Bosco de’ Medici, viticoltura di qualità all’ombra del Vesuvio

Giuseppe Palomba, rappresentante dell'azienda Bosco de' Medici, presenta ai nostri "microfoni", un percorso fatto di tradizione e modernità.

Ignoriamo, per un attimo, dove ci troviamo e a che punto del percorso di qualità sia giunta la viticoltura in Campania. Cancelliamo pure gli anni bui dell’enologia del “dopo”: quelli del dopoguerra e dopo terremoto. Gli strascichi dell’assurda villania contro ambiente e territorio. Le naturali, miopi diffidenze verso i pionieri della modernità e l’apporto positivo delle giovani leve. Chiediamoci piuttosto cosa possa trascinare verso la notorietà produttiva un determinato luogo. Parlare di Vesuvio vuol dire parlare della forza del Vulcano, di terreni scuri e caldi che scrocchiano sotto i piedi, di vini tesi e potenti con una vena minerale spinta, frammista a nerbo acido e agrumato. In sintesi l’animo mediterraneo che si fonde nei ricordi di chi vive realtà in profonda trasformazione. Alzi la mano chi non ha sentito il profumo dei fiori di gelsomino, delle foglie di limone, di un rametto di rosmarino. Per non dimenticare il sapore del cedro maturo e della ciliegia appena colta dall’albero, eterne madeleine proustiane che, come il fegato di Prometeo, ricrescono a ogni morso della mente.

In tale contesto, Giuseppe Palomba dell’azienda Bosco de’ Medici rappresenta degnamente il ruolo da erede di una dinastia di coltivatori avveduti e preparati. Il nome della cantina prende spunto da un fatto storico, quando nel 1567 un ramo della dinastia fiorentina dei Medici si trasferì nel Regno di Napoli, acquistandone un feudo. Luigi de’ Medici, Primo Ministro del Regno, desideroso di arricchire la cantina della residenza napoletana con nobili vini del feudo, affidò al nipote prediletto il compito di elevare la qualità dei vini di famiglia. Qui la fillossera non ha attecchito; le viti crescono ancora a “piede franco”, senza bisogno di essere innestate su radici di vite americana.

Le tradizioni consentono ancora l’espansione dei filari per propaggine e l’allevamento a pergola ed alberello romano con pali di sostegno in castagno. Il prezzo da pagare consiste, però, nel dover curare ogni aspetto in modo manuale e maniacale, lavorando con forza e sacrificio gli arcigni terreni. A ciò si aggiunge il rispetto per metodologie millenarie, quando a Pompei si produceva il cosidetto Vinum Pompeianum che veniva invecchiato anche 25 anni.

Alcune famiglie si erano specializzate nella viticoltura e facevano sostare il mosto nelle anfore, per ottenere il “mulsum”, un vino dolcificato con l’aggiunta di miele: queste tecniche di affinamento sono rimaste valide e simili a quelle odierne, al punto tale da essere seguite da molti produttori locali. L’esempio più evidente sono i “dolia”, recipienti di terracotta che nella fase di fermentazione, per controllare la temperatura, venivano interrati.

Varietà a bacca bianca quali Caprettone e Falanghina, nonché Piedirosso e Aglianico per quelle a bacca rossa. Tutti autoctoni storici ai quali si aggiunge il recupero di ceppi antichissimi quali Uva del Conte, Catalanesca e Uva Cavalla che Bosco de’ Medici sta sperimentando in purezza, grazie alla consulenza dell’enologo Vincenzo Mercurio.

Una vera e propria cantina gioiello, con una parte riservata a fattoria didattica e un luxury resort completato da piscina con vista sul Vesuvio, che offre in aggiunta alla produzione vitivinicola un’ampia filiera di prodotti della terra a km zero, come passate di pomodoro, legumi nostrani e marmellate di arance. 

E veniamo dunque al nocciolo della questione: l’assaggio dei vini aziendali. Si parte dal bianco d’ingresso il Pompeii Bianco assaggiato sia 2020, attualmente in commercio, che nella vintage 2017.

La differenza sostanziale la da la sosta in anfora, 100% macerata per la versione agée dagli straordinari richiami di ginestra, albicocca disidratata, zafferano e scorza di cedro. Sorso lungo, dinamico ed appagante, che sfata il mai rinnegato tabù di una tipologia senza prospettive di resistenza al passare del tempo. La 2020 è ancora tagliente, in fase di assestamento con note di lime e gelsomino, ma promette equilibrio e durata persino maggiori della ’17.

Il Lavaflava Lacryma Christi Bianco 2020 blend di Caprettone e Falanghina rappresenta il deus ex machina delle loro etichette: agli inizi si voleva produrre soltanto questa tipologia. Il rammarico del nonno prima e di Giuseppe poi è di non poter rientrare nella Denominazione con le vigne di Pompei, causa non adeguamento del Disciplinare. Si deve pertanto ricorrere agli appezzamenti più lontani sempre di proprietà, nel territorio del comune di Terzigno, con il vigneto del “Colonnello”, chiamato così perchè nella metà del secolo scorso veniva utilizzato da un colonnello dell’esercito per trascorrere i suoi periodi di licenza. Il risultato è un vino eccellente per forza calorica, frutta quasi candita che richiama a tratti il lampone di bosco e una scia salmastra finale molto persistente.

Altro esperimento riuscito il Dressel 19.2 in pochissimi esemplari, dedicato all’archeologo tedesco cui Pompei deve la notorietà internazionale. Dall’estesa particella “La rotonda”, che prende il nome dalla sua forma circolare ed offre una magnifica vista panoramica che dal golfo di Napoli a quello di Salerno. Caprettone 100% vinificato in anfora con macerazioni comprese tra 20 e 40 giorni senza controllo di temperatura. Sorso pieno ed appagante che vira verso nuance mielose e speziate per finire verso cioccolato bianco in polvere.

Chiudiamo con una veloce trattazione dei rossi, evidenziando la spinta fortemente bianchista di Giuseppe, con il Pompeii 2020 da uve piedirosso e tipiche sensazioni di guarrigue, ribes nero, chiodi di garofano ed arancia tarocca. Anche qui, nel parallelo con la 2017 si evidenzia nella seconda un equilibrio maggiore, tra note voluttuose di amarene mature, china e pepe nero. L’Agathos 2018 è la versione in tonneaux di secondo passaggio dal grande potenziale. Un gusto che ammicca a determinati mercati esteri, anche con un prezzo elevato, ma che non disdegna quello italiano non essendo presenti temute invadenze boisé di prodotti similari.

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Luca Matarazzo

Giornalista, appassionato di cibo e vino fin dalla culla. Una carriera da degustatore e relatore A.I.S. che ha inizio nel lontano 2012 e prosegue oggi dall’altra parte della barricata, sui banchi di assaggio, in qualità di esperto del settore. Giudice in numerosi concorsi enologici italiani ed esteri, provo amore puro verso le produzioni di nicchia e lo stile italiano imitato in tutto il mondo. Ambasciatore del Sagrantino di Montefalco per il 2021 e dell’Albana di Romagna per il 2022, nonché secondo al Master sul Vermentino, inseguo da sempre l’idea vincente di chi sa osare con un prodotto inatteso che spiazzi il palato.

2 commenti su “Bosco de’ Medici, viticoltura di qualità all’ombra del Vesuvio

  1. Ottima interpretazione di qualità e professionalità affiancata da un saggio livello gastronomico.Risultato che brucia i tempi,ottimo

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