di Matteo Paganelli
Il grande cantautore Lando Fiorini in una delle sue celebri canzoni recitava “Faje sentì ch’è quasi primavera”. C’è da dire che dopo le tristi notizie riguardanti il maltempo è molto piacevole passare una bella giornata di piena primavera proprio in Capitale, e qual miglior modo per farlo se non partecipando a uno dei press tour del progetto “Roma ha un cuore DiVino”.
Il progetto è nato dall’idea del Consorzio di Tutela Vini Roma DOC, soprattutto grazie alla volontà del suo presidente Tullio Galassini, e all’organizzazione meticolosa delle agenzie MG Logos di Maria Grazia D’Agata e Stefano Carboni e Gheusis di Silvia Baratta.
La giornata di oggi, Tour Marino, prende il nome proprio da uno dei comuni su cui la denominazione insiste. Siamo esattamente a sud-est rispetto alla capitale, sui Colli Albani nell’area dei Castelli Romani, in una specie di morsa fra il vulcano Albano (uno dei due vulcani di Roma, entrambi ancora attivi ma dormienti), i laghi Albano e Di Nemi e il mare.
Il tour parte dalla cantina Gotto D’Oro, situata nel comune di Marino, indubbiamente la realtà più grande di tutta la regione Laziale. Grande non solo per i 1000 ettari vitati e i 7 milioni di bottiglie prodotte annualmente, ma anche a motivo della loro storicità che prende vita nel lontano dopoguerra. È il 1945 quando un gruppo di 41 viticoltori costituisce il consorzio denominato “Cantina Sociale Cooperativa di Marino”. La sede dell’epoca era uno stabilimento dello Stato situato a Ciampino. Dobbiamo aspettare il 1973 per il trasferimento nell’attuale stabilimento di Frattocchie. Il principale motivo di crescita esponenziale della Gotto D’Oro è sicuramente da ricercare nell’intuizione che il vino si potesse anche esportare (inizialmente era distribuito solo nel territorio circostante) e quindi questo rese necessaria la precoce realizzazione di una linea completa di imbottigliamento e di conseguenza, di uno stabilimento che potesse accogliere la crescita di volumi.
Al momento della visita, l’azienda è purtroppo ancora stretta nel cordoglio per la recentissima perdita di Luigi Caporicci, storico presidente della cantina. Siamo quindi ancora più grati dell’ospitalità che ci è stata mostrata. Veniamo accolti da Marco Zanibellato, tecnico responsabile di laboratorio, il quale ci accompagna lungo tutte le fasi del processo. Processo che inizia dalla ricezione delle uve in grandi vasche di conferimento. Uve che nonostante vengano prodotte da soci conferitori, sono oggetto di analisi specifiche e approfondite prima di essere processate. La visita prosegue visionando le presse soffici pneumatiche e le vasche di affinamento divise fra inox e cemento che condividono una capienza totale di ben 400.000 ettolitri. La linea di imbottigliamento e confezionamento è un serpentone molto tecnologico dove abbiamo avuto la possibilità di vedere dal vivo una cadenza di ben 7.700 bottiglie/ora.
L’eterna lotta “quantità vs qualità” trova una risposta chiara nel 2016, anno di nascita di Vinea Domini, nuova linea che rappresenta l’emblema della qualità Gotto D’Oro. L’idea nasce in realtà anni prima, nel 2004, quando l’azienda, spinta dalla curva positiva delle vendite, si chiese se non fosse il caso di investire anche in un prodotto di nicchia. Vengono quindi impiantati nuovi vigneti che sono quelli utilizzati tuttora per la produzione di questa linea premium. Etichette che possono vantare della denominazione Roma DOC, ad avvalorare il concetto di qualità. Le produzioni si assestano sulle 25.000 bottiglie per i Roma DOC Bianco e Roma DOC Rosso mentre sono in media 6.000 le bottiglie che escono in Roma DOC con la specificazione del monovitigno.
Fra i vari vini in degustazione, a colpire particolarmente è il Roma DOC Malvasia Puntinata Vinea Domini 2022. Di colore giallo verdolino con spiccati riflessi dorati, l’aspetto suscita già interesse. Scorre bene nel calice e quando avvicinato al naso dona spiccate note di erbe officinali unite a ginepro, cipresso e menta piperita. Il frutto arriva poco dopo in aromi di pesca bianca ed albicocca. A colpire è un equilibrio già centrato, merito di una freschezza presente ma non esuberante e un calore contenuto. La persistenza lunga sancisce definitivamente la qualità del prodotto.
La mattinata prosegue veloce e ci spostiamo di pochi km più a nord, precisamente a Frascati, per la visita a Cantine San Marco. L’azienda prende il nome dal colle su cui sorgeva inizialmente; dobbiamo infatti fare un bel balzo indietro per conoscere la sua storia. È il 1972 quando Umberto Notarnicola e Bruno Violo intraprendono la sfida per riuscire a promuovere il Frascati, vino d’eccellenza della zona, nel mondo. Se pensiamo solamente a quanto sia diffuso oggi il nome Frascati, soprattutto nel panorama oltreoceano, possiamo affermare che ci sono riusciti. Una loro bottiglia appare pure nella scena di un film, “Il talento di Mr. Ripley” (Paramount Pictures, 1999).
Oggi l’azienda è pilotata dai figli di Umberto e Bruno, Danilo e Pietro, che si dividono equamente i compiti manageriali. È proprio Pietro a guidarci in visita nel loro stabilimento atto a produrre ben 3 milioni di bottiglie/anno. Anche in questo caso il processo inizia con il ricevimento delle uve. A chi storce il naso supponendo che in questi casi non si abbia controllo di ciò che avvenga in vigna, mi preme sottolineare che i soci conferitori sono in realtà piccolissimi proprietari che in media possiedono appena 1 ettaro ciascuno. Questo si traduce nella possibilità di poter contare su un’attenzione meticolosa nella cura dei vigneti sommata al grosso vantaggio di un supporto agronomico/enologico centralizzato in San Marco.
Pietro ci fa notare che l’export occupa un buon 50% della loro produzione, e che nonostante i loro flussi siano impostati con la metodologia just-in-time (in perfetto stile Lean Production), i tempi legati all’esportazione dilatino al punto che si deve aspettare fino a 4 mesi dopo la spedizione per poter vedere quella bottiglia stappata sul tavolo di qualche cliente Americano, Cinese o Indiano. Questo non è affatto banale se si pensa al lavoro che si cela dietro al garantire un’aromaticità longeva, ottenuta grazie a criomacerazioni mirate. Le Malvasie Laziali, a dispetto del nome, non sono vitigni aromatici bensì neutri. La versatilità delle ben 25 referenze, oltre a dare la possibilità di poter provvedere prodotti per il mondo Ho.Re.Ca. che si potessero distinguere da quelli destinati alla GDO, ha permesso di poter dedicare una linea alla denominazione Roma DOC.
La giornata termina con la visita a Cantina Gaffino, ubicata più a sud, ad Ardea, esattamente a metà fra Castel Gandolfo e il mare (che dista in linea d’aria appena 18 km). Ciò che più colpisce appena arrivati sono i vigneti: puliti e ordinati, oserei dire “pettinati”, con una ricercatezza sulla perfetta ramificazione di ogni singola pianta e un’omogeneità priva di fallanze. Ad accoglierci calorosamente è Gabriele Gaffino, titolare dell’azienda. Gabriele ci parla di come suo nonno, Lucchese di origine ed ex giocatore in borsa, trasferitosi a Roma ebbe l’intuizione di acquistare nel 1961 il podere sul quale oggi sorge l’azienda, che ad oggi può vantare la certificazione biologica sui 28 ettari vitati. Dobbiamo però aspettare il 2014 per vedere l’intera produzione dalla vite alla bottiglia (prima le uve venivano conferite a una cantina sociale), anno in cui fu proprio Gabriele a impostare il suo personale stile vinicolo. Dobbiamo dire che la scelta ha dato i suoi frutti: dalla prima vendemmia del 2015 ad oggi, infatti, la produzione ha raggiunto le 75.000 bottiglie/anno.
Anche Gabriele ha scelto di uscire con alcune delle sue etichette all’interno della denominazione Roma DOC. Addirittura abbiamo avuto il privilegio di poter degustare una piccola verticale del loro Roma DOC Rosso, nelle annate 2018-2019-2020. Il confronto è un puro lettore dell’annata dato che lo stile è rimasto sempre il medesimo: Montepulciano e Sangiovese in blend rispettivamente al 60%-40%, rimontaggi durante tutta la fase di fermentazione e macerazione sulle bucce, poi successiva pressatura soffice e riposo delle masse per metà in acciaio e metà in legno piccolo. Affinamento in bottiglia per lo stesso tempo passato in inox/barrique. L’annata 2020, quella attualmente in commercio, è probabilmente quella di maggior interesse. Discreta trasparenza che aiuta a notare i riflessi purpurei all’interno di un rosso rubino molto intenso. Un naso che chiama immediatamente sentori di arancia sanguinella in succo, erbe aromatiche fresche come la salvia e una speziatura di pepe nero e chiodi di garofano. Al palato l’acidità è la componente principale ma gradevolmente non invadente, con un tannino percettibile e un alcol perfettamente integrato. Sapidità che invita al sorso e sposta ancora di più il vino sulle durezze, ma che si fa apprezzare proprio per questo motivo.
A conclusione della giornata ho constatato come i produttori di questa zona abbiano fermamente creduto al progetto Roma DOC, nonostante in ognuna di queste zone esistessero già altre denominazioni. Un motivo è da ricercare forse nel fatto che la nuova denominazione abbracci anche vitigni a bacca rossa, in modo da includere in un disciplinare, sinonimo di controllo e garanzia, vini che diversamente potrebbero uscire solo nella più generica Lazio IGT. Ma, probabilmente, il motivo principale è insito proprio nel nome: Roma. Con la sua potenza al semplice pronunciare quelle due sillabe, l’importanza e la responsabilità che riveste l’affacciarsi al mondo circostante come a dire “ci siamo anche noi, non siamo solo la capitale d’Italia ma siamo un popolo con una storia vitivinicola che vogliamo farvi conoscere”. E il Consorzio, devo ammettere che ci stia riuscendo bene.