho avuto l’occasione di trascorrere una piacevolissima giornata in compagnia di Alessandro e delle guide che ci hanno accompagnato in un percorso emozionante nelle viscere della montagna.

All’ingresso le guide ci raccontano come le miniere di piombo e zinco di Gorno fossero conosciute e sfruttate già in epoca romana, quando il minerale rossastro ora noto come calamina, qui venivano mandati i condannati a “cavar metallo” (damnatio ad metalla)

La storia prosegue probabilmente nel periodo medievale anche se non si hanno notizie documentate sulla continuazione dell’attività estrattiva. Si sa con certezza che riprende nel 1500, quando un ingegnere illustre, Leonardo da Vinci, vi si reca in visita. Nel 1800 si registra un forte sviluppo delle miniere che continua fino a quasi i giorni nostri. Nel 1982 viene definitivamente chiusa.

Entriamo in gruppo all’imbocco “Serpenti” ed è proprio all’ingresso che affina, per almeno 60 mesi, il Metodo Classico «Costa Jels». Qui viene conservato alle perfette condizioni, in un ambiente in totale assenza di luce e vibrazioni, con livelli stabili di umidità e temperatura costante di 10°C durante tutto l’anno.

Attualmente troviamo tre annate, la prima sarà pronta nel 2025, limitatissima la produzione, solo 1200 bottiglie. Scorgiamo in fondo ad un corridoio le pupitres che illuminate dalle lampade regalano abbacinanti riflessi. Le bottiglie accatastate riposano in posizione orizzontale mentre si compie la magia dei lieviti.

Periodicamente Alessandro verifica l’evoluzione del vino con degustazioni per monitorarne l’affinamento.

Il nostro percorso si snoda tra i cunicoli della miniera che svelano il lavoro faticoso dei “minadur” (minatori) e dei “galecc” (ragazzi addetti al trasporto a spalla di minerale) e quello paziente delle “taissine” (cernitici di minerale). Racconti di sofferenze, di dolore ma anche di tanta umanità che hanno visto protagonista la gente del luogo.

Dopo circa un’ora e mezza usciamo alla “Lacca Bassa” e torniamo al punto di partenza attraverso un sentiero panoramico nel bosco. Ci incamminiamo verso il ristorante per il pranzo degustazione, ad accompagnare i piatti della tradizione locale i vini di Nove Lune.

Alessandro ci racconta la storia della sua cantina e della filosofia cui si ispira. L’azienda pone molta attenzione alla sostenibilità ambientale e predilige tutte quelle tecnologie che consentono di risparmiare energia e preservare il territorio.

Inizia nel 2009 ad applicare il protocollo biologico nelle sue vigne in provincia di Bergamo, la sua attenzione all’ambiente e alla sostenibilità lo spinge, negli anni successivi, ad andare oltre appassionandosi ai vitigni resistenti e così nel 2013 decide di piantare nel suo terreno 3 varietà di questi vitigni.

Il risultato è sorprendente, le viti cresco sane, senza alcun trattamento e senza l’ombra di malattie, le uve hanno la buccia spessa. Inizia a testare il potenziale enologico e i risultati sono ottimi: nuovi profumi, vini con corredi aromatici propri.

Nel 2015 vede la luce Nove Lune, azienda vitivinicola nel comune di Cenate Sopra (BG) che ha come obiettivo quello di coltivare e vinificare solo uve che non necessitino di alcun trattamento chimico o, nelle annate peggiori, solo in minima parte.

Viticoltura sostenibile per chi lavora in campagna e per il consumatore finale. Chimica limitata al minimo, i vini presentano una acidità spiccata che dà la possibilità di mantenere la solforosa bassa.

Alessandro ingrana la marcia con gli studi sui vitigni resistenti e nel 2017 viene eletto Presidente del PIWI Lombardia, associazione neonata che riunisce i viticoltori che utilizzano vitigni resistenti nella regione.

Ecco un breve racconto dei vini che abbiamo degustato

Vino Bianco “310”(origine del nome: 3 uve; 1 vino; 0 chimica) Solaris 40% – Bronner 30% – Johanniter 30% Fermentazione e affinamento in barrique. Dai profumi fruttati e floreali con note di frutta tropicale. Una buona sapidità e un’ottima acidità danno al vino un gusto pieno e una lunga persistenza.

Vino Bianco macerato Rukh, un orange ottenuto con uve Bronner e Johanniter, un bellissimo colore arancione con riflessi dorati dovuto alla lunga macerazione sulle bucce e l’affinamento in anfora. Un vino un di grande struttura con note agrumate, sapido e leggermente tannico.

Theia vino passito Helios 40% Solaris 40% Bronner 20% Le uve raccolte vengono messe ad appassire per tre mesi. Fermentazione in acciaio e affinamento di diversi mesi in piccolissime botti di rovere. Un profilo olfattivo complesso che richiama note di albicocca, dattero, erbe aromatiche, miele, fichi secchi e che accompagna una beva di grande equilibrio e freschezza e un finale molto lungo e balsamico

Vino ancestrale HeH Solaris 100%con la fermentazione in bottiglia il vino rimane torbido sul fondo e può essere bevuto limpido oppure torbido se agitato. Regala profumi fruttati e floreali, sentori evidenti di pesca, pera e mela. Al sorso una buona acidità e freschezza. Un ancestrale che non ti aspetti.

Amaro Misma viene prodotto con una base id vino rosso da uve PIWI dove vengono messe in infusione 17 erbe aromatiche della zona. Il vino viene affinato in barrique di rovere francese, il prodotto che ne scaturisce è un amaro di ottimo equilibrio e morbidezza che lo rendono ideale da meditazione.

Ne manca uno, il Metodo Classico Costa Jels, ma per questo dobbiamo pazientare, le viscere della montagna lo custodiscono.

Stay Tuned! Prosit!

“Borgo diVino in Tour”: Alla scoperta dei tesori enogastronomici dei borghi più belli d’Italia

Prosegue anche nel corso del 2023 l’appuntamento con “Borgo diVino in Tour“, un evento itinerante che porta con sé il fascino dei borghi più belli d’Italia e la prelibatezza dei migliori vini nazionali. Ben 15 borghi, 45 giorni di evento, oltre 500 aziende, e oltre 1000 vini sono i protagonisti di questo percorso che porta alla scoperta di luoghi unici e sapori indimenticabili. Un’opportunità imperdibile per combinare il piacere del palato con l’incanto dei borghi e un’occasione per esplorare questi territori passeggiando tra vicoli pittoreschi, antiche rocche e panorami mozzafiato, rigorosamente calice alla mano.

Una lunga corsa iniziata il 21 aprile a Valvasone Arzene, gioello nascosto del Friuli, e terminata il 15 ottobre a Spello, fra le colline Umbre.

20 Italie è stata presente per voi nella penultima tappa, quella di Brisighella (RA), precisamente nel weekend del 6, 7 e 8 ottobre.

Brisighella è un borgo medievale situato tra le pendici dell’Appennino Tosco-Romagnolo, incastonato fra Faenza e Firenze. Questo incantevole borgo, uno dei “Borghi più Belli d’Italia” e insignito della “Bandiera Arancione” dal Touring Club, è rinomato per la sua ospitalità e il turismo sostenibile.

Ed è proprio nel cuore di Brisighella, in piazza Marconi, tra stretti vicoli e scale scolpite nel gesso, che si svolge il percorso di degustazione di Borgo diVino. Non è stata solo un’opportunità per ritrovare alcune aziende di produttori locali, ma anche per scoprire altre eccellenze vinicole provenienti da tutto il paese.

In questo primo articolo vorremo parlarvi di alcune realtà che ci hanno colpito, con i relativi assaggi.

La Canosa (AP)

Lo stemma sulle bottiglie ci ricorda la Illva Saronno e difatti La Canosa è di proprietà proprio di Riccardo Reina, innamoratosene nel 2004 essendo un assiduo frequentatore delle Marche alla caccia di buon vino.

Offida DOCG Pecorino “Pekò” 2022

Il vino offre al naso un invitante bouquet con sfumature tropicali, dolci sentori mielati e fieno. In bocca è sia fresco che ampio: la mineralità va a bilanciare perfettamente il calore, che comunque ti avvolge su un finale piacevolmente persistente. Una coccola.

Rosso Piceno Superiore DOC “Nummaria” 2019

Interessante blend di Montepulciano e Sangiovese, che dopo la vinificazione in acciaio vanno a sostare il primo in tonneau e il secondo in botte grande, per poi farsi assieme 1 anno di bottiglia. Cioccolattino alla ciliegia, foglia di tabacco e aromi tipici della torrefazione sembrano il presagio di un vino morbido e strutturato, che in bocca lascia invece sbalorditi per la sua acidità prorompente e un tannino davvero elegante. Persistenza record.

Tenute Martarosa (CB)

Molisn’t? No, no. Esiste eccome. Lunga storia quella dietro Tenute Martarosa, che porta il nome della famiglia Travaglini. Solo di recente però è avvenuto il salto di qualità, grazie al nipote Michele.

Tintilia del Molise DOP “Tintilia” 2020

Solo acciaio per questa varietà che sembra non amare particolarmente le versioni affinate in legno, tendendo a nascondersi un po’ troppo dietro agli aromi del contenitore. Ed effettivamente non ha bisogno di edulcorazioni. Naso accattivante con sentori tipici della marmellata di more e del ramo spezzato, come in un sottobosco di fine estate. Rosa rossa e una delicatezza che ci ricorda la cipria. In bocca è ricco ma tanto tanto agile; fa infatti della sua facilità di beva il suo punto di forza. Vibrante.

Villa Simone (RM)

Siamo a casa di Lorenzo Costantini, nipote di Piero, lo storico proprietario di Villa Simone. Lorenzo non è solo un rinomato enologo, ma è conosciuto anche per essere consulente enologico di molteplici aziende vitivinicole dei Castelli Romani.

Frascati DOC 2022

Una delle prime DOC Italiane, nata nel 1966, nonché primo vino dell’azienda. Spiccate note floreali che ricordano il gelsomino, per passare poi ad addentare una percoca. In bocca entra chirurgico ma non dobbiamo aspettare poi così tanto per sentirlo sgomitare con una marcata vena pseudocalorica, a controbilanciare egregiamente le durezze. Un finale non lunghissimo ma che soddisfa.

Lazio IGP Merlot 2022

Colore spiccatamente purpureo coerente con i sentori di ciliegia appena colta e nepitella. In bocca è succoso, agile e pungente. Una semplice eleganza. Siete curiosi di leggere quali altre aziende ci hanno incuriosito particolarmente?

Ce ne parlerà la collega Olga Sofia Schiaffino nel prossimo articolo.

“Viaggio in Champagne” parte prima: Chavost e lo champagne materico

Chavot Courcourt è un piccolo villaggio che conta poco meno di quattrocento anime, adagiato su uno dei dolci declivi vitati che caratterizzano la Valle della Marna con nitide pennellate di colori. La piccola chiesa di San Martino, col suo cimitero, domina l’orizzonte e caratterizza un tipico paesaggio da favola.

È qui che si trova Chavost, nome ancestrale di Chavot Courcourt, la prima maison di champagne che visitiamo durante un brevissimo ma intenso viaggio in una delle regioni vinicole più affascinanti della Francia. Fabian Daviaux, giovane e talentuoso Chef de Caves, ci accompagna in una visita completamente fuori dagli schemi, durante la quale tocchiamo con mano alcune delle fasi salienti della produzione dello champagne.

Ai tempi della visita eravamo in pieno periodo di vendemmia, dichiarata ufficialmente aperta dal Consorzio l’11 settembre, e incontriamo squadre di vendangeurs provenienti dagli angoli più disparati della Francia, ci muoviamo tra cumuli di uva pigiata e respiriamo profumo di mosto. L’intero villaggio è una fucina a cielo aperto di cui Chavost, minuscola realtà cooperativa nata nel 1946 e costituita da una quindicina di famiglie, è il cuore pulsante.

La nostra esperienza inizia dai locali di pressatura delle uve, dove sono accatastate decine di cassette di Pinot Noir e Chardonnay. Anche qui in Champagne la 2023 non è stata un’annata facile a causa delle condizioni climatiche che, soprattutto in primavera e estate, hanno vessato la regione con piogge continue o picchi di caldo eccessivo. Pinot Noir e Pinot Meunier in particolare hanno risentito sviluppando problemi di muffe o acinellatura, miglior sorte è toccata invece allo Chardonnay.

I cinque ettari di vigneti afferenti a Chavost, ci spiega Fabian, sono in conversione bio. 

Assistiamo alla pressatura dello Chardonnay: 1.2 bar è la massima pressione applicata, con la conseguenza che lo scarto della pressa è un grappolo i cui acini sono  ancora ricchi di succo, ma vengono destinati alla distilleria o all’industria cosmetica. “Sacrificio” necessario per ottenere le cuvées di primissima qualità, che andranno a costituire i vini d’assemblaggio della linea “Sans sulfites ajoutés” (senza solfiti aggiunti). Qui entriamo nel merito dello stile di Chavost e di Fabian: solo lieviti autoctoni per i loro champagne, senza solfiti aggiunti, non filtrati e a dosaggio zero. Scelta che obbliga a un lavoro certosino in vigna, alla raccolta nel momento di perfetta maturazione tecnologica delle uve e al controllo pedissequo di tutte le successive fasi di lavorazione.

Passiamo alla sala di fermentazione. Assaggiamo il succo d’uva Chardonnay: un nettare dolce e piacevole; assaggiamo il mosto di Pinot Meunier in fermentazione da uno, cinque, sette giorni: la dolcezza sfuma via via in quelli che saranno i caratteri dominanti degli champagne finali, la freschezza vibrante e il retrogusto piacevolmente amaricante del pompelmo. Diversi tini sono anche destinati a grandi maison di champagne, che non possiamo in questa sede citare per via dei contratti di riservatezza.

Infine la degustazione, in terrazza, come si conviene agli amici, davanti alla distesa di vigne che ci ha accolto al nostro arrivo. È questo forse il momento più peculiare e spettacolare della nostra visita: tutti gli champagne in degustazione vengono sboccati sul momento, alla volée, permettendoci di apprezzare al meglio le caratteristiche dello stile Chavost. E materico è sicuramente l’aggettivo per definire, con un’unica parola, questo champagne, che, attraverso le scelte dell’uso esclusivo di lieviti indigeni e del dosaggio 0, esprime al meglio le caratteristiche dei terreni gessosi su cui crescono le viti.

BLANC D’ASSEMBLAGE 2021

50% Chardonnay – 50% Pinot Meunier – uve da agricoltura convenzionale

30% della massa vinificata in barrique

Senza solfiti aggiunti – dosaggio 0

Naso immediatamente minerale, poi piccoli frutti rossi ancora acerbi.

Spinoso in bocca, a tratti tagliente, si delinea già timidamente la nota di pompelmo che caratterizza gli champagne Chavost. Un puledro ancora da domare, che si farà apprezzare al suo meglio non prima di un anno.

BLANC D’ASSEMBLAGE 2022

67% Chardonnay – 33% Pinot Meunier – uve da agricoltura convenzionale

20% della massa vinificata in barrique

Senza solfiti aggiunti – dosaggio 0

Definito da Fabian uno “young champagne” (chi mai sboccherebbe uno champagne a meno di un anno dalla vendemmia delle uve?), mostra già un carattere definito, con chiari sentori fruttati. Il naso infatti è di mela verdissima ma anche di fiori bianchi fragranti. In bocca è fresco e piacevolmente lungo sulla caratteristica nota amaricante.

EUREKA 2020

 50% Chardonnay – 50% Pinot Meunier – uve da agricoltura biologica

100% della massa vinificata in barrique

Senza solfiti aggiunti – dosaggio 0

Top di gamma della linea, Eureka è il compendio dello stile Chavost. Al momento di decidere il nome, la scelta era tra Abracadabra e Eureka. Quest’ultimo ebbe la meglio perché lo champagne non è il risultato di una formula magica ma la perfetta sintesi del duro lavoro in vigna e delle corrette pratiche di cantina.

Eureka ha immediatamente sentori di biancospino, seguono note agrumate e di erbe aromatiche. Al sorso si rivela elegante, pulito e di vibrante freschezza.

ROSE DE SAIGNEE 2022

67% Pinot Noir – 33% Pinot Meunier – uve da agricoltura biologica

Vinificato in acciaio

Senza solfiti aggiunti – dosaggio 0

Colpisce immediatamente il colore corallo carico.

Pot pourri di petali di rosa rossa e golose fragoline di bosco caratterizzano il naso, mentre al palato si rivela gustoso, piacevolmente croccante e tipico nel retrogusto di pompelmo.

RATAFIA’

“Du moût de raisin, de l’alcol, et pis c’est tout!”, recita l’etichetta della ratafià Chavost: “mosto d’uva, alcol e questo è tutto”.

Ottenuta con un volume d’alcol ogni quattro di mosto (50% di Chardonnay e 50% di Pinot Meunier), questa ratafià è elaborata con metodo solera.

Il risultato è un liquore che non supera il 20% vol.alc. dai piacevoli sentori di rosa, uva passa e distillato, perfetto accompagnamento per formaggi erborinati e dolci.

Champagne Chavost

16 Rue d’Ilbesheim

51530 Chavot-Courcourt

Francia

Lazio: D.S. Bio di Danilo Scenna “autoctono” purosangue

“Traccia la tua rotta verso una stella e supererai qualsiasi tempesta”, scriveva Leonardo Da Vinci. E così usciamo dall’areale del Cesanese viaggiando più a sud ai confini tra Lazio, Abruzzo e Campania, in località Pescosolido nei pressi di Sora (FR), dove si trova una stella nascente, la Cantina D.S. Bio di Danilo Scenna.

Quando faceva parte al Regno delle Due Sicilie, questo territorio apparteneva alla Campania, e fu Federico II a chiamare tutti i paesi della zona con il nome dei quartieri di Napoli. Ancora oggi il dialetto locale è un misto tra campano e abruzzese.

Danilo ha ereditato vigneti a piede franco di ottanta anni che crescono su pendii proibitivi per la meccanizzazione costringendo alla cura manuale, con un approccio olistico, ecologico ed etico, secondo la filosofia di Demeter. Oltre ad essersi appassionato all’allevamento di cavalli, Danilo si è dedicato alla coltivazione della vite con tanta passione ma soprattutto seguendo i principi di sostenibilità con il metodo della agricoltura biodinamica.

Tradizione e innovazione si incontrano perfettamente portando di pari passo la produzione di viti che contano svariati lustri, e una cantina moderna, diffusa in un piccolo borgo che Danilo sta ristrutturando dandogli nuova vita. Vitigni come Maturano, Pampanaro, Trebbiano, Lecinaro, Uva Giulia.

La qualità dei suoi vini in crescita, in alcuni casi hanno qualche angolo da smussare date le varietà autoctone riscoperte e salvaguardate, ma sempre “ben fatti” e la passione, la cura e la determinazione, sono qualità che ritroviamo nel bicchiere. Nessuna chiarifica, filtrazione o alterazione per tutti i vini prodotti.

INDOMATO Macerato 2021 85% Maturano, 10% Pampanaro e 5% Trebbiano. Nel mondo del vino, ci sono creazioni che sfidano le convenzioni e incantano con la loro audacia. Si presenta con un carattere fresco di note agrumate e un finale sorprendentemente sapido.

MATRE Frusinate IGT Bianco 2018. 60% Maturano e 40% Trebbiano a piede franco, è una celebrazione dell’eleganza e della complessità vinicola. Con il suo bouquet floreale che richiama la magnolia, la ricca gamma di sapori e l’evoluzione in bocca, questo vino è un’esperienza che merita di essere esplorata e apprezzata. Incanta con una beva fluida e scie di frutta esotica.

INDOMATO Rosato 2022. Uva Giulia in purezza vendemmiata a novembre con raccolta manuale delle uve e dopo la spremitura, la massa non ha nessun contatto con le bucce. Una bella spalla acida con note agrumate e verdi, finale leggermente amaricante.

VOLUMNIA Rosso del Frusinate IGT 2021. Sangiovese 40%, Lecinaro 40% e Uva Giulia 20%. Rivela solo un assaggio del suo potenziale. Bene attendere uno o due anni prima di aprirlo, per godere pienamente delle sue qualità.

PALMIERI Lecinaro del Frusinate IGT 2021, Lecinaro in purezza, Palmieri è un’autentica espressione di questa varietà di uva. Una scoperta sensoriale che delizia con note solfuree e vegetali arricchite da un intrigo di erbe aromatiche. Affascinante.

ARCARO Maturano del Frusinate IGT 2021, da Maturano in purezza coltivate su un terreno ricco di bauxite. Vinifica in vasche di cemento senza macerazione con le bucce e senza lieviti selezionati ma con i suoi stessi lieviti. Macerazione carbonica iniziale, affina sulle fecce fini per 6/7 mesi durante i quali viene effettuato il bâtonnage.

Esempio di eleganza in bottiglia, è un vino che merita di essere esplorato da chi cerca autenticità e carattere in ogni bicchiere. Di tutti il mio preferito.

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Molise Tenute Martarosa: il primo moscato al mondo affinato in mare

Comunicato Stampa

Il piccolo Molise vanta un primato ancora poco conosciuto, quasi come fosse nascosto sul fondo del mare. Si produce a Campomarino, precisamente alle Tenute Martarosa di Nuova Cliternia, il primo moscato al mondo affinato in mare. È il Moscato under water che deriva dal vitigno coltivato a circa 2 chilometri dalla riva di Campomarino e che, dopo la lavorazione, viene tenuto per sei mesi nelle acque di Portofino. Una eccellenza nonchè un primato, visto che non parliamo di vini extra regionali affinati in Molise bensì di un prodotto locale che sta per essere lanciato in un mercato sempre più esigente e contraddistinto da qualità in ascesa.

Merito di un’azienda a tradizione familiare che prende origine nel 1938, quando il nonno dei fratelli Pierluigi e Michele, attualmente al comando delle Tenute Martarosa, scelse la terra fertile di Campomarino trasferendosi lì dall’Abruzzo. Da coltivatori di uve, i Travaglini sono diventati produttori di vino nel 2016, con l’obiettivo di crescere e sperimentare, tentato di dare lustro al territorio.

Il vigneto in questione è figlio di un progetto nuovo, che intende contrastare anche il luogo comune secondo cui il moscato sarebbe un vino dolce perfetto esclusivamente per il dessert. Non è così. “È nella sua versione secca che questo vino davvero sorprende, perché mantiene gli stessi profumi ma al palato rivela carattere e freschezza, diventando ideale come aperitivo e come accompagnamento a crudi di mare” svela un sommelier del territorio. L’affinamento in mare promette di aggiungere la carta vincente a queste caratteristiche: il Moscato Under Water annata 2021 è un vino sapido che, data la sua stretta correlazione con l’acqua salata, nasce proprio come vino da abbinare a tartare, ostriche, plateau di cruditè.

Particolari sono anche le bottiglie, che oltre alla raffinatezza delle normali bottiglie di Tenute Martarosa hanno la caratteristica di raccogliere e sedimentare tracce di permanenza in mare che rendono unica e inimitabile ognuna delle circa mille bottiglie affinate a 50 metri di profondità, grazie alla collaborazione con una ditta specializzata. Osservandola da vicino, ogni bottiglia appare come una sorta di quadro astratto, una opera d’arte che contiene a sua volta un’altra opera di grande maestria.

Non è il primo vino a essere affinato in mare ma è il primo moscato e certamente è il primo vino molisano, una assoluta novità e un esperimento del quale il Molise dovrebbe andare orgoglioso, un prodotto destinato a una fascia di pubblico medio-alta che si inserisce in un segmento di mercato ben preciso. Le bottiglie – circa mille – saranno commercializzate solo da un ristretto numero di aziende a un prezzo adeguato rispetto al valore.

Calabria: Terre del Gufo il coraggio di Eugenio Muzzillo di cambiare rotta

Arrivo nel comprensorio di Donnici sotto una pioggia fastidiosa, di quelle sottili che lascia un senso di umido e appiccicaticcio addosso. Per fortuna sono puntuale, anche perché Eugenio Muzzillo mi attende curioso di capire chi fossi da cercare un’intervista nella sua azienda.

Eugenio Muzzillo

Ne nasce uno di quei momenti ideali per cui senti di aver scelto la strada giusta: quella di raccontare volti, filosofie produttive e, naturalmente, varietà d’uva disseminate lungo lo Stivale. Per giungere a Terre del Gufo bisogna percorrere un sentiero immerso nei boschi e lo spettacolo che si offre agli occhi del visitatore è davvero incantevole.

Non pensavo di raccontare una Calabria inesplorata così bella, a tratti selvaggia e suggestiva. Non lo pensavo, ma mi son dovuto ricredere in maniera repentina. I terreni sono quelli di famiglia, del padre, circa 4 ettari coltivati principalmente a magliocco dolce, qui sovrano tra gli autoctoni. La compagnia giusta per lui è il brettio nero, localmente chiamato mantonico nero, utile a domare la vena tannica del varietale d’elezione.

Vini di progetto o vini di esperienza?

La domanda alla quale io ed Eugenio, entrati subito in sintonia, abbiamo cercato di dare una sommaria risposta, senza colpevolizzare il lavoro di nessuno. Ma non è l’unico dei quesiti (apparentemente) irrisolti della nostra amabile chiacchierata. L’altro riguarda proprio il magliocco, in queste terre da sempre, relegato nel passato a dare vini scorbutici, tali da essere surclassati di gran lunga dalle versioni in rosa, meglio gestibili nelle astringenze tanniche ed erbacee. Il mantonico nero riesce nel compito di domarlo, con disinvoltura, senza snaturarne l’anima. E dire che molti viticoltori manco sanno della sua presenza nei propri filari. Dunque, ancora una volta, vini di progetto o di esperienza? Sicuramente avere un progetto è la base per qualsiasi sogno lungimirante, ma si rischia di avere prodotti stereotipati, in forma di copie identiche gli uni agli altri.

Per Muzzillo è così bello potersi distinguere, pur nel rischio calcolato di avere sgrammaticature per un’annata non felice o per qualche piccolo errore di cantina. Come dargli torto, nei limiti dell’umana degustazione?

Gli assaggi

Tante parole e alla fine manca il quibus, la gratificazione di bocca. Partiamo con il Portapiana Igp Rosso Magliocco 2020, da agrumi succosi e more selvatiche. La vena balsamica emerge nel finale, quasi essenza chinata. Mediterraneo e sapido, considerando i minimi interventi effettuati in fase di fermentazione e maturità, dimostra quanto sia importante un lavoro perfetto tra le vigne, per avere il miglior raccolto possibile. La 2021 da vasca è straordinaria per lunghezza e prospettiva. Le differenze sono già lampanti, soprattutto nella struttura, a vantaggio della vintage ancora non in commercio. Ne vedremo delle belle.

Concludiamo con Estremo Dop Terre di Cosenza Donnici Rosso Magliocco 2020 con sosta in anfora di terracotta. Qualche riflessione va fatta, per la maggior evoluzione e compiutezza, al contempo, rispetto al precedente campione. Sempre più vigneron optano per l’utilizzo di contenitori simili e i risultati sembrano (finalmente) soddisfare la linea dell’eleganza.