L’angolo di Campania Stories: il Greco di Tufo dell’Azienda Agricola Petilia

Roberto e Teresa Bruno, uniti dalla nascita da quel legame di sangue fortissimo tra fratello e sorella, si sono scoperti uniti ancor di più dall’amore per il vino e la propria terra con l’Azienda Agricola Petilia. L’Irpinia ha anche il loro volto, lo abbiamo visto durante la recente kermesse di Campania Stories, organizzata dall’agenzia Miriade & Partners, un caposaldo nel panorama enologico campano.

Il degno racconto di un territorio non può estraniarsi dalla visita in loco dei vitivinicoltori, utile a verificare con i propri occhi quanto assaporato al calice durante le degustazioni tecniche. Il terroir compreso tra i fiumi Sabato e Calore, sovrastante la città di Avellino, è una fucina di altissima qualità, non sempre pari alla reale capacità comunicativa potenziale. Manca ancora quello scatto d’orgoglio che separa il concetto di “io faccio meglio di tutti” dal più consono “insieme facciamo meglio degli altri”.

Roberto Bruno

I prodotti però parlano da sé: tra le Docg Fiano di Avellino, Greco di Tufo e Taurasi ci sarebbe soltanto l’imbarazzo della scelta. Questioni di lana caprina che poco interessano il pubblico, desideroso solo di comprendere al meglio cosa siano i vini locali. L’Azienda Agricola Petilia rappresenta, in tal senso, un ottimo viatico, con le sue versioni di Greco di Tufo davvero interessanti sia per il palato esigente sia per chi vuole solo avvicinarsi senza impegno ad una varietà d’uva antichissima, dalla forte personalità.

Circa 25 gli ettari vitati, di cui una piccola componente destinata anche all’Aglianico, su cui i Bruno stanno profondendo non poche energie. Siamo ad Altavilla Irpina, precisamente Contrada Princera, il confine sud dell’areale. Il massiccio montuoso del Partenio si scorge da lontano e la presenza di zolfo, arenaria e silice rendono il suolo fortemente vocato per il Greco. Una componente sulfurea dovuta non soltanto alle eruzioni vulcaniche, bensì all’attività batterica sui fondali del lago primordiale presente in origine in queste zone.

Testimone plastico di quanto detto è la puddinga, roccia sedimentaria tipica, dalle diverse forme e colorazioni, creata dall’elevata pressione cui erano sottoposte le sabbie lacustri ed oggi utilizzata come materiale da costruzione. Da normali conferitori, nel 1999 avviene il grande passo per la cantina, con la prima etichetta imbottigliata. L’organizzazione e la cura maniacale di Roberto fanno il resto, consapevole dell’inevitabile cambiamento climatico in atto, che sta riducendo l’acidità media dell’uva, aumentando la quantità di catechine.

Ne conseguono vini mediamente dalle tonalità più intense, corredo alcolico in salita e difficoltà nel gestire il giusto equilibrio tra morbidezze e note astringenti. Un bravo vigneron deve adattarsi a qualsiasi difficoltà climatica, con le dovute accortezze del caso. I Greco di Tufo di Petilia riescono a coniugare bene tutte queste cose, grazie anche alle esposizioni fresche dei vigneti e alla buona scorta di riserve idriche.

La degustazione

“Tarantella” 2023 il Pét-Nat inaspettato, dal sorso gradevole e dinamico, contenuto nelle sue 4 atmosfere, per una bollicina fine e saporita. I caratteri del Greco si notano tutti: dalla scia di zagare al corredo d’agrume e pera, per finire su fiori di sambuco.

“Quattro Venti” 2020 Greco di Tufo Riserva racconta della bellezza di un’annata in grande spolvero, dove l’eleganza ha vinto sulla forza. Ginestra, gelsomino e nuance da cedro maturo su finale polposo, quasi appetitoso, tra ginger, timo e maggiorana.

Greco di Tufo 2009: non poteva mancare una vecchia vintage a chiudere il percorso, per dimostrare la serbevolezza della tipologia. Mela cotogna, sbuffi caramellosi uniti a pera williams, mandorla secca, tocchi di pepe bianco ed idrocarburo. Chiusura straordinaria e perfettamente integra.

Viticoltori di Greve in Chianti: vecchie annate, nuovi modi per raccontare il Chianti Classico

I Viticoltori di Greve in Chianti si ritrovano nuovamente e stavolta propongono alla stampa una delle rare occasioni per parlare di vino in modo insolito. Sembra strano, ma quando si parla di degustazione vecchie annate alcuni storcono il naso, pensando a qualcosa che abbia a che fare col mondo dei trapassati.

Vini ossidati, mal conservati o, perché no, persino difettati, che celano le mancanze di un territorio dietro al concetto abusato di “emozione”. Altri invece, bramano dal desiderio di capirci qualcosa, parlando bene di crisantemi e ricordi plumbei e male di catrame e suoi derivati. O viceversa.

Esiste poi un luogo in Toscana, tra Firenze e Siena, dove tali dubbi si annullano. Dove piuttosto che narrare di annate si preferisce ripercorrere le tappe degli stili e dell’evoluzioni tecniche e commerciali, partendo dall’assunto che a far male un Chianti Classico ce ne vuole…

Il comune di Greve solo relativamente di recente, nel 1977, è entrato a far parte di diritto dell’areale denominato Classico e delimitato in maniera quasi immutata già dai tempi del Bando Granducale del 1716, potendo aggiungere al suo toponimo cittadino la dicitura “in Chianti”. Ed in quelle generazioni, parliamo degli anni ’70 e ’80, l’arte di essere viticoltore si contornava di tecniche empiriche nate sul campo, come la vigna tipica alla toscana mista da varietà foriere di uve bianche e rosse, raccolte insieme durante la vendemmia.

La regola del Barone Ricasoli esisteva da un secolo e consigliava, per dare serbevolezza ed eleganza ai vini eccelsi, di utilizzare solo Sangiovese, Canaiolo, Colorino e autoctoni tipici per l’epoca. Le uve bianche, però, hanno saputo in tanti casi preservare nel tempo quelle freschezze da sbuffi d’arancia sanguinella, impronte indelebili della tipologia.

In un pazzesco Chianti Classico Riserva 1979 Castello di Verrazzano, al di là di un colore ormai mattonato, resta un anelito sanguigno e speziato dal tannino quasi palpabile, che spinge l’assaggiatore a chiudere gli occhi sospirando di goduria. La zona di Montefioralle, con le sue vette, ha certamente contribuito a dare vigore, ma alcune cose non si possono comunque spiegare: vanno accettate e basta.

Così il Chianti Classico Riserva 1988 “Il Picchio” Castello di Querceto, bucolico, subliminale, puro sussurro d’arancia rossa e china Martini dal finale sapido e ferruginoso. O il Chianti Classico Riserva 1993 “La Prima” Castello di Vicchiomaggio, quando John Matta lo vinificava utilizzando solo acciaio, evitando sovrastrutture in tempi dove le maturazioni complete spesso latitavano. Un piccolo saldo di Canaiolo e Colorino e l’assaggio risulta ancora materico dopo tre decadi, ricco d’amarene gelatinose e liquirizia.

Da qui, da gente che ha dovuto superare la crisi gravissima del comparto culminata con quella del dramma del metanolo, si è passati alla seconda fase produttiva con l’arrivo di tecnologie ed enologi di fama consolidata. Arrivano i legni piccoli, le estrazioni, i cambi agronomici. Persino coloro che utilizzavano vecchi fusti grandi ne vengono, in qualche maniera, influenzati dal nuovo corso.

Chianti Classico 1994 Querciabella vede la presenza degli internazionali Cabernet e Merlot; la “new wave” prende piede in fretta, garantendo maggior prontezza di beva e tannini mansueti. Da allora e fino ai primi anni 2000, il trend ha visto un po’ ovunque prodotti dalla linea panciuta, apprezzatissimi a quei tempi, meno adesso. La qualità media si è però elevata salendo di gradino in gradino fino ai vini d’oggi, espressioni eleganti delle varie zone vocate.

Che sia il succo piacevole di Panzano, il tannino fitto della Destragreve, le potenze di Greti e Chiocchio e le acidità vibranti di Montefioralle unite ai tratti ancora verdi di Dudda e Lucolena (avvantiaggiati nel futuro dai cambiamenti climatici in atto), il vero fil rouge è l’assoluta aderenza al territorio. Meno schiettezza, ma tanta sostanza, come nel Chianti Classico 2022 di Viticcio o nel Chianti Classico 2021 di Terreno, reputati i migliori tra gli assaggi dei “giovani” scelti per la Masterclass condotta da Cristina Mercuri, candidata Master of Wine, in una rovente Sala Consiliare del municipio di Greve in Chianti.

Da sinistra Cristina Mercuri Wine Educator, Victoria Matta presidente Viticoltori di Greve in Chianti e Paolo Sottani sindaco di Greve in Chianti

Il Presidente dei Viticoltori di Greve in Chianti, Victoria Matta, non può che rallegrarsi dei risultati raggiunti nel calice, pur consapevole che il percorso è ancora in salita e nuovi ostacoli dovranno essere superati.

L’evento è terminato con le proposte gastronomiche degli chef Ariel Hagen del ristorante una stella Michelin “Saporium” di Simone Geri del “Ventuno Bistrot”, di Simone Caponnetto del “Locale” tutti di Firenze e poi di Giulia Talanti del “Dek” di Prato e Mattia Parlanti di “Palazzo Tiglio” a Bucine (AR).

Metti una sera a cena al ristorante Dei Cappuccini dell’Anantara Convento di Amalfi Grand Hotel

Ho sempre amato le sfide, specie quelle senza un vincitore. I veri duelli sono altri e presuppongono caratteristiche d’animo che non mi sono mai appartenute. Meglio le nobili tenzoni tra calici, posate ed eleganti tovagliati dove il gusto diventa il vero protagonista, con un tocco di cultura enogastronomica per comparare idee ed esperienze differenti.

Una “cena a quattro mani” rappresenta questo e molto altro. A cominciare dalle sinergie, quelle tra due strutture di un rinomato brand per esempio: Anantara Convento di Amalfi Grand Hotel e Anantara Grand Hotel Krasnapolsky Amsterdam. L’occasione vede coinvolti due chef di eccezionale talento, ciascuno con una distinta storia e tradizione.

Claudio Lanuto, Executive Chef del Ristorante Dei Cappuccini, e Tristan de Boer, Chef de Cuisine del ristorante 1 stella Michelin The White Room di Anantara Grand Hotel Krasnapolsky Amsterdam, hanno collaborato nel creare un menu di otto portate davvero superbo.

Chef Claudio Lanuto

Claudio sa valorizzare le materie prime a chilometro zero, esaltando i profumi ed i sapori della Divina Costiera. Le doti tecniche si fondono alla perfezione con gli ingredienti del suo orto, immancabili nelle pietanze ricche di gusto estetico e pratico.

Sono felice e onorato di questa collaborazione“. Racconta l’Executive Chef Claudio Lanuto.È un affascinante incontro tra Amalfi e Amsterdam, dove due tradizioni così distinte si fondono in un’armonia perfetta. Attraverso l’uso di ingredienti comuni, ma con interpretazioni diverse, rispettiamo e valorizziamo la stagionalità di ogni prodotto. Auspico sinceramente che questa collaborazione sia solo l’inizio di una lunga serie di eventi che celebrano la diversità e la ricchezza delle nostre tradizioni gastronomiche.

Chef Tristan de Boer

Tristan de Boer, classe ’93, è invece lo chef di The White Room di Anantara Grand Hotel Krasnapolsky Amsterdam. Cresciuto in una città ricca di culture diverse, ha sviluppato uno stile culinario unico che fonde elementi della cucina indonesiana, giapponese, tailandese e del Suriname con la tradizione locale. Ha iniziato la sua carriera a soli 13 anni e ha lavorato in ristoranti stellati come Ron Blaauw**, Aan de Poel** e Librije’s Zusje** (ora Spectrum**), diventando Souschef a 23 anni.

In seguito, è stato capo chef del 101 Gowrie, dove ha vinto il premio “giovane chef dell’anno” della Michelin, e Chef dell’Hotel Conservatorium. Al The White Room, Tristan esprime la sua creatività con piatti innovativi che utilizzano ingredienti insoliti, come geranio e Madame Jeanette, cercando sempre di superare le aspettative degli ospiti.

Due visioni opposte, unite dalla passione per la cucina d’autore e la sperimentazione. Innegabile che il luogo, il contesto particolare, determini poi lo stile in cucina. Una capitale europea come Amsterdam, crea maggior possibilità per avvicinarsi alle contaminazioni internazionali. Parimenti Amalfi sa accogliere turisti da ogni Nazione, che si adattano subito e anzi cercano le bellissime experience nostrane che noi campani dimentichiamo di avere a portata di mano. Pasta, verdure, erbe officinali ed il pescato del giorno, cucinato nei modi più delicati possibili.

Ed a proposito di piatti, merita una degna menzione l’entrée proposto da Tristan a base di gambero rosso, caffè e zenzero marinato, così come la ricciola con geranio limone, dashi affumicato e bergamotto, di gran lunga il piatto migliore della serata.

Chef Lanuto ha saputo destreggiarsi nel rituale del pane con burro montato alle erbe della Costiera e nel dentice alla griglia con peperoni friggitelli, capperi e olive di una concretezza disarmante.

Nel dolce permane una situazione di pareggio tra la morbida mousse di limone, liquirizia, fragola e dragoncello e una tonica pesca bianca con limoncello, latticello e limone d’Amalfi forse troppo energica per le abitudini gastronomiche italiane.

La nouvelle vague dei dessert richiede ormai sempre maggior contrasto tra sensazioni dolci e acide o astringenti; l’opinione da critico del sottoscritto, che nulla aggiunge alla magnifica serata evento, è che tutto va bene a patto che avvenga cum grano salis.

Bentornati nell’anno delle Ginestre

Dove eravamo rimasti? Nella calura estiva delle Feriae Augusti, anche la Redazione di 20Italie si è concessa un momento di pausa dai numerosi impegni svolti da inizio anno.

Nel nostro lavoro, all’apparenza poco impegnativo, fatto solo di mangiate e bevute (così dicono le malelingue), il riposo genera nuove energie e voglia di fare. La comunicazione ha bisogno dei giusti stimoli per essere svolta al meglio delle possibilità.

Dunque, è tempo di ripartire da dove abbiamo finito. Sono sempre là, pronti ad esibirsi, i temi cari all’enogastronomia: primo fra tutti, immaginiamo, il perenne squilibrio climatico con numeri non sempre rispondenti alla reale situazione della viticoltura italiana. A sentire numerosi protagonisti, l’immagine è quella di un settore in forte difficoltà nel gestire maturazioni sempre più precoci e mancanza d’acqua per la sopravvivenza stessa delle piante. A leggere i numeri prodotti sembrerebbe l’esatto opposto.

E poi gli annosi dubbi che tolgono il sonno agli addetti: quale sarà il contenitore giusto per l’affinamento dei vini ed in quale luogo, compreso tra mare, monti e persino spazio siderale? Un tema di dibattito che nasconde, a volte, la paura di aver già raccontato ormai tutto del mondo del vino.

Non ci resta che parlare d’altro? Magari della splendida annata per le ginestre, presenti un po’ ovunque lungo lo Stivale, a dare colore e profumi alla macchia mediterranea. Una pianta adorata anche dal “pessimista cronico” Giacomo Leopardi, cui ci lega, a volte, un profondo sconforto nel vedere tanta omologazione e superficialità nel raccontare storie quotidiane.

Proveremo, provocazioni a parte, a scardinare il problema che sta alla base del nostro mestiere: l’autoreferenzialità. Lo faremo parlando di ristorazione, vino o semplicemente della storia di un territorio, magari da scoprire insieme a voi lettori senza distanze e senza celebrazioni. “Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica” scriveva L.F. Céline nel capolavoro Viaggio al termine della notte.

Bentornati nell’anno delle ginestre: la stagione di 20Italie riprende il via con tante novità e la solita, spensierata, passione.

Vinitaly 2024: la “purificazione del Tempio” (del vino) è finalmente compiuta

Anche quest’anno le telecamere e i microfoni di 20Italie erano presenti a Vinitaly, per documentare il grande fermento del settore vitivinicolo italiano. “Fuori i mercanti dal Tempio”? Niente affatto! Siano benvenuti i “mercanti”, con un aumento degli operatori esteri da ben 140 paesi, di cui 1200 top buyer invitati e ospitati da Veronafiere in collaborazione con Ice Agenzia.

Bilancio positivo anche per Vinitaly Plus, la piattaforma di matching tra domanda e offerta con 20mila appuntamenti business, raddoppiati in questa edizione, e per il fuori salone Vinitaly and the city, che ha superato le 50mila degustazioni (+11%). Al netto delle presenze politiche ed istituzionali di rito, i visitatori complessivi hanno oltrepassato la soglia delle 97 mila unità: una vetrina impareggiabile per il Made in Italy nel mondo intero.

Un trend inarrestabile, con un cambio di passo avvenuto proprio durante gli anni tremendi della pandemia Covid, quando gli ingressi furono contingentati, dando respiro al dialogo tra produttori e venditori: lo scopo essenziale di una Fiera tra le più importanti d’Europa, giunta ormai alla 56^ edizione.

L’allestimento dei padiglioni dimostra parimenti un salto di qualità importante, con alcune aree e slot disegnati appositamente da stilisti e interior design. Un vero “Tempio del vino”, curato in ogni particolare, assistito dal personale dell’organizzazione, che ha risposto con prontezza alle esigenze richieste dalla banchettistica.

E poi il piacere di vedere i volti felici degli imprenditori; tavoli e sedie occupati dagli operatori nell’attesa di concludere ordini e contratti di fornitura; degustazioni guidate che hanno agevolato il compito della stampa nel fornire un servizio esaustivo per il lettore. Passeggiare senza spintonarsi, senza vedere situazioni “critiche” di chi abusa di alcool, è un inno per quanti (noi compresi) propongono l’idea del bere responsabile.

Se il Vinitaly cambia forma, anche la cultura del vino deve adeguarsi, scoraggiando l’iniziativa di chi ha dipendenze fisiche o non riesce a controllare gli istinti, penalizzando chi vuole lavorare in serenità e con risultati soddisfacenti. Ottima l’idea dell’aumento annuale dei costi d’ingresso, con un ticket giunto alla soglia dei 120 euro. Ottima l’idea di uno stand della Polizia di Stato a fungere da dissuasore degli abusi. Ottima, infine, la partecipazione dell’Associazione Italiana Sommelier in tanti spazi espositivi di Consorzi ed altri Enti fieristici compresa una confortevole Area Lounge, dove la professionalità fa la differenza.

Fuori i beoni, dentro solo gli operatori del settore e chi ama questo mondo bellissimo, il pane quotidiano delle nostre rubriche enogastronomiche. Colori, sapori, esperienze interattive e coraggio: con questi valori diamo un arrivederci alla 57^ edizione di Vinitaly a Veronafiere dal 6 al 9 aprile 2025.

Tutte le interviste puoi trovarle qui

Paestum Wine Fest 2024: quest’anno non ce n’è per nessuno

Capita poche volte di trovarci di fronte ad un evento senza pecche o sbavature, dove l’interazione tra produttori, operatori del settore, stampa e appassionati è stata semplicemente perfetta.

Ad evento sano e competitivo corrisponde un’altrettanta affluenza di visitatori, attratti non soltanto dalla conoscenza diretta con i produttori presenti, ma anche dalle numerose degustazioni guidate e dalla punta di spicco dell’enologia moderna come Riccardo Cotarella, ammirato dai vini caldi del Sud Italia.

20Italie era presente con la troupe al completo al NEXT – Nuova Esposizione Ex Tabacchificio SAIM, borgo di Cafasso – Capaccio (SA). Nei prossimi giorni amplieremo la vasta playlist sul canale YouTube con delle interviste che lasceranno l’acquolina in bocca agli ascoltatori, esattamente come i vini presenti alla manifestazione. Non basta: ci sarà un piccolo approfondimento tematico con una giovane azienda cilentana di spirits ed un gin fortemente identitario a base di fico.

Spazio gastronomico all’aperto complice le giornate primaverili all’insegna del bel tempo, con materie prime a chilometro zero. Start il 23 marzo con il consueto saluto delle Autorità e di Angelo Zarra, patron della manifestazione. Eventi di tale portata non possono che far bene all’intero comparto, ultimamente in fermento per alcune polemiche nate a seguito di inchieste giornalistiche.

Angelo Zarra

Osserviamo quanto accade con spirito critico, ma consci del sacrificio di tanti viticoltori che cercano di quadrare i conti nel rispetto della legalità e della qualità finale. Bisogna tenerne conto quando si toccano temi delicati che potrebbero nuocere ad un settore fiore all’occhiello del Made in Italy ed il Paestum Wine Fest è il luogo giusto per discuterne con professionalità e competenza.

Taurasi chiama Barolo

Ospitiamo con piacere nella rubrica L’editoriale del lunedì un articolo “appasionato” e appassionante del collega giornalista Gaetano Cataldo.

Buona lettura

È trascorsa qualche settimana da quando il Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani ha diramato un importantissimo, rivoluzionario comunicato: il consiglio di amministrazione dell’ente vitivinicolo piemontese ha approvato alcune sostanziali modifiche ai disciplinari di competenza, diverranno effettive a patto che la maggioranza dei produttori voterà favorevolmente.

Menzioni comunali per il Barbaresco, utilizzo dei grandi formati, interscambiabilità tra le aree di Barolo e Barbaresco per vinificazione e imbottigliamento, sono alcuni dei temi. Tra le proposte di modifica c’è anche, nell’ottica di trovare valide soluzioni al cambiamento climatico, la rimozione del divieto di impiantare viti di Nebbiolo, atte a Barolo e Barbaresco, sui versanti esposti a Nord, senza però accrescere la superficie complessiva dei vigneti. Fin qui tutto bene ma, sostengono i vertici del Consorzio, a causa di un disciplinare obsoleto redatto negli anni ’60, occorre limitare il perimetro entro cui imbottigliare il Barolo e il Barbaresco, in quanto per legge deve coincidere con la zona di vinificazione, con l’obiettivo di tutelare le denominazioni da un punto di vista sia etico, che economico-commerciale.

Non è la prima volta che Matteo Ascheri, al timone del suddetto Consorzio di Tutela, propone soluzioni alternative: ricordiamo la decisione di fare passo al Vinitaly dopo il 2022, per impiegarne i costi risparmiati per far meglio in termini comunicativi per le cantine. Per il presidente Ascheri limitare l’imbottigliamento fuori dalle aree produttive è necessario perché scongiura frodi e risolve il gap fiscale inerente le esportazioni negli Stati Uniti: tali contromisure tengono conto del vigente Tree Tears System sul mercato americano, che diversifica il livello di tassazione tra importatore, distributore e dettagliante, implicando un maggior aggravio fiscale per chi esporta esclusivamente Barolo imbottigliato rispetto a chi esporta il vino sfuso, poi imbottigliato in loco.

In sostanza, se le riforme al disciplinare passeranno, si eviteranno alcuni salti nei vari passaggi tra la ricezione dello sfuso e l’imbottigliamento fuori zona, scoraggiando condizioni competitive troppo differenti tra gli attori posti a diversi livelli del mercato e si potranno prevenire le frodi e zone d’ombra.
“Devo considerare, chiedendo scusa ai miei Barolo e Barbera, che il Taurasi si deve considerare loro fratello maggiore” sosteneva l’on. Arturo Marescalchi, famoso enologo ed agronomo piemontese, nonché sottosegretario al Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, agli inizi degli anni ’30.

Per mettere in connessione gli universi Barolo e Taurasi però, basta tagliare corto e stabilire che la congiungente, in questo caso, fuori dall’indiscussa qualità di entrambe le eccellenze enologiche, è una sola: riguarda proprio gli imbottigliatori fuori dall’area di produzione. È il caso di ricordare che la denominazione di origine controllata e garantita afferente al Taurasi, non certo la sola in Campania e come tante altre in Italia, è incernierata su un disciplinare aperto, ossia che consente l’imbottigliamento fuori zona di produzione, addirittura in aree extraregionali. Tali clausole non sono riconducibili anzitutto alla docg, entrata in vigore nel ’93, ma piuttosto rappresentano un retaggio della vecchia doc del 1970, assolvendo senz’altro a necessità e urgenze dell’epoca, va riconosciuto, ma che oggi si sono cementificati in diritti acquisiti inamovibili secondo certi soggetti, gli stessi che affermano l’Unione Europea non accetterebbe restrizione ai disciplinari di produzione e che, forse, non sono al corrente del precedente epocale che si intende mettere in atto su in Piemonte.

È impensabile che nella verde Irpinia, una delle province più ricche della Campania, ricchezza che trova fondamento attraverso la preesistenza di una grande Civiltà Contadina, vi sia un dilagante spopolamento, grosse carenze infrastrutturali ed alto tasso di disoccupazione. A dirlo la stessa Confindustria nel 2023. Evidentemente indicatori economici, come ad esempio il prodotto interno lordo, non rispecchiano sempre la realtà media vissuta dalle persone comuni, con il risultato che l’Irpinia sta morendo. Il bello è che Il 29 giugno del 2022, in presenza dello stesso Matteo Ascheri, ospitato dal neo insediato Consorzio di Tutela Vini d’Irpinia presso l’Istituto Enologico “De Sanctis”, durante l’evento “Taurasi, the King of Southern Italy”, ci si riempiva abbondantemente la bocca a parlare di tali gravi problemi e del calo delle nascite persino in centri densamente abitati come Atripalda.

Tornando alla questione imbottigliatori, essa non getta certo ombre sulla rispettabilità e il livello qualitativo raggiunto dalle tantissime cantine avellinesi, ma apre certamente a delle considerazioni che il Consorzio di Tutela Vini d’Irpina, suo malgrado, dovrà affrontare. La situazione per la compagine consortile, insediatasi quasi due anni fa, è decisamente complessa da affrontare, considerando l’aver ereditato un ventennio scomodo, ma occorre lavorare per dare valore ai viticoltori, vero anello debole della catena, e favorire un ragionevole aumento del prezzo dell’uva, senza millantare reticenze da parte della comunità europea sulle variazioni di disciplinare ed evitando che il tacito ricatto di vedersi poi le uve invendute, per via delle auspicabili restrizioni a imbottigliare fuori, possano verificarsi. Occorre che il vino costituisca tangibilmente la prima base, in quanto prodotto più fortunato in agricoltura, e venga impiegato come mezzo di crescita per le economie di prossimità in seno alla comunità locale.

Irpinia, amara terra mia…

Esiste sempre un prima e un dopo. Ancor di più pensando alla famiglia Mastroberardino (dal lontano 1800 ad oggi, nessuno escluso). Esiste infatti un’Irpinia con o senza di loro. Da nativo avellinese non posso che pensare ai due cugini, Piero e Paolo, rispettivamente figli di Antonio e Walter, con dolcezza e particolare affetto, per motivazioni e ricordi eterogenei.

Archivio storico della dinastia Mastroberardino

Ho sempre visto il primo un degno erede nel ruolo di studioso e propagatore commerciale di vini che hanno reso celebre questo piccolo angolo campano, dalle pronunciate pendenze, ricco di boschi e di natura a tratti ancora incontaminata. Un’Istituzione per chiunque abbia nelle vene tracce di Fiano, Greco, Coda di Volpe e Aglianico clone Taurasi. Il secondo invece, preparatissimo nella gestione agronomica della vigna, la spontaneità fatta persona nel bene e nel male, dato che non te le manda a dire quando sente “castronerie”. E per fortuna! Entrambi i rami di questa meravigliosa famiglia, ormai separata da strade diverse da oltre un trentennio, hanno contribuito e contribuiscono in maniera decisiva alla salvaguardia delle varietà d’uva autoctone irpine, uniti da un sottile filo rosso fatto di cultura, passione, veracità.

Uno scorcio di una delle grotte del Castello Marchionale a Taurasi

A loro andrebbe l’eterna gratitudine di un territorio che cerca da sempre un faro guida, schiacciato tra individualismi, dispettucci puerili e posizioni estreme inutili e dannose. Le nuove leve, abituate ad un contesto comunicativo completamente diverso dai genitori, apportano già linfa vitale e lunga prospettiva, a patto di riuscire a mantenere saldo il “capo in mano”, senza l’intervento invasivo e la stretta sorveglianza dei grandi vecchi. La saggezza non sempre si lega al pragmatismo.

La locandina dell’evento

Annosa questione che in Irpinia, dove non mancano certo spirito imprenditoriale e possibilità economiche, non ti aspetteresti: il problema del corretto passaggio di poteri generazionale. Infine, last but not least, la presenza influente dei grandi imbottigliatori, attenti unicamente ai bilanci societari in attivo, e di aziende nate sotto altri profili lanciatesi poi nel complicato settore vitivinicolo, dove non basta una bella etichetta a fare il monaco (e neanche il vino). Risultato? Potenziale tutt’ora parzialmente inespresso, confusione di stili e prezzi ampiamente sotto il valore reale per molti prodotti di qualità.

L’intitolazione della Piazzetta Antonio Mastroberardino

In tale scenario contemporaneo, intitolare una piazza del comune di Taurasi ad Antonio Mastroberardino, Cavaliere al Merito del Lavoro, alla presenza delle Autorità, è un segnale di speranza e fiducia per il prossimo futuro. Ci si aspettava, e lo dico da cronista appassionato, un’attenzione differente da alcuni operatori del settore. Non certo dagli organi della stampa accorsi in massa all’evento, testimoni di un passato difficile dove negli scarsi numeri si trovava comunque unità, rispetto e condivisione d’intenti.

Piero Mastroberardino non nasconde le emozioni palpitanti ai microfoni di 20Italie, complice anche il riconoscimento del suo Taurasi Riserva 2016 Radici nella top five wines of the world di Wine Spectator. Francamente facciamo fatica anche noi a farlo; il resto sono polemiche sterili e parole al vento, comprese quelle del sottoscritto, che nulla aggiungono al quadro d’insieme. I fatti contano e allora mi chiedo: perché non tramutare anche in Irpinia l’assunto del Gattopardo “se vogliamo che tutto rimanga come è bisogna che tutto cambi” nella splendida aria conclusiva del Guglielmo Tell di Rossini “tutto cangia il ciel s’abella”?

Visita all’Acquedotto Campano Sorgente del Torano

Visita consentita grazie allo Staff Tecnico Amministrativo Impianti e Reti del ciclo integrato delle acque di rilevanza regionale

L’acqua è vita. Lo sanno benissimo le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, quando scarseggia nel soddisfare il fabbisogno quotidiano per alimentarsi. Sì, perché l’acqua è essa stessa un alimento indispensabile alla sopravvivenza; il movimento survivalista affermava che possiamo stare 3 minuti senza aria, 3 giorni senza acqua e ben 3 settimane senza cibo.

Si comprende il senso dell’importanza strategica di avere una rete strutturale pubblica in cui le perdite vengano ridotte al minimo. A ciò bisogna aggiungere il rispetto che ognuno di noi deve avere per un bene di primaria importanza, facilmente deperibile e contaminabile.

Le risorse del pianeta Terra non sono infinite e l’Acquedotto Campano Sorgente del Torano è un fulgido esempio di come si possano evitare gli sprechi sfruttando le antiche costruzioni borboniche, migliorando la qualità complessiva degli invasi e delle tubazioni di affluenza e sanificando le stesse con piccole percentuali di sostanze clorate per rendere il liquido potabile fino ai rubinetti delle nostre case.

Due le sorgenti – Torano e Maretto – che attraversavano Piedimonte Matese, con un impatto ambientale mitigato proprio dall’Acquedotto, presidio anche contro le sicure esondazioni che un clima ormai impazzito amplifica per frequenza e onda distruttiva.

La Sorgente del Torano ha, a seconda della stagione, una portata variabile tra i 1.000 ed i 2.800 l/s
Mentre la Sorgente del Maretto ha, a seconda della stagione, una portata variabile tra i 600 ed i 1.200
l/s. Dalla Sorgente Torano (circa 200 m slm) parte il percorso dell’Acquedotto Campano. Presso la Centrale Torano vi confluiscono le acque della Sorgente Maretto e presso la vasca di riunione in località Madonna del Bagno (circa 190 m slm) a Gioia Sannitica le acque provenienti da Bojano (Sorgenti Santa Maria dei Rivoli, Pietrecadute e Rio Freddo), ovvero dal versante molisano del Matese.

L’Acquedotto arriva così a portate di punta di circa 6.000 l/s. Da qui, per circa 30 km, una serie di opere gallerie, canali sotterranei, ponti canali, sifoni, due attraversamenti del fiume Volturno – conducono
le acque, sfruttando il solo dislivello e senza impianti di sollevamento, al Nodo di San Clemente (presso Caserta, circa 170 m slm), da cui si diramano oltre 20 Km di condotte che attraversano la pianura campana fino ai serbatoi che alimentano Napoli, le aree flegrea e vesuviana e – tramite una condotta sottomarina – le isole di Procida ed Ischia.

Lo Staff addetto alla gestione dell’acquedotto ha aperto le porte a 20Italie di questo prodigio d’ingegneria idraulica ben custodito dall’Amministrazione Pubblica della Regione Campania.

Un esempio finalmente virtuoso di come sappiamo fare le cose per bene al pari, se non meglio di tante altre realtà. Numeri alla mano si intende. Un ringraziamento particolare anche alle associazioni Viatoribus e Love Matese per averci insegnato che territorio e cura dello stesso sono fattori inscindibili per il futuro.

Buon Natale da 20Italie

Comincia una nuova rubrica settimanale all’interno del palinsesto di 20Italie. L’abbiamo chiamata L’editoriale del lunedì, con lo scopo di offrire spunti di riflessione ed informazioni utili a chi vive nella quotidianità il settore enogastronomico. Il ruolo sarà quello di semplici spettatori imparziali: non troverete mai giudizi tagliati con l’accetta o premonizioni sul futuro in stile Nostradamus.

L’anno vissuto è stato ricco di emozioni, a cominciare dalla coda conclusiva dell’incubo pandemia, relegata per sempre ai ricordi sbiaditi di un momento difficilissimo per il mondo intero. I numeri, in particolare quelli del vino, gridano vittoria in numerose tipologie e la fiducia del consumatore medio ha raggiunto livelli impensabili fino a qualche anno fa. Ben poco aggiungono o tolgono al prodotto finale le polemiche sul Brunello di Montalcino 2018 di Argiano, miglior vino al mondo per Wine Spectator. O la storia del “piccolo chimico” della trasmissione Report, che nel marasma generale di un servizio bulimico ha evidenziato (in maniera molto grossolana e con delle imprecisioni), alcuni temi caldi che andrebbero invece affrontati in sedi diverse.

Manchiamo, a volte, di sano spirito d’autocritica rischiando di trincerarci dietro il motto “tutto va bene madama la Marchesa”; non va tutto bene (lo sappiamo perfettamente) e di sicuro la dualità tra aziende da grandi numeri e piccoli produttori artigianali continuerà anche nel 2024, rappresentando l’ostacolo maggiore nei rapporti di forza del settore enologico. Il vino sta diventando sempre più fenomeno di massa, con prezzi ormai fuori da qualsiasi logica di mercato, dimenticando il delicato potere di rappresentare un territorio e le sue tradizioni. Il paese di Bengodi, dove i 30 denari di Giuda si sono moltiplicati all’infinito, ha prodotto storture e artifici legalmente validi, ma eticamente discutibili.

Chiudiamo con una punta di tristezza nel ricordo di un imprenditore campano scomparso all’alba della Vigilia per un drammatico incidente: Luciano Bifulco. Di lui scrissi qualche anno fa per un’altra testata, ammirandone l’operato nelle sue moltiplici attività da allevatore, produttore e commerciante di carni. Non ultimo il progetto riuscito di realizzare un ristorante braceria in stile gourmet nella sua sede di Ottaviano, per creare cultura gastronomica. Ricorderò sempre il sorriso di un uomo soddisfatto del suo sogno e l’amarezza degli ostacoli che doveva superare ogni giorno. Lo rividi l’anno scorso e parlammo proprio degli enormi rincari della bolletta energetica, per mantenere le sue celle frigo ad ambiente e pressione controllata, opera d’ingegneria aerospaziale.

Alla sua splendida famiglia l’abbraccio del sottoscritto e di tutta la redazione. Il tempo di fermarci a riflettere su quanto sia breve e aleatoria la nostra esistenza non è mai abbastanza: il 2024 è alle porte e speriamo porti con sé notizie più lievi… e polemiche meno sterili.

Buon Natale da 20Italie.